Diocesi Piacenza-Bobbio
Ufficio Stampa
Incontro promosso dall’Ufficio Pastorale della Salute
Ersilio Fausto Fiorentini
Chiesa e assistenza a Piacenza
dai Monasteri medioevali ai nostri giorni
appunti
Piacenza, 19 settembre 2009
Per gentile concessione dell’autore, che si ringrazia.
Questa relazione vuol essere solo la sintesi di un settore che, nel tempo e in modi diversi, ha sempre caratterizzato la presenza della Chiesa anche in terra piacentina. E non poteva essere diversamente: l’assistenza è parte integrante della carità, di quell’amore che anima le pagine del Vangelo.
Al recente convegno pastorale di Pianazze (4-5 settembre 2009) il biblista don Roberto Vignolo ha precisato che una costante della Chiesa è sempre stata quella di essere accanto “a tutti coloro la cui umanità è stata minacciata”; ovviamente, come ha osservato nello stesso convegno il vescovo ausiliare di Milano, mons. Franco Giulio Brambilla, la Chiesa non è solo “una stazione di servizio”. E’ una considerazione essenziale, ma in questa sede ci interessiamo di storia.
Quindi una presenza storica costante nell’assistenza, nell’aiuto al fratello debole. Questo non toglie che nel tempo vi siano stati cambiamenti. Ad esempio il Concilio porta ad una maggiore attenzione alla formazione e alla pastorale (a Piacenza questo avviene – anche per ragione di tempi - soprattutto con il vescovo Enrico Manfredini e i suoi successori)
L’impostazione è ovviamente storica; solo in parte viene affrontata la situazione attuale, e solo a titolo d’esempio, in quanto il settore è talmente vasto e diversificato che richiede l’intervento di specialisti e necessita di spazi specifici: basterebbe ricordare che sono coinvolte tutte le “nuove povertà”, dai giovani in difficoltà, agli anziani soli, ai malati gravi e soli, ecc..
Una premessa
Ogni singola Chiesa particolare, fin dalle origini, si è misurata con il problema dell’assistenza alle categorie più deboli della propria comunità. Quella che segue non può essere che una rapida sintesi di un problema molto complesso. Solo degli appunti per ulteriori approfondimenti.
Per ragioni di stesura abbiamo tralasciato i riferimenti bibliografici e dedichiamo una maggiore attenzione agli avvenimenti degli ultimi due secoli perché li riteniamo più utili per comprendere il nostro tempo che vede, da oltre trent’anni, in primo piano la Caritas diocesana, affiancata da altre importanti presenze ecclesiali, quali le Conferenze di San Vincenzo, che testimoniano come nell’azione caritativa ci sia sempre stata continuità
Il ruolo dello Stato
Per capire meglio il nostro argomento può essere utile un cenno al ruolo dello Stato nella storia degli ultimi due millenni. Alle origini del Cristianesimo troviamo ancora ben attiva Roma con la sua solida, articolata struttura statale; caratteristiche: una forte organizzazione centralizzata con diramazioni sul territorio. L’arrivo dei Barbari distrugge tutto ciò e a fatica tra il V e il X secolo si cerca di ricostruire il tessuto socio-politico. Il Feudalesimo ne è un esempio. La vita si sposta nel contado. Dopo il Mille risorgono le città; almeno da noi nascono le “città Stato” (i Comuni) con l’avvento poi delle Signorie e dei Principati. Nel Settecento prende corpo lo Stato moderno attraverso un progressivo accentramento del potere e della territorialità. Cessa definitivamente il sistema feudale a favore del potere centrale.
In tutti questi secoli, pur nel cambiamento delle forme statuali, l’assistenza non è mai rientrata nei ruoli dello Stato. Con l’Illuminismo si sviluppa il dibattito sulla concezione dello Stato, nascono le democrazie, si parla di separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e per l’origine del potere si torna a parlare del popolo.
Il dibattito prosegue e nel corso dell’Ottocento progressivamente lo Stato riconosce, tra i propri compiti, anche l’istruzione pubblica e l’assistenza. Parliamo ovviamente del mondo occidentale, ed in particolare dell’Europa, in quanto nel resto del mondo questo principio non è ancora del tutto acquisito. Valga, per tutti, il confronto attualmente in corso negli USA.
Tra la caduta dell’impero romano (quinto secolo) e l’avvento dello Stato moderno (secc. XVI-XVIII) la Chiesa si trova a gestire non solo la componente religiosa della società, ma anche suoi aspetti sociali quali l’istruzione e la sanità pubblica.
Di seguito alcuni cenni all’impegno assistenziale.
Nota: limitiamo il discorso all’assistenza ai poveri e agli ammalati. Non rientra in questa relazione il rapporto Chiesa – povertà, inteso come scelta ecclesiale, fuori dalle nostre competenze.
Le vie dei pellegrinaggi
La centralità della Roma cristiana porta allo spostamento sul territorio dei pellegrini: si sviluppano le vie dei pellegrinaggi. Le due principali sono la Francigena per Roma e la Terra Santa e il Cammino di Santiago di Compostela.
Per “Via dei pellegrinaggi” è da intendere non una strada in senso moderno, ma un percorso abbastanza vario attrezzato con “stazioni di sosta”, in genere monasteri.
A Piacenza attraversava la città passando per le vie Garibaldi, Antonino e Scalabrini. Su questo asse si sviluppano ospedali e centri di cura che garantiscono la necessaria assistenza spirituale, logistica e sanitaria ai pellegrini. Spesso sono sedi monastiche poste sugli itinerari secondo tappe giornaliere.
Monasteri
I monasteri, sia orientali che occidentali, sono istituzioni molto complesse. Ricordiamo qui che hanno avuto un ruolo importante anche nell’ospitalità, nella cura e nell’assistenza dei malati e nella preparazione di farmaci.
Importante anche il contributo che hanno dato alla cultura (esempio Bobbio e Cassino).
L’assistenza ai malati a Piacenza
Piacenza attorno al Mille e nei secoli seguenti (una città di poco inferiore ai diecimila abitanti) mette insieme un sistema di piccoli ospedali che hanno essenzialmente tre compiti: accolgono i pellegrini, assistono gli anziani, curano i malati. In questo ci ricolleghiamo a quanto già detto per i pellegrinaggi.
Nel 1471 nasce l’ospedale grande: il vescovo Giovanni Campesio chiude i 31 ospedaletti cittadini (ad eccezione di quello di San Lazzaro) e, con l’approvazione delle autorità (il Consiglio degli Anziani e il duca Galeazzo Maria Sforza), fonda un unico ospedale che trova posto nel convento di San Sepolcro (poi con la soppressione nel periodo napoleonico dell’Ordine si estende a tutto il convento). È ancora visibile, presso l’ingresso di Cantone del Cristo, la primitiva crociera. Tra gli artefici di questa iniziativa vi sono diversi religiosi tra cui il beato Michele Carcano.
L’eccezione di San Lazzaro: era un lazzaretto e va avanti fino a metà Settecento quando amministratore diventa il cardinale Alberoni che lo chiude per costruire il suo Collegio.
