Rivolgo a tutti, fratelli e sorelle, il mio saluto più cordiale. Saluto il vescovo di Parma, l’amico mons. Enrico Solmi. Saluto tutti i sacerdoti e i diaconi. Saluto il sindaco, il prefetto, il questore, tutte le autorità civili e militari che ringrazio per la loro presenza e per la loro amicizia.
1. Nel giorno della festa di sant’Antonino, tutta la comunità piacentina si ritrova per onorare il patrono della città e della diocesi. Nel giovane Antonino, che ha confessato la sua fede in Gesù Cristo fino al martirio, Piacenza ha riconosciuto il suo speciale patrono, quasi il garante della sua identità. Nel corso dei molti secoli la nostra comunità ha trovato nella figura e nell’esempio di questo giovane martire la luce che illumina il cammino, la concordia che anima la vita comune, la forza che vince gli ostacoli. E noi, oggi, dopo diciassette secoli, ancora una volta ci rivolgiamo a Lui per sollecitare la sua intercessione e il suo aiuto.
2. Vi confesso, cari amici, che sono rimasto sorpreso, appena a conoscenza della mia destinazione a Vescovo di questa amata Chiesa, che il nostro patrono non fosse la figura di un grande vescovo, come sant’Eusebio per la mia diocesi o sant’Ambrogio per Milano o san Petronio per Bologna o san Bernardo degli Uberti per la diocesi di Parma. Qui invece non vi è come patrono un grande vescovo, che pure non manca nella nostra storia: penso al primo vescovo san Vittore, e ancor più, penso a san Savino, che lottò contro il paganesimo e l’eresia ariana e che, secondo la tradizione, ebbe rapporti con sant’Ambrogio di Milano e san Bassiano di Lodi.
Qui abbiamo come patrono un giovane. Se sul suo conto poche sono le notizie certe, ciò che conosciamo è prezioso e decisivo: quel giovane ha creduto nel Signore Gesù testimoniando la sua fede fino al martirio.
A noi non è giunta neppure una parola del nostro patrono, ma il suo gesto è eloquente: è il gesto di un giovane che afferma il primato del Dio vivo su ogni imperatore di turno, il gesto di un giovane che vuole essere fedele alla verità di Dio ed essere fedele alla propria libertà. Questo gesto sta all’origine della nostra comunità piacentina.
La giovane e piccola comunità cristiana piacentina ha ritenuto che questo giovane che ha creduto fino al dono della sua vita meritasse di essere invocato come patrono: in Antonino è ben riconoscibile il segno e la presenza di Gesù che dona la sua vita per noi.
Questo pure deve aver pensato il vescovo san Savino, cui si deve il rinvenimento del corpo del nostro patrono: in questo giovane testimone di Gesù Cristo, il vescovo trova il riferimento sicuro per la fede, per la libertà, per la coerenza di vita della comunità cristiana.
Sono trascorsi molti secoli da allora. Noi siamo qui, in questa basilica dedicata al santo patrono e che conserva le sue reliquie, per riesprimere la stessa scelta, la stessa fiducia e la stessa invocazione della comunità cristiana di allora che voluto sant’Antonino come patrono. Ne invochiamo la protezione sulla nostra città, sui suoi abitanti, sugli amministratori della polis. Per tutti chiediamo ciò che conta, e cioè la fede, la speranza e la carità, la concordia, la pace e la libertà. Così la comunità cresce cercando il bene di ciascuno e di tutti.
2. Possiamo dare un nome preciso a questo bene che invochiamo e che ricerchiamo accogliendo la precisa indicazione nel brano del Vangelo che la liturgia ci ha proposto. Ascoltiamo Gesù che conferisce alle sue parole una solennità particolarmente accentuata: "In verità, in verità, io vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto".
L’immagine del chicco di frumento che marcisce nella terra per generare nuove spighe è di grande efficacia e rende prontamente il nucleo del messaggio di Gesù. Questo testo dell’evangelista Giovanni offre una formulazione originale dell’immagine del chicco di grano: se non morisse, resterebbe solo.
Gesù è il Figlio unigenito, è unico nella sua natura assolutamente singolare. Ma non vuole restare solo, isolato rispetto agli uomini. Egli è il Figlio e vuole che tutti noi, con Lui, diventiamo figli. Accettando di morire, egli è come il seme che non resta solo, ma porta frutto. Nella sua morte viene generata una moltitudine di figli del Padre, e perciò egli diventa il fratello di molti fratelli. Non a caso nel vangelo di Giovanni Gesù chiama i suoi discepoli "fratelli", soltanto dopo la sua morte, perché proprio questa morte ha infranto le barriere dell’unicità e della solitudine per suscitare la comunione, la condivisione.
