mercoledì 9 settembre 2009

Pianazze/6, l'intervento del vescovo Brambilla

La Chiesa, Comunione e Missione

S.E. mons. Franco Giulio Brambilla,Vescovo ausiliare di Milano, Preside Facoltà Teologica interregionale
Premessa
«Meditazione sulla Chiesa», titolava un libro che ha affascinato il tempo della mia giovinezza. L'aveva scritto un teologo, Henri de Lubac, cui deve molto la teologia del Novecento. È un testo luminoso, contemplativo, eppure è un'opera scritta nella tribolazione. Proprio mentre la chiesa sembrava non comprendere il senso del suo lavoro teologico. Nella forma singolare del titolo "meditazione sulla chiesa" forse è racchiuso uno sguardo. Lo sguardo che occorre avere sulla chiesa. Né un'osservazione distante di chi s'immagina la chiesa come un terzo incomodo tra il credente e Cristo, né un'identità frettolosa che faccia dimenticare che la chiesa deve rinviare al Si­gnore Gesù. Pertanto una riflessione sulla chiesa è oggi difficile. Forse non così come lo era anni addietro, quando lo slogan corrente proclamava: «Gesù sì, Chiesa no». Certo in un modo diverso, perché oggi si apprezza la chiesa, la comunità, la parrocchia quando è calda nicchia, gruppo aggregante, comunità psichica, oppure quando diventa stazione di soccorso per guarire i mali di oggi.

Il Documento preparatorio di Verona ricorda una bella espressione: "La comunione e la missione sono due nomi di uno stesso incontro": (n. 4). Vorrei delineare il senso della missione della chiesa in due tappe:
- la prima, con un testo biblico;
- la seconda, raccogliendo alcune indicazioni emerse dal Convegno di Verona.

Sono come due tavole per riscaldare il cuore della missione.
1. La comunione che nasce dall’annuncio
Lasciamoci istruire dal prologo della prima lettera di Giovanni. Esso è molto semplice. Ci presenta la Chiesa non come una "cosa" davanti al credente, ma come un evento che genera e alimenta la vita del discepolo. Giovanni sorprende la Chiesa nel suo momento sorgivo, in statu nascenti, come il grembo in cui nasce l'esperienza cristiana.
1 Giovanni 1, 1-4
1 Gv 1, 1 Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita 2(poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), 3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. 4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.

Il brano è uno tra i più belli della Scrittura e si può suddividere in tre momenti
Il primo momento
Il primo momento corrisponde al primo versetto. «Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato...». Sembra che Giovanni descriva il cammino fin qui percorso: abbiamo visto, contemplato, ascoltato, toccato con mano il mistero di Dio che si rende presente nella carne di Gesù e che ci fa suoi discepoli. A questo punto ci aspetteremmo che Giovanni indichi l'oggetto della sua contemplazione, menzionando Gesù di Nazaret. Invece l'evangelista ci conduce fino a questo punto e poi ‑ come il suo solito ‑ ci fa fare il salto: «... ossia il Verbo della vita». Vale a dire: la Parola della vita.
Che cosa hanno visto, ascoltato, contemplato e toccato gli apostoli? Che cosa ci annunciano? Che cosa abbiamo contemplato sin qui?
Un uomo, una persona che parla le nostre parole, che condivide i nostri sentimenti, che si avvicina a noi, che fascia le nostre ferite, che guarisce il nostro cuore, che accoglie su di sé la pecorella smarrita, che mangia con i peccatori. In tutto ciò, nella parabola che è Gesù, che è la vita di Gesù, noi abbiamo trovato ‑ dice Giovanni ‑ la Parola della vita. È un'espressione stupenda!
Si potrebbe tradurre in due modi: la parola che è la vita e che dà la vita, o forse che dà la vita perché è la vita.
Gesù è affascinante per ogni uomo perché in lui può scorgere la sorgente della vita. Il termine «Parola» (Lógos) è intraducibile: significa infatti verbo, parola creatrice, significato vitale, chiave di volta, principio di comprensione, anima del mondo. Abbiamo incontrato esattamente questo lungo il nostro cammino...