Un altro problema: l’usura
Un altro capitolo importante dell’impegno della Chiesa per i poveri è costituito dalla lotta all’usura: “frutto dell’uso del denaro, interesse oneroso, illecito, che si esige dal denaro e dalle cose date in prestito”.
Per il diritto romano il mutuo era in via di massima gratuito, ma si ammetteva pure la speculazione sui prestiti.
L’opposizione più forte all’usura fu esercitata dalla Chiesa che proibiva la riscossione di interessi a tutela dei più poveri; nel IV secolo con i Padri della Chiesa la condanna all’usura diventa ancora più decisa ed è considerata “un peccato diabolico”. È con l’inizio delle crociate (1096) e con il conseguente bisogno di denaro che sia tra i cristiani che tra gli ebrei, molto attivi in questo settore, viene tollerata la richiesta di interessi nonostante i divieti papali.
Dopo il Mille cambia l’impostazione economica: da una situazione di sussistenza, si passa ad una più commerciale, ma nonostante questi cambiamenti, che incentivano l’uso del denaro, la Chiesa non cambia linea.
Il tema chiama in causa anche il rapporto con gli ebrei. Inizialmente la Chiesa, verso i quali ha una posizione di condanna, si disinteressa del loro rapporto con il prestito. Successivamente, nel XII e nel XIII secolo l’usuraio non pentito viene privato dei sacramenti e della sepoltura e ai cristiani viene impedito di intrattenere qualsiasi rapporto commerciale con gli ebrei.
La condanna all’usura caratterizza anche il secolo XIV indipendentemente dal credo religioso professato. Tuttavia nel corso del Trecento il bisogno di denaro da parte dei Principi si fa sempre più pressante, cosicché si tollerano accordi con gli ebrei per ottenere prestiti in cambio di garanzie di libertà di soggiorno e di osservanza del loro modo di vivere.
Dopo il Concilio di Trento (1545-1563) il pensiero controriformista cattolico paragona l’usura al “furto”.
Istruzione e cultura
Già abbiamo fatto cenno al ruolo dei monasteri per quanto riguarda la conservazione del patrimonio culturale che ci veniva dall’antichità classica; importante anche il ruolo esercitato nella medicina popolare.
Attorno al Mille prendono corpo anche le scuole vescovili. La Chiesa è sempre stata attenta alla cultura popolare: ad esempio non a caso le cattedrali, compresa quella di Piacenza, sono state definite “libri scritti nella pietra”. È vero che si tratta spesso di cultura religiosa, ma questo finisce anche per essere cultura generale secondo il concetto enciclopedico medioevale.
Le confraternite
In un mondo in cui mancano l’assistenza pubblica e forme di provvidenza da parte dello Stato, la Chiesa sostiene anche la nascita di confraternite con scopi specifici: assistenza alle ragazze cadute in disgrazia; ai condannati a morte; ai malati poveri; seppellire i morti, ecc.
Attualmente a Piacenza ne sopravvivono tre: Confraternita della Beata Vergine del Suffragio (San Giorgino in via Sopramuro); Confraternita dello Spirito Santo (in San Dalmazio); Confraternita di Santa Maria in Torricella (chiesa omonina di via La Primogenita).
Il loro massimo sviluppo si verifica nel Settecento ed hanno spesso come protagonisti i laici.
Carestie ed epidemie
Collegato in parte alle confraternite è il complesso capitolo dell’assistenza in occasione delle carestie e delle epidemie, due termini che la storia ha spesso messo insieme: in tempi in cui l’alimentazione era sempre al di sotto degli standard normali, è facile immaginare come una popolazione debilitata fosse spesso preda delle epidemie: la peste fino al Settecento e il colera nell’Ottocento. Non esisteva in molti Stati una vera sanità pubblica e quindi era spesso la Chiesa in prima linea, ovviamente per l’assistenza spirituale, ma anche per quella materiale.
Due pestilenze furono rese famose da due grandi scrittori: il Boccaccio (1348) e il Manzoni (1630), ma ce ne furono molte altre. A Piacenza importante è il ruolo avuto dalla chiesa di Camposanto Vecchio (per la peste del 1630).
In primo piano abbiamo ancora una volta i monasteri, ma non solo: anche le parrocchie fanno la loro parte senza contare associazioni particolari che si interessano di categorie specifiche, a volte lontane dalla nostra sensibilità come i nobili decaduti.
L’Ottocento
L’Ottocento per i piacentini è un secolo ricco di cambiamenti e anche sul piano religioso si registrano cambi di rotta. Iniziamo, per quanto riguarda l’assistenza, con un richiamo a quanto fatto dai cattolici nella seconda metà del secolo premettendo che in questo settore si registrano altre presenze importanti di matrice laica. Pensiamo, ad esempio, alle forme di solidarietà collegate alle diverse forme di associazionismo, sociale ed imprenditoriale, che si sviluppano a Piacenza a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento (dalla prima Camera del Lavoro alla Federconsorzi). Sul versante religioso sono anni di grandi testimoni.
Vediamone alcuni.
Il Beato Giovanni Battista Scalabrini
Tra tutti si impone Giovanni Battista Scalabrini, beatificato nel novembre 1997 da Giovanni Paolo II, capo della diocesi piacentina dal 1876 al 1905. Questo vescovo si è posto seriamente il problema degli ultimi. I più ricordano il suo impegno per i migranti, ma non va sottovalutato quanto ha fatto come vescovo per la sua diocesi.
Il Vescovo piacentino, come intuì prima degli stessi governanti italiani il dramma degli emigranti, così comprese con tempestività anche il problema dei poveri e si impegnò con iniziative concrete.
Vi è un dipinto di Mario Barberis, che si trova nella casa generalizia degli scalabriniani a Roma, in cui il beato Scalabrini viene rappresentato, nel suo palazzo di Piazza Duomo, mentre distribuisce pane ai poveri. È un dipinto significativo che può essere riferito a diversi momenti della sua vita di vescovo. Nel 1880, ad esempio, si trovò a dover affrontare la grossa tragedia della carestia a cui seguì nel 1884 il colera. Formò un apposito comitato ed affrontò il problema anche con soluzioni pratiche: ad esempio le sue cucine arrivarono a distribuire oltre tremila minestre al giorno. I suoi collaboratori distribuivano pure buoni per la legna e per altri beni di prima necessità. Partecipò, inoltre, alla gestione delle “cucine economiche” che sul finire dell’Ottocento vennero aperte in diversi quartieri cittadini.
Scalabrini intervenne anche per iniziative più complesse come il riscatto di pegni e l’aiuto a famiglie decadute. Le persone che gli stavano attorno spesso lo mettevano in guardia da questo suo zelo, ma niente ha mai fermato il presule davanti al dolore e alla povertà.
