Soffermo la mia attenzione su questo dialogo previsto dal Trattato, sapendo che il dialogo comporta l’ascolto reciproco, il confronto costruttivo, la discussione aperta. In particolare si tratta di vedere quali possono essere i temi da affrontare e, in secondo luogo, di trovare le modalità per attuare un dialogo regolare fra l’Unione europea e le Chiese e comunità religiose.
1. Alcuni temi di comune interesse
1.1. Parto dai temi, esplicitandone alcuni in riferimento al recente documento “Europa 2020, una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, presentato dal presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso il
Gli obiettivi della strategia europea dipendono dalla crescita economica, in quanto il “deficit di crescita”, come afferma Barroso, “mette il nostro futuro a rischio”. Il “deficit di crescita” riguarda l’economia: certamente nel contesto di grave crisi economica il presidente della Commissione non può che partire da questa situazione nella sua dichirazione programmatica. Gli altri obiettivi, qualitativi e sociali, di Europa 2020 sono per molti aspetti legati alla crescita economica. Ma non si può ignorare il rischio che la crescita economica, quanto mai necessaria, sia di fatto l’unico vero punto dell’attuale strategia europea. È lecito chiedersi se “il graduale declino dell’Europa” possa venir superato solo con l’auspicata crescita economica, dopo che lo stesso presidente parla del futuro europeo a rischio.
Vi sono anche – come è ben evidente – altri deficit di crescita, oltre a quello economico: sarebbe opportuno indicarli e affrontarli con le varie espressioni della società civile europea e con le Chiese e le comunità religiose.
Si tratta innanzi tutto di rilanciare l’idea stessa di Europa, si tratta di rendere l'Europa più vicina ai cittadini, si tratta di ricuperare, adattandoli alla nuova realtà europea, quell’idealità che ha dato origine al processo di unificazione europea.
Sappiamo bene quale fu la grande visione dei padri fondatori dell’Unione europea all’indomani della tragica guerra mondiale del
Grazie a questa visione lungimirante di un’Europa basata sui fondamenti della dignità umana, della pace, della libertà, del bene comune molta strada è stata fatta. Dobbiamo essere consapevoli del cammino percorso.
L’avventura europea, intrapresa con audacia da persone lungimiranti, ha fatto sì che i cittadini europei si incontrassero ed imparassero a conoscersi meglio. Così, rileggendo insieme la loro storia, i cittadini europei hanno scoperto quello che avevano ed hanno in comune, percependo meglio anche le loro differenze, viste però su questo fondamentale sfondo comune. Molte diffidenze legate al passato non sono ancora superate, certo, e il processo di conoscenza reciproca, di collaborazione, di politica comune è ancora lungo. E tuttavia l’idea europea sembra indiscussa, il destino comune europeo sembra segnato.
In verità, oggi questa idea di un’Europa unita sembra meno evidente, questo destino comune appare più incerto. Non si può far finta che una serie di ‘prese di distanza’ dal progetto di Costituzione (con il ‘no’ francese e olandese) e il rigetto del Trattato di Lisbona da parte di alcuni Stati, non abbiano provocato una certa crisi. Si è pensato che fosse solo una crisi istituzionale, in parte superabile – e forse superata – con una serie di rilevanti modifiche alla struttura dell’Unione europea. Così nel 2009 la Germania, l’Irlanda, la Polonia, la Repubblica Ceca hanno finalmente ratificato il Trattato di Lisbona, con non poca fatica e con qualche incognita. Forse l’opinione pubblica europea non ha avuto occasione di riflettere sulla decisione della Corte Costituzionale federale tedesca che doveva stabilire se e fino a che punto il Trattato di Lisbona era conforme alla Legge fondamentale tedesca. La risposta della Corte è stata positiva: il Trattato di Lisbona è compatibile. Ma la Corte ha pure sentenziato che ogni nuovo trasferimento di competenze all’Unione europea, che finora avveniva spesso silenziosamente, dovrà essere esplicitamente approvato dal Parlamento tedesco. Si vedrà nel prossimo futuro cosa significherà questa decisione della Corte Costituzionale della Repubblica federale tedesca. Per ora, comunque, la lunga fase di riflessione e di riorganizzazione istituzionale è in parte superata con la nuova Commissione europea entrata in funzione il 1º gennaio 2010.