Il primo movimento del ritmo della Chiesa è allora il seguente. Il fondamento della Chiesa non può essere che l'esperienza viva di Gesù di Nazaret. In maniera sorprendente sono implicati tutti i sensi spirituali: udito, vista, tatto, sguardo contemplativo. L'incontro con Gesù non è solo questione dell'anima. Noi possiamo incontrarlo con la totalità del nostro io, della nostra persona e, dunque, della nostra esperienza.

Il testo, poi, mette al versetto 2, in una frase tra parentesi, una specie di nota. Gli antichi non usavano le note a piè di pagina, ma le introducevano nel testo direttamente. Giustamente la traduzione colloca il v. 2 tra parentesi: «Poiché la vita si è fatta visibile ‑ spiega Giovanni nella nota ‑ noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e si è fatta visibile a noi». Quello che prima Giovanni ha descritto in forma ascendente: dalla storia di Gesù fino alla Parola che è e che dà la vita; poi lo afferma in modo discendente. Perché nessuno sospetti che la Parola della vita intravista nella carne di Gesù sia una proiezione, una conquista dell'impegno, una produzione dell'ingegno.
Il secondo momento
Il secondo momento del ritmo della Chiesa la descrive nel suo sorgere (v. 3). «Quello che abbiamo visto e udito...» ‑ il verso 3 riprende i1 filo sospeso alla prima frase ‑ «... noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi».
L'apostolo, la comunità (l'apostolo non usa il singolare, ma si colloca dentro il "noi" apostolico), la comunione dei discepoli annuncia la sua esperienza viva di Gesù. Lo annuncia in un'esperienza, ma l'esperienza non si ripiega su di sé, non mette in mostra se stessa, bensì rimanda oltre, perché chi ascolta l'apostolo incontri Lui. E dice: “è passato in mezzo a noi, è morto e risorto, lo annunciamo anche a voi, perché voi siate in comunione con noi”.
La Chiesa nasce così: nasce come una comunione attorno all'annuncio dell'apostolo e della comunità apostolica. Non semplicemente perché abitiamo sullo stesso territorio e ci troviamo nel medesimo luogo. Non perché semplicemente celebriamo alcuni gesti tutte le domeniche. Non perché siamo iscritti anagraficamente alla comunità dei cristiani con il battesimo. Noi siamo nella Chiesa perché realizziamo ogni giorno la comunione attorno all'annuncio apostolico.
Il modo con cui noi siamo venuti alla fede dice anche che cosa è la Chiesa o, meglio, chi è la Chiesa.
Non siamo venuti alla fede perché ci è stato trasmesso un libro o una tavola di principi, ma perché ci è stata trasmessa la Parola, che dà la vita, da una comunità apostolica che è fatta dalle persone più semplici:
- dalla mamma e dal papà, che ci hanno insegnato a balbettare per la prima volta Dio con il nome di Padre e a chiamare Gesù quando ci portavano sulle braccia; dalla comunità, dal sacerdote, dal catechista che ci hanno introdotto nei sacramenti dell'iniziazione cristiana;
- dalle persone significative che ci hanno accompagnato fino ai momenti della vita adulta, ai momenti difficili o decisivi della nostra esistenza.