Questa legge del chicco di grano non vale soltanto per il Figlio di Dio, ma vale per tutti: "chi ama la sua vita la perde". Chi pensa solo alla propria autorealizzazione, ha posto la premessa per fallire l’obiettivo dell’esistenza umana. Chi pensa solo ai propri interessi, si illude e ha già perso in partenza l’orizzonte degno della vita. L’affermazione di Gesù è perentoria: "chi ama la sua vita la perde". Ma è perentoria e senza eccezioni la legge della fecondità del chicco di grano: se non marcisce, non porta alcun frutto.
Il senso pieno di queste affermazioni lo troviamo nelle frasi successive: "Se uno mi vuole servire, mi segua (…), se uno serve me, il Padre lo onorerà".
Vi è un ‘se’ all’inizio della frase: "se uno mi vuol servire". Ancora una volta troviamo espressa la realtà, come la troviamo nella legge della fecondità del chicco di grano. Il servizio è libero: non può che essere così. Solo nella libertà e nella generosità si afferra la vita e si segue Gesù che è la via, la verità e la vita.
A sottolineare questo tratto di libertà e di generosità nel servizio, Giovanni fa ricorso al vocabolario della diaconia, che si contrappone al servizio dello schiavo, un servizio che non è tale, perché imposto. Il discepolo che entra nella logica del servizio, entra nella vita e nella comunione di vita, con Gesù e con il Padre.
È espresso così in modo efficace il "tesoro" della verità evangelica: la fede cristiana non è un’idea, non è un’astratta adesione a dei princìpi, ma è una relazione, un incontro, una relazione, un’esperienza di presenza e di comunione che si realizza nella concretezza del servizio.
Allora la parola che precisa quel bene verso cui tendere è questa: ‘servizio’. Servizio reso a Gesù, accogliendo in noi il suo sguardo, il suo orizzonte, la sua morte in croce; servizio reso ai fratelli, comunicando loro la gioia di aver incontrato Gesù e di seguirlo là dove egli è, mettendo anche noi il grembiule per lavare i piedi, come egli ha fatto nell’ultima cena.
3. Cari amici, può darsi che questa verità appaia ad alcuni come una questione che riguarda i cristiani, i credenti in Gesù Cristo. E così è, certamente. Siamo qui come comunità cristiana per rendere grazie a Dio in questa basilica dedicata a sant’Antonino. Ma proprio in nome di Antonino, che non era un vescovo, ma era un giovane, forse un soldato, oso dire che questa verità non è per qualcuno, ma è per tutti. Oso anche dire che è nell’interesse di tutti riconoscere la fecondità del chicco di grano che marcisce e così porta frutti. È un affare di tutti riconoscere che solo nella libertà, nella generosità, nel servizio si afferra la vita e si dà senso alle vicende della vita.
Sono, questi, gli orizzonti imprescindibili della vita umana. Sono, queste, le dimensioni che qualificano la vita e la rendono pienamente umana e profondamente cristiana. Se una certa insensibilità a questi orizzonti si è ormai diffusa anche da noi, se una certa indifferenza a queste dimensioni si è ormai propagata nella convinzione che esse riguardano solo alcuni, allora occorre far valere le ragioni che spingono verso una visione autenticamente umana della vita, soprattutto oggi, anche nella nostra città come nel nostro Paese e nella nostra Europa.
Se queste ragioni sembrano sfuggirci, se questa visione dell’esistenza umana ci appare lontana, ciò è dovuto al fatto che siamo immersi in un sistema di pensiero nebbioso che non privilegia più né sapienza, né intelletto, né ricerca del vero e del bene.
Ne soffriamo tutti.
Ne soffre la politica, perché tende a non essere ricerca del bene comune attraverso il confronto e il dialogo, disposti a rinunce ragionevoli in vista di un bene comune più grande e più condiviso. Essa tende invece a diventare una continua richiesta di singoli e di gruppi di interesse, con un succedersi di veti incrociati, che rende faticoso, intricato, poco trasparente il governo della cosa pubblica.
Ne soffre il costume etico, rischiosamente esposto non solo allo scadimento, ma all’inconsistenza, al vuoto. Se si esalta il soggettivismo esasperato, se tutte le posizioni sono equiparate in modo indiscriminato, allora è inevitabile che finisca col prevalere la posizione che suona immediatamente più facile, più piacevole, meno impegnativa. Non si ricerca più una società "buona", verso cui tendere, ma ci si accetta una convivenza fiacca, opaca, senza forma, senza dignità.