Tutto questo va inquadrato ovviamente nel tempo. Si tenga anche conto che il clima sociale, negli ultimi decenni dell’Ottocento, non era tra i più sereni: tutto sommato se un vescovo si fosse isolato nel suo palazzo e si fosse interessato rigorosamente solo di evangelizzazione, non gli si potevano certo muovere critiche particolari. E questo sia per i tempi che non avevano ancora conosciuto l’apertura al sociale che la Chiesa affronterà dopo Leone XIII, sia per i rapporti piuttosto freddi tra Stato e Santa Sede per la “questione romana” che anche a Piacenza si fa sentire come dimostra il dibattito sui giornali locali.
Scalabrini, invece, giunge a concepire un progetto d’ampio respiro come quello per gli emigrati. A Piacenza vuol essere presente anche nella costituzione della Camera del Lavoro, la prima d’Italia, con un contributo per i libri della biblioteca (è interessante notare, dati i tempi di diffuso analfabetismo quasi totale nelle classi deboli, il tipo di intervento che predilige) e inoltre è il promotore della Banca Cattolica Sant’Antonino che tanta parte avrà nella costituzione e nella gestione delle Casse Rurali che si diffondono nel Piacentino anche in centri minori. La Sant’Antonino, che aveva la sede centrale nell’edificio delle Poste in via Sant’Antonino, teneva le fila di una rete di banche e istituzioni attive nel mondo del credito che, ad esempio con le Casse rurali, arrivava in modo capillare sul territorio. Anche questa banca fallirà nel 1932, ma la sua fine è dovuta più a cause di politica economica generale impostata dal fascismo, che da motivi relativi alla propria situazione interna.
Sul piano economico citiamo anche la partecipazione di parte del clero ad iniziative imprenditoriali come abbiamo recentemente osservato nella pubblicazione “Chiesa ed economia a Piacenza tra ‘800 e ‘900” (Berti, 2009).
Scalabrini è quasi sempre in anticipo sui tempi. Lo è anche nell’assistenza ai sordomuti: quando giunge a Piacenza e pone il problema dell’assistenza ai sordomuti (da cui deriverà un suo istituto in via Borghetto nel 1879 e la Madonna della Bomba nel 1903) la società era completamente all’oscuro della condizione di questi handicappati che venivano di conseguenza emarginati. Lui, invece, aveva già iniziato a studiare la lingua dei segni quando era ancora parroco a Como.
La beata Rosa Gattorno
Il vescovo Scalabrini fu indubbiamente un gigante, ma nell’impegno per gli ultimi non è solo. Ad esempio gli studi storici che hanno accompagnato la recente beatificazione di madre Rosa Gattorno (9 aprile 2000), tra cui il convegno promosso dal Comitato di Piacenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, hanno messo in evidenza come per la nobildonna genovese, che si stabilisce a Piacenza nel 1866, sia stato importante l’impegno per i poveri con iniziative che andavano dalla distribuzione di minestre all’assistenza a domicilio.
Le prime suore della Gattorno hanno dovuto affrontare la prova del fuoco con il colera del 1867. L’epidemia fa la sua comparsa in città nel giugno di quest’anno e colpì, nei mesi estivi, soprattutto le classi sociali deboli. Ambrogio Maria Fiocchi, nella sua monografia dedicata alla Gattorno, riferisce che in poche settimane in provincia di Piacenza si ebbero 1320 morti su 2.513 casi; in città i casi furono 443 ed i morti 257.
Davanti a questa calamità si mobilitò ovviamente l’Amministrazione civica, come dimostrano i manifesti che furono affissi in questo periodo. Ma l’entità, e soprattutto la repentinità dell’epidemia, colse un po’ tutti di sorpresa e quindi fu necessario anche l’intervento di privati. La Gattorno “fin dal primo diffondersi del morbo, con eroica generosità, dedicò se stessa e le sue suore all’assistenza dei colpiti mandandole a turno nelle loro case; e per tenere lontana la comunità da ogni pericolo di contagio, dispose che quelle infermiere si ritirassero in un modestissimo alloggio preso in affitto e situato in strada della Morte n. 34”.
Fin qui uno storico impegnato ufficialmente nella stesura della storia della Beata e potrebbe comprensibilmente sorgere il dubbio che l’autore si sia lasciato prendere la mano. Inoltre le tragedie improvvise fanno scattare meccanismi di solidarietà in cui non manca di interferire anche l’emotività. In questo caso, però, la Gattorno andava oltre l’emergenza. Nei mesi seguenti la nobildonna imposta un piano di assistenza di maggiore respiro ed interpella il Sindaco di Piacenza dando la propria disponibilità per accogliere gli orfani creati dal colera e il capo dell’Amministrazione civica, in una lettera, riconosce che “l’anteporre ad ogni altro bene la suprema contentezza dell’esercizio della carità, diminuendo così le sofferenze dell’umanità, è un’opera che non è dato agli uomini di ricompensare … L’Amministrazione Comunale desiderosa essa pure di contribuirvi, ha disposto che in servigio delle povere fanciulle ricoverate siano somministrati numero dodici letti completi e la somma di lire centosessanta per provvederle di un vestito uniforme”.
Per comprendere il significato di queste parole va ricordato che siamo in pieno clima di conflitto tra Chiesa e Stato e anche a Piacenza spira un forte vento anticlericale. Per giunta sia Scalabrini sia la Gattorno (il primo di Como, la seconda di Genova) sono “stranieri” e questo certamente aveva un suo peso nei rapporti con la città. Eppure l’arma della carità, al di là di ogni facile retorica, si mostra superiore ad ogni schieramento.
Va anche osservato che i due si muovevano, pur fatte le debite differenze dei rispettivi ruoli, all’interno di un progetto molto più vasto che metteva anche in conto una forte attenzione alla vita sociale indipendente dal “ritorno” che poteva esserci in tema di proselitismo.
Sempre a proposito della Gattorno significativo anche quanto scrive Roberta Frati. “Merita un particolare ricordo a favore dei poveri nell’intervento 1879-1880, rimasto famoso per la carestia. La situazione si era fatta drammatica, perché il rincaro dei generi di prima necessità aveva portato al colmo la miseria del popolo ed i contadini rimasti senza sostentamento si riversavano nella città a mendicare”. A proposito dell’intervento delle suore della Gattorno vi è anche un’altra considerazione da fare. Come è stato sottolineato da diversi relatori intervenuti al convegno tenutosi a Piacenza nel gennaio del 2001 su questo personaggio, è da rilevare che i suoi interventi andavano a scontrarsi con una mentalità fortemente maschilista, sia nella società civile sia nella Chiesa, una mentalità che certo non l’ha agevolata.
C’è da dire, a questo proposito, che sia la Gattorno sia altre donne “fondatrici”, solo formalmente si sono arrese a questo clima, ma in realtà hanno condotto a conclusione i loro progetti senza arrendersi davanti a nessun ostacolo interposto dalle consuetudini e dalle convenienze sociali. Lo si nota anche nel settore dell’assistenza dove sono entrate da protagoniste.