1.2. Occorre allora partire da questa importante tappa per rilanciare culturalmente l’integrazione europea favorendo la centralità delle persone e della società civile, considerate troppo al margine del sistema. Un “nuovo inizio” appare necessario, come giustamente auspica Barroso, ma esso non può non interpellare il senso stesso del cammino europeo.
Pensiamo, ad esempio, al grande deficit demografico che caratterizza l’Europa. Se è grave la crisi economica, quella demografica è altrettanto grave, anzi, secondo parecchi studiosi, si tratta di due aspetti della stessa crisi. Il calo del tasso di natalità e l’invecchiamento della popolazione presentano un preoccupante futuro demografico. Vi sono esperti in demografia – come Gérard-Francois Dumont –, che parlano di “inverno demografico” per l’Europa. Questa situazione compromette lo sviluppo dei Paesi europei e rende più marginali i giovani che avranno meno politiche dedicate. Inoltre fa diminuire sempre più il peso geopolitico dell’Europa. Anche di questo deficit si deve parlare, cercando di favorire una primavera demografica anche attraverso lo sviluppo e l’attuazione politiche per la famiglia.
Pensiamo al ‘peso’ dell’aborto sulle società europee. Ogni anno nella sola Unione europea gli aborti praticati e censiti sono 1.207.646, mentre salgono a
Se l’Europa ignora l’inverno demografico e disattende la difesa della vita, fino a ritenere queste questioni insignificanti o di poco conto e comunque cause inutili e perse, rischia di trovarsi privata di quel basilare fondamento su cui si edifica la società.
Pensiamo poi alle grandi questioni che riguardano il modo di affrontare la pluralità di etnie, la multiculturalità e la interreligiosità nel nostro Continente europeo. Sappiamo quanto siano complesse e delicate queste questioni, ma sappiamo anche che, insieme e soprattutto alla luce della tradizioni culturali e religiose europee, è possibile affrontarle e offrire indicazioni che consentano di superare l’illusoria politica dello struzzo.
Pensiamo infine all’Anno europeo della lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, giustamente voluto dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo. Sappiamo che l’Unione europea ha proposto un “metodo aperto di coordinamento” delle strategie politiche contro la povertà, strategie che sono di competenza dei vari Stati membri, data sia la diversità delle situazioni di povertà sia la diversità degli strumenti per affrontarla. Forse sarebbe possibile un’azione più energica da parte dell’Unione per responsabilizzare maggiormente gli Stati. Anche per questo le Chiese e le comunità religiose possono essere di aiuto all’Unione europea, così come sono di grande aiuto nell’accompagnare le persone che vivono le diverse forme della precarietà. La COMECE e Caritas Europa hanno lanciato un appello perché il 14 febbraio scorso, festa dei Santi Cirillo e Metodio, vi fosse un segno di sensibilizzazione da parte delle Chiese che sono in Europa. Papa Benedetto XVI ha fatto visita all’Ostello della Caritas di Roma, un centro di accoglienza e di cura che porta il nome di don Luigi Di Liegro, il primo direttore della Caritas diocesana di Roma. In tale occasione, egli ha voluto incoraggiare tutti gli uomini a costruire un mondo degno dell’uomo, a far valere la carità come motore di sviluppo autentico e di una società più giusta, a riscoprire le dimensioni del dono e della gratuità come elementi costitutivi del vivere quotidiano. “Desidero incoraggiare non solo i cattolici – ha detto il Papa – ma ogni uomo di buona volontà, in particolare quanti hanno responsabilità nella pubblica amministrazione e nelle diverse istituzioni, ad impegnarsi nella costruzione di un futuro degno dell’uomo, riscoprendo nella carità la forza propulsiva per un autentico sviluppo e per la realizzazione di una società più giusta e fraterna”.