Quando abbiamo perso il papà o la mamma, quando siamo rimasti soli, quando abbiamo scelto di rispondere alla vocazione, quando abbiamo varcato la soglia della chiesa per camminare in una comunità di fratelli... lì non siamo stati i primi, né abbiamo camminato da soli. Possiamo dire che il secondo momento della Chiesa ci pone nello spazio della visibilità: è la Chiesa che si raduna attorno a un annuncio.
Il terzo momento
Il terzo momento è introdotto da un'espressione inattesa. «La nostra comunione...» (non c'è più un "noi" e un "voi", ma ormai è la "nostra" comunione; non c'è più il «noi» della comunità apostolica e il «voi» di chi ascolta, bensì è la «nostra» comunione dell'annuncio trasmesso e accolto: è una comunità sola attorno all'annuncio).
E Giovanni aggiunge poi in maniera inaspettata: «... è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo».
La nostra comunione ‑ quella che realizziamo nelle nostre case, quella che viviamo nella parrocchia ‑ non è un vago segno, non è un rimando incerto alla nostra comunione con Dio, ma è la comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.
Non c'è altra strada per incontrare il Padre e il Figlio‑ il volto cristiano di Dio ‑ che attraverso questa "nostra" comunione. Per questo, forse, oggi si fa così fatica a incontrarlo! Non c'è altra via, per incontrare il Dio cristiano, che attraverso la comunione visibile.
La comunione invisibile con Dio non passa accanto o a lato dei legami visibili, ma questi sono il segno reale dell'altra.
La comunità credente non può essere un optional, o semplicemente un effetto dell'annuncio della parola. Non si dà evangelo ‑ la buona relazione al Signore ‑ se non dentro la trama di relazioni ecclesiali, luogo dell'accoglienza della Parola, come parola della vita.
La chiesa è l'evangelo accolto, la parola di vita nel prisma della risposta credente, la voce di Gesù che fa eco nel discepolo, la Pasqua del Signore che crea la comunità, l'incontro con Lui che perdona il nostro tradimento e rigenera la nostra solitudine, il dono del suo Spirito che riconcilia le nostre separazioni e solitudini.

In questa comunione è presente il Signore, appare l'icona della comunione trinitaria, il volto trinitario di Dio. E dov'è ‑ si dirà ‑ lo Spirito Santo?
Non è assente o dimenticato, ma è presente come l'atmosfera che collega i tre momenti del ritmo della Chiesa.
Nella prima lettera di Giovanni lo Spirito, è "diffuso" nel clima dello scritto rivolto alla comunità apostolica, costituisce l'atmosfera dell'esortazione alla comunione fraterna, oltre ad essere menzionato in forma esplicita: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito», 1 Gv 4,13.

E alla fine Giovanni conclude: «4Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta» (v. 4). La gioia è il contrassegno della comunione, che unisce e cementa la relazione visibile e l'ascesa a Dio. Non occorre temere di usare l'espressione di Giovanni: «La nostra gioia sia perfetta». La "nostra" gioia è perfetta, quando è la relazione di uomini e donne che hanno trovato pienamente se stessi, che sono contenti, perché insieme hanno sperimentato la Parola che è e dà la vita. E se c'è una gioia, se c'è una contentezza, è quando gli uomini sperimentano un brandello, un frammento, “della comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1 Gv 1, 3).
2. Da Verona tre messaggi per la missione
Ora vorrei declinare questo scenario della Chiesa come comunione che nasce dall'annuncio, richiamando tre messaggi emersi dal Convegno della chiesa italiana a Verona. Mi sembrano particolarmente opportuni per far trovare la dimensione pastorale della missione.
2.1. Il primo messaggio del Convegno di Verona
Il primo messaggio riprende l'insistente richiamo al "primato dell'evangelizzazione" e alla "coscienza missionaria" della Chiesa italiana. Lo ha ricordato a Verona il card. Tettamanzi, Presidente del Convegno, quando ha ricordato il cammino di avvenuta maturazione della "coscienza evangelizzatrice" della Chiesa italiana, mantenendo acuto il senso della "distanza" creatasi tra la fede cristiana e la mentalità moderna. Egli ha interpretato tale distanza come un'opportunità per custodire la differenza della fede cristiana, la sua specificità che «rilancia l'originalità, di più la novità ‑ unica e universale ‑ della speranza cristiana, il DNA cristiano della speranza presente e operante nella storia». Ribadendo però, più avanti, che tale speranza «possiede un formidabile potere di trasformazione sulla visione, di più sull'esperienza odierna dell'uomo».
Il card. Ruini ne ha parlato nei termini di un' «primo obiettivo per il dopo Convegno» e come «il principale criterio intorno al quale configurare e rinnovare progressivamente la vita delle nostre comunità».