Il Novecento
Mons. Torta e la Madonna della Bomba
Un aspetto spesso trascurato è quello degli “uomini (e ovviamente le donne) Scalabrini”. Personaggi come il Beato, dotati di una forte personalità, agiscono in proprio, ed è ovvio. Ma spesso il loro spirito di servizio finisce con l’essere una vera e propria scuola che forma altri protagonisti. Il discorso sarebbe molto più chiaro se ampliassimo lo sguardo anche ad altri settori, ma restando nel sociale, oltre a quanto già detto per l’economia, importante è quanto avviene nell’assistenza. Il Vescovo è un vero caposcuola.
Legata alla figura di Scalabrini è, infatti, quella di un altro grande benefattore: mons. Francesco Torta, fondatore della Madonna della Bomba. Questa in breve la sua biografia. Muore nella notte del 15 aprile, il venerdì santo del 1949, nella sua “casa” all'età di 85 anni. Era nato a Piacenza il 22 gennaio 1864 e a 15 anni dalla morte, il 30 aprile 1964, la diocesi diede inizio al processo di beatificazione i cui atti sono ora all'esame della Congregazione dei Santi a Roma. La sua salma riposa nel sacello della Madonna della Bomba sul Pubblico Passeggio, da lui costruito attorno ad un'immagine mariana miracolosamente risparmiata nel 1746, durante la guerra di successione austriaca, da una palla di cannone. Fu da questo piccolo tempio che si sviluppò l'opera del grande benefattore, ultimo di dieci figli, rimasto orfano del padre a soli nove anni. Fu ordinato sacerdote nel 1886 dal vescovo Scalabrini, dopo avere frequentato il seminario come alunno esterno perché impedito da una salute fragile.
Numerose furono le tappe della sua attività pastorale: come viceparroco fu a Caorso e presso la parrocchia cittadina di san Gervaso, in seguito fu parroco a san Bonico, professore in seminario, prevosto in san Giuliano e in santa Brigida, e organizzatore dell'oratorio interparrocchiale di san Giovanni. Ma il destino di monsignor Torta era legato al "suo" tempietto della Madonna della Bomba e da lì ebbe inizio nel 1903 l'Istituto Sordomuti, nel 1911 l'Istituto Cieche e nel 1921 la Congregazione delle Suore della Provvidenza per l'infanzia abbandonata. Da quest'ultima data l'attività dell'apostolo della carità supera il confine cittadino ed assume una dimensione nazionale: nel 1924 Parma, nel 1928 Casteggio di Pavia, nel 1936 Marina di Massa e nel 1938 Roma.
Spentosi nel 1949 il fondatore del quale abbiamo citato solo alcune realizzazioni, la Congregazione, forte dell'insegnamento del padre spirituale, riprende l'attività con nuova forza e altre "case" sorgono in varie città italiane finché ai primi del 1971 le suore della Provvidenza, nel loro cinquantesimo di fondazione, affrontano con successo anche l'attività missionaria in Etiopia. Proprio in questi mesi stanno allargando il loro campo d’azione missionario anche al Kenia.
Don Serafino Dallavalle: dalla Torricella alla Madonna della Bomba
Accanto a mons. Torta occorre ricordare il suo successore, don Serafino Dallavalle. Questo sacerdote nasce a Saliceto di Cadeo il 2 ottobre 1909, viene ordinato sacerdote nel 1934. Inizia il suo servizio pastorale come curato nella parrocchia cittadina di Santa Maria in Gariverto. Dopo due anni viene trasferito a Roncarolo come parroco.
Nel 1940 viene trasferito in Santa Maria in Torricella dove si stava vivendo un momento particolarmente teso a seguito del trasferimento dei Giuseppini. Ne parliamo più ampiamente in seguito.
Il 13 maggio 1944 il complesso oratoriano fu devastato dal bombardamento che ha colpito questa zona della città. Nel frattempo monsignor Dallavalle aveva approfondito la sua amicizia con monsignor Torta e, per non fermare l'attività, trasferì nei locali della Madonna della Bomba, sul Facsal, la tipografia e la legatoria che aveva da poco allestite nell'oratorio. Coinvolto nella guerra partigiana ed aiutato da Torta, il 1° luglio 1948, su richiesta dello stesso Fondatore, passa definitivamente alla Madonna della Bomba (al suo posto in Torricella arriva don Emilio Gobbi). Il fondatore dell'Istituto per ciechi e sordomuti muore nel 1949 lasciando suo erede monsignor Dallavalle.
La Madonna della Bomba – quando passa a monsignor Dallavalle ‑ é un complesso che ai sordomuti mette a disposizione diverse attività: tipografia, legatoria, sartoria, calzoleria e intaglio; per le cieche vi sono corsi di pianoforte, di maglieria e di lavorazione dei vimini. Nel 1960 per i ciechi vengono organizzati anche corsi per centralinisti. Tra le realizzazioni di monsignor Dallavalle vi sono la costruzione di un'ala nuova per le cieche nel 1954, una cappella interna nel 1955, l'acquisto nel 1953 di una villa per i soggiorni estivi a Gropparello, nel 1959 viene fondata una colonia agricola in via Bubba dove oggi sorge una cooperativa di solidarietà (pensava di realizzare una moderna azienda agricola, ma poi in questo settore economico le cose sono radicalmente cambiate). Monsignor Serafino si spegne il 13 febbraio del 2000.
Nota: la Madonna della Bomba negli ultimi decenni ha affrontato diversi cambiamenti per i quali si rimanda alla documentazione reperibile presso la stessa istituzione tra cui: “Un secolo di carità. I cento anni della Madonna della Bomba di Piacenza” (1903-2003), a cura di E. F. Fiorentini)
Gli oratori: le Torricelle
La citazione di don Serafino Dallavalle richiama un altro settore importante dell’assistenza, che può rientrare nel nostro tema, quello degli oratori. La diocesi di Piacenza-Bobbio sta vivendo un capitolo nuovo degli oratori parrocchiali. Don Serafino ci dà la possibilità di richiamare alla memoria uno di queste realtà, certamente la più famosa, quella delle Torricelle.
Vediamone in breve la scheda storica. Quello delle Torricelle fa parte del manipolo storico di oratori che fiorirono in città tra l’Ottocento e il Novecento. Negli anni Trenta questa struttura, posta in un quartiere particolarmente popolare, era gestita dai Giuseppini, una congregazione di religiosi di Asti. L’istituzione si era sviluppata con il favore del popolo e questo spiega il malumore della gente quando, all’inizio degli anni Quaranta, i religiosi lasciano la diocesi. All’inizio del secolo scorso questa parte della città ha una connotazione tipicamente popolare. Si trova a due passi dalla stazione ferroviaria e dal capolinea della Littorina per Bettola. Dove oggi vi é il “Grattacielo dei Mille” sorgevano fino al 1959 i Molini Rebora, complesso che confinava con l’Oratorio degli Impiccati, ultima tappa, nel passato, di coloro che erano condannati alla pena capitale. Il patibolo era, infatti, situato in prossimità della chiesetta della Torricella, tenuta da una Confraternita, detta appunto di Santa Maria in Torricella, una delle tre ancora esistenti in diocesi, e un tempo incaricata, tra l’altro, dell’assistenza ai condannati a morte. Tale confraternita, in origine detta dei Cappuccini Conversi, era stata eretta canonicamente, ricorda mons. Marco Villa in un suo studio, il 29 giugno 1576 dal vescovo di Piacenza Paolo Burali con lo scopo di assistere i poveri e, all’occorrenza, pure coloro che avevano problemi con la giustizia, quindi anche i carcerati.