Ne soffre la cultura, e cioè la visione del mondo e dell’uomo, quasi insensibile alle sollecitazioni della ricerca del significato delle cose, della vita, delle relazioni. E’ soffocante una cultura che si ferma a ciò che appare, dominata da una ragione che vuole essere "misura di tutte le cose", dopo averle appiattite secondo un criterio che risponde solo alla logica dell’utilità e del dominio.
Ne soffrono la famiglia e la scuola, per la debolezza e la fragilità psicologica e affettiva delle relazioni familiari e per le difficoltà del compito educativo.
Ne soffrono i giovani, come purtroppo vediamo. Si stanno profilando situazioni che hanno caratteristiche quasi inedite, che vanno dalla demotivazione scolastica ai vari casi di relazioni difficili con forme di violenza sugli altri o su se stessi.
Se nessuno può stare a guardare, non può certo la nostra Chiesa limitarsi a considerazioni più o meno preoccupate. Per questo intende impegnarsi in questi prossimi anni per la Missione popolare diocesana e per la questione educativa. Questo impegno, lo sottolineo ancora, è per il bene di tutti, sapendo che l’educazione è affare di tutti e che tutti sono chiamati a quel bene grande che ha il nome di ‘servizio’.
Sappiamo anche, come afferma san Paolo nella seconda lettura, che "noi abbiamo un tesoro in vasi di creta". San Paolo conosce bene la fragilità umana, le difficoltà, gli ostacoli. Anche a noi non sfuggono, in quanto ne facciamo esperienza quotidiana. Ma Paolo ricorda che il "tesoro" della verità cristiana a noi affidata in "vasi di creta", si trasmette attraverso la nostra povertà e la nostra debolezza, "perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi".
Carissimi fratelli, ci rivolgiamo a sant’Antonino, nostro patrono e nostro amico presso il Signore della storia, perché ci aiuti ad affrontare questi impegni con coraggiosa saggezza: a tutti doni la luce della verità, la forza della speranza, la serenità del cuore. Amen.
†Gianni Ambrosio
Vescovo di Piacenza-Bobbio
Le motivazioni del Vescovo
nell’accogliere l’Antonino d’oro.
Ringrazio di cuore tutti i canonici di questa basilica e in particolare don Giuseppe Basini per questa onorificenza dell’Antonino d’oro 2009. Don Giuseppe, quando è venuto a sottopormi la proposta o la decisione dei canonici, non ha subito ricevuto la mia approvazione. Non l’ha neppure pretesa. Mi ha solo detto: "le lascio la lettera con le motivazioni e poi Lei decida, liberamente". Mi sono consultato e ho accettato.
Sono tre i motivi che mi hanno indotto ad accogliere – e con gioia – questo premio.
Il primo è sant’Antonino stesso. Parecchi anni fa, avevo preparato un corso sui pellegrinaggi, soprattutto in Terra Santa. Così mi capitò tra le mani l’Itinerarium Antonini Placentini: un prezioso diario di viaggio, purtroppo alquanto ignoto ai piacentini, attributo per secoli ad Antonino, che descrive il viaggio di un pellegrino di Piacenza che, con alcuni compagni, parte dalla nostra città per recarsi in Terrasanta negli anni 560-570. Lo studio più approfondito, in argomento, è quello di una cara professoressa dell’Università Cattolica di Milano, Celestina Milani. Da questo diario ho tratto il mio motto episcopale: vestigia Christi sequentes. Sono le parole con cui questo pellegrino, nelle prime righe, motiva il pellegrinaggio in Terra Santa: per camminare sulle orme di Cristo. A fine luglio, se Dio vorrà, con cento giovani della nostra Chiesa, tornerò in Terra Santa, per lo stesso motivo, camminare sulle orme di Cristo.
Il secondo è più personale: questo premio è un segno di affetto nei miei confronti e con grande affetto lo accolgo.
Poi vi è un terzo motivo, più ecclesiale, dovuto al legame tra il vescovo e il suo popolo. Non c’è popolo senza vescovo e non c’è vescovo senza popolo. Così questo legame viene descritto da san Giovanni Crisostomo in una sua nota omelia: "Noi siamo un solo corpo e non si separa il capo dal corpo, né il corpo dal capo…" (San Giovanni Crisostomo, Prima dell’esilio, nn.1-3; PG 52,427*-430). Per cui accolgo questo premio come premio dato a me e dunque a tutto il popolo, a tutta la comunità, in particolare a tutti i sacerdoti di questa nostra Chiesa, nella speranza di vivere sempre ciò che san Crisostomo esprime: "noi siamo un solo corpo e non si separa il capo dal corpo, né il corpo dal capo…". Grazie di cuore.
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