In questa cornice, si è inserito il Discorso di Benedetto XVI alla Fiera. Il messaggio del Papa ai delegati ha disegnato davanti agli occhi di tutti il quadro dell'inizio di pontificato, inserendolo nel tema del Convegno e nel contesto spirituale e culturale dell'Italia. Lo ha fatto riconoscendo la singolarità dell'Italia sotto il profilo spirituale e culturale. Qui il Pontefice ha speso parole impegnative, parlando dell'Italia come di un «terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per tale testimonianza». Per un verso il contesto italiano condivide con la cultura occidentale ‑ osserva il Papa ‑ l'atteggiamento di autosufficienza che sta generando un nuovo costume di vita, contrassegnato da una ragione strumentale e calcolante, e dall'assolutizzazione della libertà individuale come sorgente dei valori etici. Dio viene espunto dall'orizzonte della vita pubblica, ma questo si ritorce in un deperimento del senso e in una privatezza della coscienza della quale patisce l'uomo stesso, ridotto a un semplice prodotto della natura. Così la rivendicazione moderna dell'autonomia del soggetto e della libertà perde la spinta propulsiva che l'aveva mossa e finisce per aver torto proprio là dove aveva ragione.
Per l'altro verso il Papa parla della specificità dell'Italia come di un terreno ancora favorevole per la testimonianza cristiana, elencandone con grande accuratezza i tratti: presenza capillare alla vita della gente; tradizioni cristiane radicate e rinnovate nello sforzo di evangelizzazione per le famiglie e i giovani; reazione delle coscienze di fronte a un'etica individualistica; possibilità di dialogo con segmenti della cultura che percepiscono l'insufficienza di una visione strumentale della ragione, ecc. Ciò suscita un appassionato appello del Papa a «cogliere questa grande opportunità», perché rappresenta «un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all'Europa e al mondo».

Questa specificità dell'Italia non è ‑ credo ‑ una concessione di maniera, perché la invita a riscoprire la sua vocazione ad essere, per così dire, un ponte gettato tra Gerusalemme e Atene, e a riprendere la vena zampillante del cattolicesimo italiano che percorre il «legame costitutivo tra la fede cristiana e la ragione autentica» (card. Ruini). Su questo legame si è distesa la grande architettura del discorso di papa Benedetto. Lo ha fatto, anzitutto, riprendendo il tema centrale del suo magistero: mostrare la fede come il grande "sì" all'uomo, perché è il sì di Dio in Gesù.
Il motivo di fondo di una evangelizzazione/testimonianza capace di dire il grande "sì" della fede, di far palpitare il centro del cristianesimo, è stato poi svolto da Benedetto XVI con una sorta di dittico, che ha molto impressionato per la forza del disegno e la chiarezza dell'esposizione. È questo il motivo di fondo del Pontificato, che si è sviluppato sia nella direzione del confronto con la forma moderna della ragione, sia nella linea del bisogno dell'uomo di amare e di essere amato, per aprirlo a incontrare il volto agapico di Dio.

Sarebbe bello riprendere i tratti specifici della situazione italiana appena ricordati dallo stesso Pontefice. Potrebbero essere tutti raccolti attorno all'immagine del cattolicesimo italiano che si sa debitore di una tradizione di pensiero, ma soprattutto di una prassi credente che è fiduciosa della possibilità di aprire le forme pratiche della vita umana, eredi di una ricca tradizione culturale, per dire la novità del vangelo della Pasqua e la speranza del Risorto. Per questo esso, da un lato, si mostra sospettoso dinanzi a una forma della ragione astorica e strumentale e a una concezione etica individualistica e, dall'altro, continua ad alimentarsi alla corrente viva della sua tradizione spirituale, che non ha patito i rigori del razionalismo d'oltralpe e ha sempre visto con disagio una concezione immediatistica della fede, a prescindere dal debito che essa intrattiene con le forme trasmesse del credere e con le forme pratiche del vivere. Certo il giudizio storico sulla capacità di tenuta di questa originale tradizione spirituale e culturale italiana, oggi pervasa spesso da motivi di importazione della mentalità e teologia francese e tedesca, è sospeso alla sfida di una sua ripresa creativa.