Nello stesso anno del riconoscimento ufficiale, i confratelli prendono possesso dell’oratorio della Torricella, già dei loro colleghi di San Giovanni Decollato. Un tempo a Piacenza le confraternite erano numerose con specifiche finalità. Questa, originariamente indirizzata ai nobili (siamo nel periodo della riforma cattolica e il Burali si riprometteva di disciplinare anche la nobiltà), in seguito si aprì pure alla gente comune e, nella prima metà del secolo scorso, oltre alla formazione dei propri membri, si interessò progressivamente del mondo giovanile. Erano tempi in cui l’obiettivo più urgente era l’assistenza materiale, ma per le menti più illuminate il corpo non poteva essere disgiunto dallo spirito, in altri termini non si doveva fare solo assistenza, ma occorreva anche formare le menti. Così avevano fatto lo Scalabrini e Torta con emarginati quali i sordomuti, così fa la Confraternita della Torricella che punta sull’oratorio come centro di formazione dei giovani. Su questa linea si muovono i Giuseppini che passano la mano, nel 1940, a don Serafino Dallavalle che, come già detto, nel 1948, si trasferisce alla Madonna della Bomba per raccogliere l’eredità di mons. Torta.
Il primo ‘900: i Vescovi
GIOVANNI MARIA PELLIZZARI. Torniamo alla storia della diocesi seguendo la successione dei vescovi. A Piacenza la stagione dei grandi progetti assistenziali, in ambito ecclesiastico, sembra fermarsi all’inizio del Novecento (Torta prosegue anche nel 1911 con i ciechi, ma questo benefattore mi sembra a tutti gli effetti “figlio” di Scalabrini).
Scalabrini muore il 1° giugno 1905 e il Papa manda a guidare la diocesi emiliana Giovanni Maria Pellizzari (Treviso, 1851 – Piacenza, 1920), un veneto proveniente dal mondo degli studi (era laureato in matematica, fisica, scienze naturali e filosofia) con la propensione alla finanza, tanto che è stato definito il “vescovo banchiere”. E’ difficile stabilire quanto abbiano influito sul vescovo Pellizzari i tempi e quanto si siano fatti sentire i suoi orientamenti personali. Certo il quadro storico, sul piano culturale, non era facile come si può anche dedurre dal dibatto sui giornali del tempo. Tra i problemi che doveva affrontare il Capo della diocesi vi era, ad esempio, il Modernismo, mentre la prima guerra mondiale, con le polemiche sull’intervento armato del nostro Paese, coinvolgeva anche i cattolici.
Sono anni difficili, che lasciano nel tessuto sociale non poche ferite, ferite che poi porteranno alle tensioni degli anni seguenti al conflitto e all’avvento del fascismo. Restiamo nell’ambito dell’assistenza: seguendo le disposizioni che il Vescovo emana in questi anni, e che vengono pubblicati dal Bollettino Ufficiale della Curia, i vari interventi sembrano muoversi in linea con disposizioni più generali. Nei documenti ufficiali troviamo disposizioni per gli emigranti, per le vittime del terremoto in Sicilia, per le mondariso. Molte disposizioni vescovili si limitano, però, all’aspetto tecnico. Ad esempio nel 1914 il Vescovo dà informazioni ai suoi preti (il Bollettino Ufficiale della Curia era indirizzato soprattutto al clero) sulla situazione dei migranti e poi riporta un ampio stralcio di una circolare dell’Opera di Assistenza per gli Emigranti che a sua volta cita il Ministero degli Interni che estende benefici, per coloro che emigrano, già concessi nei mesi precedenti. Non solo informazioni generiche: viene anche dato regolare resoconto di offerte raccolte. Lo stesso si dica delle vittime del terremoto della Sicilia.
Anche quando i problemi interessano da vicino la realtà sociale della diocesi, l’iniziativa è sempre determinata da situazioni esterne. Nel 1915 interviene per le mondariso con una sua nota ufficiale. “Il Comitato Nazionale Italiano dell’Associazione Cattolica Nazionale della Protezione della Giovane ha preso l'iniziativa di un'opera di apostolato sociale a riguardo delle giovani che si recano alla mondatura dei risi. A tale scopo ha diramato una circolare ‑ relazione ai Parroci dei luoghi di dove hanno luogo le partenze per le risaie. Raccomandiamo ai Parroci della nostra Diocesi di prendere in considerazione la detta circolare e di approfittare di questo aiuto, che loro viene dato dall’opera del Comitato suddetto, per assistere spiritualmente tanta parte della gioventù femminile che, durante il periodo della mondatura, si trova esposta a mille pericoli e priva di ogni salutevole vigilanza” (firmato: † G. M. Vescovo).
A parte il prevalere dell’attenzione spirituale, ancora una volta vi è la proposta iniziale che viene dall’esterno. Nello stesso anno la diocesi, per le mondine, sembra però assumere iniziative proprie. In episcopio, riporta il Bollettino della Curia, si tiene un’adunanza con l’intervento dello stesso Pellizzari e si giunge “alla formazione di un comitato piacentino, che studi i mezzi più opportuni e che si appoggi, nella sua azione, alla Direzione Cattolica Diocesana, che deve essere il centro di ogni movimento sociale nel campo cattolico. E il comitato corrisponderà certamente all’aspettativa di tutti quelli che si prendono a cuore la sorte di tante giovani delle nostre campagne, e saprà, nella stagione ventura, indicare la via da tenere per una efficace azione in favore di esse”.
Nel 1916 troviamo indicazioni per favorire gli aiuti alla Croce Rossa; vi è anche l’adesione ad una raccolta di aiuti per “gli schiavi dell’Africa”. E’ il caso di ricordare che in questi anni Piacenza è sede non solo di un importante ospedale militare, ma scuole e altre istituzioni sono state trasformate in ospedali militari stabili con laboratori e altre strutture collaterali. Tra queste la Croce Rossa Italiana e quella americana.
Pellizzari, che si è dimostrato uomo di governo avveduto in altre situazioni che richiedevano una particolare accortezza, sembra mancare di un proprio progetto per l’assistenza agli emarginati. Resta a Piacenza solo quindici anni, deve affrontare questioni che gli cadono addosso dall’alto, come la guerra e il Modernismo; inoltre, forse, si sentiva più portato ad affrontare problemi teorici. Infatti avvertì l’urgenza del sociale, ma non riuscì ad intervenire con forza, come aveva fatto il suo predecessore, nella dimensione operativa.
Pellizzari muore il 18 settembre 1920 e, dopo qualche mese, giunge da Bologna il vescovo Ersilio Menzani (Bologna 1872 – Piacenza 1961) che, per ragioni di salute, è stato affiancato dal 1946 da un coadiutore, quindi con diritto di successione, il piacentino Umberto Malchiodi. Dagli anni Cinquanta, per la grave malattia che costringe a letto Menzani, la guida della diocesi è di fatto nelle mani del coadiutore.