Credo che siano sufficienti questi pochi cenni per comprendere come la “crescita europea” non possa ignorare alcune questioni che meritano un serio approfondimento nel dialogo costruttivo fra l’Unione Europea e le Chiese e comunità religiose.
Concludo qui questo primo momento della riflessione ricordando che fin dal 1992 l’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors, disse: “Non edificheremo l’Europa solamente su fondamenta legali o sulla base di conoscenze economiche [...]. Se, nel prossimo decennio, non avremo saputo dare un’anima all’Europa, se non saremo stati in grado di infonderle spiritualità e senso, allora la partita sarà persa”. Proprio questo è l’ambito in cui la cultura europea può dare il suo contributo, ricuperando quell’orizzonte umanistico che nel passato ha saputo tenere insieme le diverse dimensioni della vita e adattandolo alle nuove realtà, senza appiattirsi sul tecnicismo, sulla burocrazia, sul pragmatismo: diventa difficile un “nuovo inizio” dimenticando proprio quell’anima europea culturale e spirituale, capace di dare senso al nostro impegno di costruttori dell’Europa unita. Solo in questo orizzonte più ampio e con l’apporto delle società civili e delle comunità religiose si possono affrontare temi vitali per il futuro europeo.
2. Come realizzare il dialogo
2.1. Oltre ai temi, si tratta di precisare il modo con cui attuare il dialogo ‘strutturato’ tra l’Unione europea e le Chiese e comunità religiose, in attuazione dell’art. 17 del Trattato di Lisbona: con quale metodo, con quali strumenti, con quali iniziative. Occorre innanzi tutto riconoscere che fin qui vi è stato un dialogo collaborativo che, sia pur in modo informale, ha favorito la reciproca stima e considerazione. Per quanto riguarda la COMECE (e dunque la Chiesa cattolica) si è passati da una sorta di servizio di informazione ad un centro di riflessione per le Conferenze episcopali fino ad arrivare a un “partenariato riconosciuto ufficialmente dal Trattato di Lisbona” (P. Huot-Pierroux, La COMECE a 30 ans, in Europe infos, n. 125, mars 2010, p. 11).
Ora è necessario compiere un altro passo per dare attuazione a questo “partenariato”.
Proprio questo passo ulteriore sembra essere diventato difficile, in quanto si è creata una situazione di impasse, su cui vale la pena di soffermarci.
Nel giugno 2008 la Commissione Europea ha previsto il cosiddetto Registro dei rappresentanti di interessi, con lo scopo di dare maggiore trasparenza all’interazione della UE con tutti i soggetti che, nelle parole della Commissione stessa, portano avanti “attività svolte al fine di influenzare l’elaborazione delle politiche e il processo decisionale delle istituzioni europee”. I dati da fornire alla Commissione in sede di registrazione riguardano principalmente le categorie di attività svolte, la dirigenza dell’organismo, gli obiettivi e i compiti, i centri di interesse, la struttura, le reti, i dati finanziari (anche se non dettagliati) e le attività di rappresentanza di interessi.
Tra le varie categorie previste da questo Registro, sotto le quali è possibile iscriversi, vi è anche quella di ‘Rappresentanti di religioni, Chiese e comunità laiche’. Al momento né la COMECE né la KEK-CEC sono iscritte nel registro.