L'insistito richiamo del Papa alla necessità della evangelizzazione di stabilire il legame con la "ragione autentica" va sviluppato con forza non solo nella direzione di aprire la ragione alla fede, ma di declinare il debito che la coscienza ha con le forme pratiche della vita, socialmente costituite e culturalmente mediate, in cui essa necessariamente si esprime e costruisce il proprio futuro di speranza decidendo insieme di sé. La presenza capillare del cattolicesimo italiano alla vita della gente non ha solo i1 senso, per altro nobile, di una prossimità all'esistenza delle persone, ma ha il rilievo di una sapienza che si sa debitrice della propria tradizione culturale che è sempre da capo una promessa e un appello per rivisitare creativamente le forme pratiche del credere dentro le esperienze quotidiane della vita.
Potremmo dirlo, forse, con l'affermazione più forte della "sintesi conclusiva" del card. Ruini: «questa attenzione alle persone e alle famiglie deve assumere però un preciso orientamento dinamico: non basta cioè "attendere" la gente, ma occorre "andare" a loro e soprattutto "entrare" nella loro vita concreta e quotidiana, comprese le case in cui abitano, i luoghi in cui lavorano, i linguaggi che adoperano, l'atmosfera culturale che respirano». Perché non è possibile dire la differenza cristiana che dentro le forme culturali dell'esperienza umana. Soprattutto quelle originarie che costruiscono la trama di fondo delle esperienze di prossimità: la relazione uomo-donna, il legame tra le generazioni, il rapporto fraterno, l'alleanza sociale, l'impegno per le situazioni di bisogno.
2.2. Il secondo messaggio del Convegno di Verona
Il secondo messaggio del Convegno si staglia su questo sfondo. La figura testimoniale della Chiesa è il luogo in cui si attua il primato dell'evangelizzazione. Provo a indicare le tre sottolineature più importanti:
- la figura storica dell'evangelizzazione,
- lo stile con cui elaborarla,
- le figure da mettere in campo.
La figura storica dell'evangelizzazione
In primo luogo, la figura storica con cui riprendere il filo dell'evangelizzazione. Possiamo concentrare questa prospettiva pastorale sotto una cifra sintetica risuonata nel Convegno: la Chiesa italiana di questi anni intende privilegiare e coltivare in modo nuovo e creativo il volto `popolare " del cattolicesimo italiano. Ciò significa: la Chiesa deve prendersi cura anzitutto della coscienza delle persone, della loro crescita e testimonianza nel mondo.
Nella mia relazione di apertura ho cercato di tradurre questa istanza con queste parole: «Occorre che i gesti delle comunità cristiane favoriscano una cura amorevole della qualità della testimonianza cristiana, del valore della radice battesimale, dei modi con cui gli uomini e le donne, le famiglie, i ragazzi, gli adolescenti, i giovani e gli anziani danno futuro alla vita e costruiscono storie di fraternità evangelica.
"Popolarità" del cristianesimo non significa la scelta di basso profilo di un "cristianesimo minimo", ma la sfida che la tradizione tutta italiana di una fede presente sul territorio sia capace di rianimare la vita quotidiana delle persone, di illuminare le diverse stagioni dell'esistenza, di essere significativa negli ambienti del lavoro e del tempo libero, di plasmare le forme culturali della coscienza civile e degli orientamenti ideali del paese.
Popolarità del cristianesimo è allora la scelta della "misura alta della vita cristiana ordinaria" (NMI, 31), che deve servire alla coscienza dei singoli e al ministero pastorale per acquisire una maggiore sapienza evangelica di ciò che è in gioco nelle forme quotidiane dell'esperienza cristiana. Così potrà dare volto a una sapienza cristiana evangelicamente consapevole e culturalmente competente».
La singolarità dell'Italia richiamata dal Pontefice, che riconosce una particolare attenzione alla sua tradizione spirituale e culturale, appella a una ripresa creativa della linfa più viva della forma storica del cattolicesimo italiano, istintivamente insofferente per ogni forma di gelido razionalismo e di intimismo religioso.
Lo stile con cui elaborarla
In secondo luogo, lo stile della evangelizzazione esige di dare smalto alla modalità comunionale della testimonianza.
Forse è giunto il tempo favorevole per una "sinodalità" che veda partecipare alla missione della chiesa tutte le forze del cattolicesimo italiano, ciascuno con il suo dono e la sua responsabilità. Ecclesialità e sinodalità sono insieme un affectus e uno stile:
- un affectus perché oggi «si danno opportunità inedite e urgenze più forti per vivere una comunione ecclesiale più ampia, più intensa, più responsabile e, proprio per questo, più missionaria» (Tettamanzi);
- e uno stile dal momento che «diviene ancora più evidente la necessità di comunione e di un impegno più sinergico tra i laici cristiani e tra le loro diverse forme di aggregazione, mentre si rivelano privi di fondamento gli atteggiamenti concorrenziali e i timori reciproci» (Ruini).
- Un affectus e uno stile che si radicano nell'ecclesiologia di comunione, che, prima di essere un compito, è la forma testimoniale dell'evangelizzazione e la sottolineatura tipica del Convegno. Nessuno può pensare di comunicare Cristo da solo, perché nessuno diventa discepolo e segue il Signore in modo isolato: i profeti e i pionieri del NT, anche quando fanno da battistrada della speranza e disegnano le vie del futuro, lo fanno come membri di una comunità credente e per affascinare altri all'unico incontro con Gesù risorto.
Le figure da mettere in campo.
In terzo luogo, ci si è concentrati sulle figure dell'evangelizzazione.
In molti interventi prima del Convegno cresceva la pressione per mettere a fuoco il tema dei laici. Il titolo dato all'assise, però, favoriva una considerazione non separata del laico, con il conseguente accanimento a cercarne la specificità, spesso da difendere gelosamente contro altre figure ecclesiali. Infatti la prospettiva, con cui parlare del laico, è cambiata sia nel clima ecclesiale, sia nella riflessione teologica.
L'atmosfera ecclesiale dell'ultimo decennio, proprio in un'ottica missionaria, tende a situare la missione dei laici nella comune vocazione di "testimoni" del vangelo ricevuto, del mistero celebrato e della comunione vissuta, da trasmettere nella chiesa e nel mondo.
Il tema teologico della testimonianza è stato fecondo perché rappresenta anche lo stadio più consapevole della teologia del laicato, che ne definisce la specificità non in termini essenzialistici, ma a partire dalla comune radice battesimale, che si colora poi delle diverse condizioni di testimonianza: la famiglia, la professione, i ministeri ecclesiali, l'impegno sociale, il servizio di volontariato, l'impegno politico, la missio ad gentes.
2.3. Il terzo messaggio del Convegno di Verona
Infine, il terzo messaggio del Convegno di Verona ne presenta forse l'aspetto più innovativo. Si tratta della inusuale articolazione dell'agire pastorale negli ambiti a tema a Verona. Non è qui il luogo per dar conto della ricchezza delle cinque relazioni di ambito, del lavoro dei trenta gruppi e delle sintesi dei cinque ambiti presentatati in aula. Sarebbe in ogni caso un'interessante istantanea del cattolicesimo italiano sulla soglia del Terzo millennio.
Mi pare sufficiente soffermarmi sull'elemento forse più nuovo del Convegno di Verona, apprezzato da molti anche prima dell'inizio dell'incontro nella città scaligera. Molti hanno potuto sperimentare l'obiettivo che si prefiggeva la scansione degli ambiti di esercizio della testimonianza: l'unità della pastorale della chiesa va ricondotta all'unità della persona e alla sua capacità di evidenziare la dimensione antropologica dell'agire missionario della chiesa.
Questa obiettivo è stato focalizzato anzitutto dai protagonisti. Il card. Tettamanzi, infatti, ha affermato: «Ora la speranza cristiana, grazie alla novità dei suoi contenuti e in concreto all'esperienza di Dio e dell'uomo che essa genera e alimenta, possiede un formidabile potere di trasformazione sulla visione, di più sull'esperienza odierna dell'uomo: vale a dire su l'immagine e la concezione della persona, l'inizio e il termine della vita, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, l'educazione e la trasmissione dei valori, la sollecitudine verso il bisogno, i modi della cittadinanza e della legalità, le figure della convivenza tra le religioni e le culture e i popoli tutti».
E al termine del Convegno il card. Ruini ha indicato il significato dell'elaborazione degli ambiti per l'azione pastorale del futuro: «Per parte mia vorrei solo confermare che il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell'esperienza umana e tutti insieme confluenti nell'unità della persona e della sua coscienza, ci ha offerto un'impostazione della vita e della pastorale della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all'impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull'unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all'unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l'annunzio e l'insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità» (corsivo mio).