IL VESCOVO ERSILIO MENZANI. Con Menzani la diocesi piacentina deve affrontare la convivenza con il fascismo che, all’inizio, ha alla guida un personaggio come Bernardo Barbiellini. Il gerarca, pur tra non poche polemiche, sa muoversi con una propria autonomia che poi, tuttavia, gli costerà l’allontanamento dal partito. Il fascismo, con Barbiellini, riesce in parte (comunque è una sua aspirazione) a controllare la Chiesa locale come dimostra molto bene il caso del direttore del giornale cattolico locale “Il Nuovo Giornale”, monsignor Francesco Gregori che, per non piegarsi, si dimette. E’ un capitolo significativo che il settimanale diocesano si appresta a ricordare proprio mentre celebra il suo primo secolo di vita.
L’assistenza, in questi decenni, è presente nei programmi diocesani: segue il filone tradizionale dell’aiuto ai più deboli. Nel 1924 Menzani dirama una circolare ai parroci per l’assistenza alle risaiole nella quale si fa riferimento a strutture specifiche diocesane, si richiamano gli aspetti morali come nel passato, ma si entra anche in specifiche indicazioni di ordine pratico. Si sollecitano i parroci a chiedere informazioni quali l’indirizzo di destinazione ed i giorni di permanenza; “trasmetteranno pure (i parroci) allo stesso Segretariato ogni notizia degna di rilievo, sia in ordine morale che in ordine economico, che giungesse a loro durante o dopo il tempo di permanenza delle lavoratrici nei luoghi della monda”. Con altro comunicato viene rivolto un appello per le vittime di un’inondazione. Tornano ancora in scena le risaiole nel 1928, anno in cui vengono pure divulgate norme per il mutuo soccorso e per gli emigrati. Lo stesso per gli anni successivi, tra cui il 1929 mentre del 1931, su indicazioni di un documento del Papa, è un intervento organico sulla carità con indicazioni specifiche: preghiere per i poveri in tutte le chiese, in tutte le chiese deve esserci una cassetta per raccogliere elemosine per i poveri ed inoltre vengono mobilitate le Dame della Carità e le Conferenze di San Vincenzo. Vi è anche un appello specifico per i poveri durante l’inverno. Altri interventi li abbiamo trovati, per le risaiole e per gli emigrati, nel 1934 e nel 1936.
Dopo la seconda guerra mondiale
Giunge, poi, la seconda guerra mondiale con il suo carico di dolore e di ingiustizie. A Piacenza, che è sede di importanti strutture militari, pagano un tributo notevole anche i civili. Tornata la pace, dopo l’ingresso delle formazioni partigiane in città nella mattinata del 28 aprile 1945, la città si cura le ferite, molte e dolorose. Le più gravi, ovviamente, sono quelle sociali.
Il prezzo più caro, come sempre, lo pagano i deboli e tra tutti i bambini. In questi anni i cattolici, in fatto di assistenza, tornano ad essere propositivi come lo erano un tempo. In un contesto fatto soprattutto di emergenza, la Chiesa piacentina mette in campo alcuni suoi esponenti da prima linea, ora tutti scomparsi. L’ultimo, il francescano Gherardo Gubertini, se n’è andato il 26 agosto 2001, a 88 anni, tra il compianto generale della città. Gli altri sono don Pietro Prati, don Giovanni Dieci e don Giuseppe De Micheli. Tutti ‑ ma sarebbero da citare anche i molti collaboratori – si sono meritati un posto nella nostra storia della bontà.
Don Pietro Prati: il mondo del lavoro
Un nome familiare ai non più giovani è l’O.N.A.R.M.O., una sigla che sta per “Opera nazionale per l’assistenza religiosa e morale agli operai” e che ebbe un ruolo importante. Era nata a Roma nel 1926 per “un’attività educativa, sanitaria ed economica” a favore dei lavoratori. A Piacenza opera dal 1938 per merito di don Pietro Prati (1919 – 1993), poi anche consulente dell’U.C.I.D. (Unione cristiana imprenditori e dirigenti). Il sacerdote, con un gruppo di collaboratrici e con l’aiuto di altri confratelli, si è impegnato per garantire l’assistenza religiosa, e non solo, nei luoghi di lavoro. Altro sacerdote, che ha operato in questo settore, come delegato dell’O.N.A.R.M.O., è stato monsignor Ugo Civardi, attivo anche in altri settori tra cui quello amministrativo.
Vediamo, però, più da vicino la biografia di don Prati. Nato a Morfasso il 18 settembre 1919, secondo di sei figli, studia prima nel seminario di Bedonia e poi nel vescovile di Piacenza; lo ordina sacerdote in cattedrale il vescovo Menzani il 30 maggio 1942. Negli anni della guerra è cappellano della Divisione partigiana Val D'arda; subito dopo l'ordinazione il Vescovo lo invia, come curato, nella parrocchia cittadina di Sant'Anna: qui rimane per circa un quarto di secolo curando in particolare i giovani. Nel 1967 è nominato parroco di Larzano, una piccola parrocchia nel Comune di Rivergaro. A questa comunità dedica per tutti gli anni successivi le sue premurose cure con la celebrazione di una messa ogni pomeriggio e con la presenza nei giorni festivi. Vive però a Piacenza, in via Fiorini 6, e la sua attività principale è indirizzata all'assistenza morale agli operatori del mondo del lavoro. L'assistenza sociale era stata una sua vocazione già negli anni del dopoguerra. Una profonda amicizia lo legava a don Giovanni Dieci.
Nell’assistenza sociale, nonostante il legame con don Dieci, don Prati ha percorso una propria strada: nel 1946 è stato tra i fondatori dell’Ucid piacentina (l'unione cristiana degli imprenditori e dei dirigenti) e da allora è stato consulente morale del sodalizio.
Era, inoltre, presidente della società "Augusta Prampolini, servizio sociale di fabbrica". La società è stata ufficialmente costituita in cooperativa nel 1973 anche se le assistenti sociali che la compongono già lavoravano insieme dai primi anni del dopoguerra per iniziativa di un gruppo di persone guidate appunto da don Prati.
La sua attività si concretizza in servizi di assistenza sociale negli stabilimenti industriali, fabbriche ed altri luoghi ove si svolgono attività commerciali, industriali ed affini. Per queste attività don Prati aveva la propria sede in via Giordani 17. Qui trascorreva gran parte della sua giornata che iniziava alle prime ore dell'alba: era infatti un lavoratore instancabile e in piena attività lo ha colto la morte il 17 giugno 1993. Nell’assistenza spirituale ai lavoratori degli stabilimenti si è impegnato nel dopoguerra anche don Serafino Dallavalle, pur mantenendo il suo incarico principale alla Madonna della Bomba.
