Un pellegrinaggio laico sul luogo in cui solo quindici anni fa si consumò il peggiore massacro di civili in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.
Srebrenica, ovvero Potocari, a sei chilometri, il sito del memoriale, il sito della speranza sfumata. In questa cittadina della Bosnia Erzegovina, a pochi chilometri dalla Serbia, vennero uccise più di 8mila persone, a sangue freddo, colpevoli solo di essere musulmane. Altre quarantamila furono deportate in luoghi già islamizzati, decine di donne violentate in nome della pulizia etnica dei serbi di Ratko Mladic. Era l'11 luglio del 1995.
Quindici anni dopo, nell'indifferenza di una torrida estate, da Piacenza hanno percorso 1.200 chilometri e sono arrivati qui, moderni pellegrini del terzo millennio. Un piccolo gruppo guidato da Claudio Ferrari, professore di religione dell'Isii Marconi e consigliere comunale di Piacenza. Ma anche da Medaga Hodzic, bosniaco di Jajce, ingegnere, presidente dell'associazione "Bosnia Erzegovina oltre i confini" ed infaticabile costruttore di un ponte simbolico tra Piacenza, la città in cui vive con la famiglia, e la sua patria d'origine.
Srebrenica è oggi un mausoleo a cielo aperto, una cittadina racchiusa al fondo di una valle stretta tra montagne che sembrano i nostri Appennini, ricoperti da ciliegi, faggi e querce. Ma anche da distese di mine anti-uomo da recuperare e disinnescare. Cartelli rossi con teschi bianchi sugli alberi rendono così ancora più sinistro il percorso di avvicinamento se si esce dall'unica strada consigliata - non senza interesse - dalla polizia stradale bosniaca; famelica di multe come mai, per autosostenersi.
Un centinaio di case strette strette tra loro, alcune con i segni ancora evidenti della guerra, la maggioranza rattoppate alla bene e meglio. Qui vivono i serbi ortodossi fuggiti oggi da una Sarajevo sempre più musulmana. Qui vivevano i musulmani "cacciati" dalla pulizia etnica dei serbi. Ovvio che non siano ritornati. Intere famiglie sono state sterminate. Era sufficiente chiamarsi con un cognome musulmano per venire inseriti nella lista delle esecuzioni. Varnica, Vejzovic, Velic, tutti rigorosamente elencati in ordine alfabetico nella madre delle lapidi di Potacari. C'è anche un'intera colonna di Ibrahimovic. Lo "zingaro" del calcio ha i familiari originari di queste parti.
Tutto è pronto per la grande commemorazione del quindicesimo anno. Il memoriale inaugurato da Bill Clinton nel luogo dove l'Onu inviò le truppe olandesi "a difesa della città" è al centro di un set televisivo. Telecamere, fari, luci, treppiedi, zoom, obiettivi schierati ad immortalare quello che si annuncia il più grande funerale della storia moderna. Ben 775 casse bardate di verde con i resti di musulmani uccisi, identificati solo grazie al Dna, verranno per l'occasione aggiunte al fianco delle centinaia che già popolano il memoriale di Potocari. Ci si parcheggia l'auto proprio di fianco, sotto i tappeti cuciti dalle madri e dalle mogli di Srebrenica con i nomi dei morti.
Arrivano alla spicciolata i parenti, i politici, i militari, tutti coloro che hanno voluto portare la loro solidarietà in questo momento così privato e così pubblico allo stesso modo. «Ho quattro figli e mio marito qui sotto, cinque fratelli più in là» piange una donna con il velo indicando la parte opposta del memoriale-cimitero, dove le lapidi bianche portano tutte un'unica data finale: 11-07-1995. Il mondo, per Srebrenica, è finito allora. E' arrivata il giorno prima della celebrazione solenne, per evitare lo stress dei funerali trasmessi in diretta Tv. Altri non ce l'hanno fatta.
«Srebrenica, mi viene la pelle d'oca solo a sentire il nome» dice il custode della moschea di Travnik, Rasim Hadzida, una sorta di nostro arciprete ma laico, quando comprende la meta del pellegrinaggio. «Io là non ci vado; è troppo forte il dolore e la mia anima è spezzata» scuote la testa Vehid Gunic, presentatore tv e giornalista sportivo molto conosciuto nella ex Jugoslavia, una sorta di Bruno Pizzul bosniaco. La sua tragedia non si è compiuta lassù, nella città protetta dalle Nazioni Unite, ma a Sarajevo. Durante l'assedio una granata serba colpì una scuola elementare. Sua moglie stava insegnando in quella classe. Morì assieme a sei piccoli alunni. Oggi la scuola porta il suo nome: Fatima.
Federico Frighi
Da Libertà, 21 luglio 2010