Mi sembra utile riflettere sulle prospettive che qui si aprono. Forse potrebbe essere il frutto più promettente del Convegno. Occorre ripensare l'unità della pastorale, articolata nelle funzioni e/o uffici della Chiesa (Parola, Sacramento, Carità/comunione e Carità/servizio), incentrandola maggiormente sull'unità della persona, sulla rilevanza educativa e formativa che queste funzioni possono avere.
Credo che si debba aggiungere: non si tratta di sostituire al criterio ecclesiologico la rilevanza antropologica nel disegnare l'unità e l'articolazione della missione della Chiesa, quanto invece di mostrare che la pastorale in prospettiva missionaria deve sapere in ogni caso condurre l'uomo all'incontro con la speranza viva del Risorto.
Diversa è, infatti, la funzione del criterio ecclesiologico e della rilevanza antropologica: lo schema dei tria munera dice l'unità della missione della Chiesa negli elementi che la costituiscono come dono dall'alto, ne dice l'eccedenza irriducibile a ogni cosiddetto umanesimo; il rilievo antropologico dell'azione pastorale della Chiesa, destinato all'unità della persona e alla figura buona della vita che vuole suscitare, dice l'insonne compito dell'agire missionario della Chiesa di dirsi dentro le forme universali dell'esperienza, che sono sempre connotate dall'ethos culturale e dalle forme civili di un'epoca. Saper mostrare la qualità antropologica dei gesti della Chiesa è oggi un'urgenza non solo dettata dal momento culturale moderno e post, ma è un istanza imprescindibile per dire che il Vangelo è per l'uomo e per la pienezza della vita personale.