Come detto, pochi protagonisti, ma molti comprimari. Questo vale soprattutto per don Giovanni Dieci (1912-1975), che a Piacenza ha guidato la PCA (Pontificia Commissione di Assistenza), presente a livello locale con la ODA (Opera Diocesana Assistenza). Sono tutti nomi che evocano un capitolo significativo dell’assistenza messa in atto negli anni del Dopoguerra per le diverse vittime del conflitto, dai reduci agli orfani di guerra, dai disoccupati alle famiglie povere. E qui non si tratta solo di assistenza spirituale: don Dieci, a cui Piacenza ha dedicato una via, si è trovato a gestire una vera e propria fabbrica della carità. Con l’intervento di altre organizzazioni cattoliche, tra cui il Cif (Centro Italiano Femminile), nascono diverse realtà assistenziali, dalla “mensa del Fogliani” alle colonie marine.
“Questa potente organizzazione – ha scritto don Giuseppe Venturini, che a sua volta nel 1981 assumerà un ruolo di primo piano nel settore dell’assistenza nell’ambito della nascente Caritas ‑ fu eccezionale negli Anni Quaranta. Quando il Paese era ancora prostrato materialmente e moralmente dallo spaventoso cataclisma della guerra, la ‘Pontificia’ cominciò ad operare con le fresche energie di sacerdoti e di laici alimentati dallo spirito cristiano della carità; persino le istituzioni civiche, quali l’UNRRA e l’Assistenza post-bellica, si servirono di essa per far giungere a sicura destinazione i sussidi destinati ai bisognosi”.
Don Dieci: le colonie e altro
Vediamo più da vicino la scheda biografica di don Giovanni Dieci. Ordinato sacerdote nel 1936, proseguì gli studi a Roma, al Collegio Lombardo, conseguendo la laurea in diritto canonico e la licenza in teologia. Rientrato a Piacenza, prestò servizio presso i reparti della contraerea. È stato poi cappellano dell'oratorio di Guastafredda e membro del capitolo di Sant'Antonino.
Nel 1943 fu nominato insegnante nel seminario vescovile. Nel 1945 la Santa Sede gli affidò il coordinamento dei propri interventi caritativi alla Pontificia Commissione di Assistenza nella diocesi piacentina. Si interessò inizialmente dei reduci dai campi di prigionia per passare poi all'organizzazione delle mense gratuite, dette "Refettori del Papa", e del Ristorante Economico Fogliani chiuso nel 1967. Sempre in questi anni istituì la Casa del Fanciullo di Santa Maria in Torricella per ragazzi poveri (cessò l'attività nel 1964). Nel 1946 iniziò l'impegno nelle colonie estive marine, montane e diurne che, numerose nei primi anni, furono poi ridotte per poterle adeguatamente aggiornare. Nel 1947 don Dieci operò anche nelle assegnazioni periodiche dei viveri Usa a seminari, conventi, istituti, asili e parrocchie di città e provincia per la durata di circa dieci anni. Nel 1950 la POA si impegnò anche nell'organizzazione di mense, con contributo statale, nei cantieri di lavoro e di rimboschimento, gestite dall'Ufficio Provinciale del Lavoro. Questo impegno si concluse nel 1968.
Nel 1951 intervenne a favore degli alluvionati del Polesine con la raccolta ed il trasporto di indumenti e vettovaglie e con l'assistenza e la sistemazione temporanea nel Piacentino di nuclei familiari provenienti dalle zone alluvionate. In questo periodo fondò l'asilo parrocchiale Pio XII di Roncarolo. Ancora nel 1951 diede vita alla Colonia preventorio marina permanente di Chiavari "Piaggio" finalizzata all'assistenza di bambini piacentini.
Nel 1953 si impegnò nell'assistenza delle vittime dell'alluvione in Calabria. L'11 ottobre 1954, con decreto del vescovo Menzani, la sezione diocesana di assistenza fu eretta in Opera Diocesana di Assistenza in concomitanza con la trasformazione della Pontificia Commissione di Assistenza in Pontificia Opera di Assistenza. Un settore che vide attiva l'ODA fu anche quello dell'assistenza alle mondariso.
Nel 1958 fu istituito il Centro Italiano Difesa Donna che, dopo la Legge Merlin, si impegnò nell'assistenza alle prostitute. Nel 1960 fu istituito uno specifico servizio sociale finalizzato al reperimento degli inadempienti all'obbligo scolastico. In questo periodo le colonie furono quattro: Bordighera, Centenaro, Frassen di Belluno e Chiavari, quest'ultima fu l'unica a sopravvivere al fondatore. Nel 1982 passerà al Centro Italiano Femminile e nel 1987 la chiusura. A don Dieci nel 1993 è stata dedicata una via cittadina.
Don De Micheli: la Città dei Ragazzi
La guerra ha fatto diverse vittime innocenti, tra cui i bambini. Piacenza, a questo proposito, ha visto sorgere due importanti strutture: la “Città dei Ragazzi” di don Giuseppe De Micheli e la “Casa del Fanciullo” di padre Gherardo Gubertini.
Parliamo della prima. La Città dei Ragazzi nasce nel dopoguerra per opera di don Giuseppe De Micheli, un giovane sacerdote nato a Paderna di Pontenure il 22 febbraio 1917 da una famiglia numerosa che ha dato alla Chiesa due suore e un altro prete, don Paolo, parroco fino al 2005 di Cerreto Rossi di Ferriere (anno della sua morte). Don Giuseppe studia nel seminario urbano, viene ordinato dal vescovo Menzani il 9 marzo 1940 ed è inviato come curato a Viustino dove resta alcuni mesi.
Viene quindi nominato insegnante nel seminario di Bedonia e nel 1945 è inviato, come delegato vescovile, all'Infrangibile. Qui, dove si stava sviluppando un nuovo insediamento, il 6 gennaio 1938 il vescovo aveva eretto, con il nome di "Sacra Famiglia", una nuova parrocchia che, mancando le necessarie autorizzazioni, veniva ancora indicata come "delegazione". Primo delegato era stato don Ugo Groppi che aveva provveduto anche alla costruzione di un piccolo tempio.
Nel 1945 la parrocchia viene affidata a don Giuseppe De Micheli che concepisce il progetto di una "Città dei Ragazzi" per accogliere gli adolescenti segnati dalla guerra, in genere orfani. In breve nasce una comunità di circa 150 ospiti per i quali, con grande coraggio, viene costruita una sede, l'edificio che si trova a destra dell'attuale chiesa della Sacra Famiglia, per chi guarda la facciata. L'organizzazione è quella dell'oratorio, ma anche del convitto. Infatti un gruppetto si ferma pure a dormire. I ragazzi vanno a scuola: i piccoli frequentano le elementari al "Taverna", i più grandicelli vanno alla Coppellotti (l'avviamento industriale del tempo), poi all'interno dell'istituzione si dedicano ad attività formative che potremmo definire sociali.