2.2. L’iscrizione nel registro risulta problematica per le Chiese. Innanzi tutto per il nome dello strumento che fa riferimento alla rappresentanza di interessi (terminologia già in sé inadatta al ruolo delle Chiese) e ancor più fa diretto riferimento alle lobby e al lobbysmo (homepage, modulo di registrazione, almeno nella versione tedesca; lo stesso Commissario Kallas, già responsabile per il dossier, aveva ammesso la sostanziale sinonimia dei due termini; diversi chiari riferimenti anche nelle varie Comunicazioni emanate in tema dalla Commissione Europea dal 2006 ad oggi). In secondo luogo le Chiese si troverebbero racchiuse in un grande ‘contenitore’ principalmente ‘riempito’ da organizzazioni non governative, lobby di vario tipo ed altre entità, la cui natura e le cui attività non sono minimamente riconducibili a quelle delle Chiese.
D’altra parte la non iscrizione nel registro comporta vari ‘rischi’. Li accenno brevemente. Chi non si iscrive:
1. non ha il vantaggio dell’allerta automatica relativa alle (numerose) consultazioni lanciate dalla Commissione Europea;
2. vede i propri contributi considerati dalla Commissione come provenienti da un soggetto individuale (indipendentemente dalle reali dimensioni dell’organizzazione non registrata).
Inoltre, è da tenere presente che ultimamente alcune Direzioni generali della Commissione europea hanno autonomamente introdotto pratiche in base alle quali solo soggetti iscritti nel registro sono accettati in dialoghi strutturati e nelle piattaforme di dialogo.
Il quadro è reso ancora più complesso dal fatto che Commissione e Parlamento stanno lavorando per giungere ad un registro comune (anche il Parlamento europeo ha un proprio registro, anche se finalizzato unicamente a sistematizzare i soggetti dotati di badge di accesso agli edifici parlamentari e privo di categorie, a differenza di quello della Commissione).
Per completare il quadro, faccio presente che sono pervenute repliche alla lettera inviata dal Segretariato della COMECE ai Presidenti Buzek (Parlamento europeo) e Barroso (Presidente Commissione) nell’ottobre 2009. Il primo si è astenuto da commenti sul registro dell’altra istituzione (la Commissione), sottolineando però che il Parlamento, nel quadro dei negoziati per un registro comune, verrà guidato dalla risoluzione adottata dallo stesso nel maggio 2008 (nella quale il paragrafo 10 sembra implicitamente prevedere un’eccezione per le Chiese). Il secondo sottolineava di non condividere la posizione delle Chiese, considerando che tutti gli interlocutori della Commissione sono tenuti alla registrazione indipendentemente dalla natura dell’interazione (rilevando nel contempo che ciò non ha alcuna influenza e non intacca la natura e gli obiettivi del dialogo previsti dall’articolo Art. 17).
Lo sviluppo più recente è legato alla lettera inviata a febbraio dal Segretario della COMECE, unitamente a KEK-CEC e EKD (Chiesa Evangelica di Germania) al nuovo Commissario Maros Sefcovic, in vista di un incontro finalizzato a ribadire le difficoltà delle Chiese rispetto alla loro inclusione nel registro. Al momento non si hanno indicazioni precise rispetto alla data in cui tale evento potrà avere luogo. La richiesta delle Chiese continua ad essere quella di un registro separato che non faccia riferimento al lobbysmo o alla rappresentanza di interessi, ma alla loro natura di partner di dialogo ai sensi dell’Art. 17 TFUE (dialogo UE/Chiese e comunità religiose).
Conclusione
Le difficoltà di un dialogo strutturato e fruttuoso non devono scoraggiare le Chiese e le comunità religiose. Esse continueranno ad accompagnare il processo di unificazione europea con il loro incoraggiamento e con tutta la forza che la speranza evangelica offre alla riflessione e all’agire umano. Le Chiese, insieme alla società civile e alle autorità culturali, possono concorrere al rilancio del progetto europeo per far crescere quell’esperienza originale che si chiama Unione europea. Una crescita che non si limita al solo sviluppo economico, ma va oltre quella povera immagine dell’homo economicus, chiuso in se stesso, per favorire l’immagine di un uomo euroepo che riconosce i suoi legami con gli altri, con le sue radici, con la sua storia, con i suoi valori.
+ Gianni Ambrosio,
vescovo di Piacenza-Bobbio