Ciò rappresenta effettivamente una sfida nuova. Occorrerà immaginare che cosa significhi questo per lo stile pastorale dei ministri del vangelo e prima ancora per la testimonianza del credente. Questa lettura forte del lavoro degli ambiti potrà mostrare il suo carattere promettente e collocare nella giusta cornice anche l'ultimo accento risuonato a Verona. Quello che riguarda, per così dire, i "luoghi sensibili" (personali e sociali) del confronto della visione cristiana sul mondo con le altre prospettive culturali sull'uomo e sulla società.
L'indicazione del Papa è stata univoca: i necessari discernimenti critici della coscienza cristiana sui temi civili e sociali che hanno un forte impatto morale (i cosiddetti temi "non negoziabili") sono da presentare come dei "no" che sappiano sempre far intuire e rimandare al grande "sì" della fede all'uomo e al suo destino.

Qui si colloca anche la singolare testimonianza del credente, con la sua autonomia di giudizio critico e di presenza civile, ma anche con la sua specifica responsabilità di alimentarsi alla visione cristiana della vita. Ne è venuta un'indicazione e un'esigenza per un confronto più serrato tra le varie anime del cattolicesimo italiano, il bisogno di un`identità aperta" che sappia apprezzare le diverse prospettive culturali, anzitutto tra i cristiani, per trovare l'unità dei credenti nell'unità della fede e della Chiesa. E tenere la diversità di opzioni sociali e politiche nella dialettica fruttuosa di chi si colloca nell'arena civile forte di una coscienza morale e di una passione civile che non solo non demonizza gli altri, ma anzi ha bisogno di riconoscere nell'altro la parte che manca inevitabilmente nella sua scelta storica. Solo facendo così si avrà un modello di convergenza dei cattolici non a spese della legittima pluralità, ma proprio attraverso di essa.

† Franco Giulio Brambilla

NB. Si ringrazia Vittorio Ciani per la collaborazione