Il 30 ottobre 1950 il vescovo nomina delegato alla Sacra Famiglia don Giuseppe Braceschi, uno dei parroci storici di questa comunità (rinuncia il 1° settembre 1996), e don De Micheli può dedicarsi interamente alla "Città" dei suoi ragazzi, istituzione che conosce anche autentici momenti di gloria. Ad esempio nell'ottobre del 1949 sette "cittadini" meritano gli onori della cronaca: camminando ininterrottamente 18 giorni, vanno in pellegrinaggio a Roma dove vengono ricevuti dal Papa, visitano il Quirinale, portano a casa anche importanti sovvenzioni dagli Aiuti Internazionali.
Tutto questo, però, non basta a sanare i bilanci del centro e nel 1951 don De Micheli trasferisce la sua "Città" nella villa Raggio di Pontenure, la Bellotta. Qui allestirà anche una falegnameria per integrare le lezioni teoriche che i piccoli "cittadini" frequentano presso le scuole di Valconasso. Dopo qualche anno la città chiude lasciando però una forte impronta nel tessuto sociale piacentino. Sul piano formativo l'esperienza era stata indubbiamente interessante.
Intanto il fondatore il 24 agosto 1957 viene nominato parroco di Rossoreggio di Bettola e il 1° maggio 1972 passa alla guida della parrocchia di Paderna di Pontenure. Muore il 31 marzo 1988.
P. Gherardo: la Casa del Fanciullo
La Casa del Fanciullo, nata nel 1948, dopo alcuni anni di esperienze d’avvio, si è sviluppata con un solido programma educativo aggiornato nel tempo. Rispetto della personalità degli allievi, coinvolgimento della famiglia, impegno educativo per l’intero anno: queste alcune componenti di un progetto formativo che é ad un tempo sociale, pedagogico, religioso, umano. Padre Gherardo ha sempre avuto ben presente la globalità della persona dei suoi piccoli amici.
Il Francescano muore il 26 agosto 2001. Originario del Modenese (era nato nel 1913 a Monfestino di Serramazzoni, quarto di nove fratelli) a undici anni è entrato nel seminario francescano di Bologna proseguendo il noviziato a Villa Verucchio di Forlì. Ha frequentato il liceo a Modena e il corso di teologia a Piacenza. Nella nostra città è stato ordinato nel 1937 in cattedrale dal vescovo diocesano Ersilio Menzani.
Compiute le prime esperienze pastorali in Romagna, nel 1940 è stato chiamato alle armi come cappellano militare e qui ha avuto il suo primo incontro con l’infanzia sofferente nella fredda steppa russa, nel quadro di un dramma di dimensioni ancora più grandi: la campagna di Russia della seconda guerra mondiale. Era stato inviato laggiù con i reparti italiani di un Corpo di spedizione (Csir) diventato in seguito Armata (Armir). Il loro è uno dei capitoli più tragici di un conflitto – com’è noto ‑ che già di per sé si è meritato un posto nella storia per i sacrifici che ha imposto sia ai reparti in armi sia ai civili.
Padre Gherardo, destinato in un primo tempo all’ospedale di Torino, passa poi al battaglione mortai di stanza a Novara. Il 24 giungo 1942, con il sesto ospedale da campo, parte per il fronte russo: in pochi giorni il suo reparto si addentra nella steppa. Lasciatosi alle spalle la Polonia, dal 29 giugno tocca Kuranovič, Monsk, Kojdanov, supera la Beresina a Bobrujsk, passa il Dniepr, transita per Gomel’, Merefa, Lozovoa, Nova Gorlovka, Rikovo, Vorošilovgrad, Millerovo, Gorbatov, dove c’è il comando di divisione, ed il 13 agosto giunge a Bol’šoj dove viene montato l’ospedale da campo, un cosiddetto “ospedale di punta” a ridosso della prima linea. E’ facilmente intuibile quali siano le giornate del tenente cappellano Gubertini in una struttura dove i feriti arrivano a centinaia, ma la campagna di Russia, come si sa, ha in serbo ben altre sorprese. Nel frattempo il francescano aveva avuto anche l’incarico di assistere spiritualmente gli alpini del Quinto reggimento.
Giunge così l’inverno e inizia la ritirata durante la quale la sofferenza dei soldati italiani è pari solo ad alcune pagine di eroismo scritte da singoli o interi reparti. Il 20 dicembre, mentre il reparto si sta ritirando pur continuando a combattere, nella battaglia di Kamenka, padre Gherardo riporta la frattura di una gamba. Fortunosamente riesce a raggiungere le retrovie. Riceve le prime cure a Stalino dove viene posto su un treno che lo riporta in patria. Giunge in Italia il 29 gennaio 1943 e finalmente, nell’ospedale militare di Cesenatico, può ricevere adeguata assistenza. Rimessosi in salute, continuerà il suo servizio come cappellano, ma ciò che lo ha colpito profondamente è stata l’esperienza nella steppa: il giovane frate ricorderà in seguito le sue sofferenze, ma ammetterà di essere stato segnato dal dolore dei soldati e soprattutto dei civili, vittime inermi di un conflitto che non riuscivano nemmeno a capire.
Terminato il servizio militare, nel 1946 torna a Piacenza dove inizia il suo impegno nell'assistenza ai ragazzi le cui famiglie erano state vittime della guerra. Con l'aiuto del Terz'Ordine Francescano in locali del convento cittadino di Santa Maria di Campagna comincia ad organizzare corsi scolastici convinto che l'emarginazione si combatta soprattutto con l'istruzione.
Nel 1948, dopo diverse esperienze, nasce la Casa del Fanciullo. La linea di condotta di padre Gherardo, nella sua nuova veste di educatore, è caratterizzata soprattutto dalla centralità della persona dei ragazzi e dalla qualità delle strutture. Due voci strettamente legate tra loro. Fin dall'inizio il Padre si è impegnato per cercare una sede che fosse adatta all'attività formativa. All'inizio è stato ospitato in locali annessi alla basilica di Santa Maria di Campagna, dove ora vi è il doposcuola Tandem. All'inizio degli Anni Novanta ha messo mano alla costruzione di una nuova sede a Ivaccari. Un altro impegno di primaria importanza è andato alle sedi estive per dare continuità al processo educativo. Fin dall'inizio, si è dato da fare per trovare una casa per le vacanze. Dopo alcuni tentativi, nel 1958 nasce la casa di Carenno che tutti conoscono.
Quando padre Gherardo ha fondato la sua scuola, a Piacenza ne erano sorte altre. Nel tempo il Padre non solo è rimasto l’unico, ma ha anche mantenuto una posizione d’avanguardia. A parte il suo carisma personale, per il quale non ci sono ricette, vi sono alcuni principi che gli hanno permesso di resistere nei decenni. Ovviamente il tempo sarà in grado di fornire un’analisi oggettiva dell’esperienza di questo Fondatore. Ci sembra, però, che su alcune scelte non vi siano dubbi.
Padre Gherardo è stato un precursore nel coinvolgere i laici: da Piacenza alle montagne bergamasche ha trovato collaboratori in tutte le classi sociali. Vi è stato chi ha dato denaro, ma soprattutto tutti si sono rimboccati le maniche. Inoltre, per quanto riguarda il metodo, ha saputo aggiornarsi con proprietà. Da uomo di Chiesa ha sempre avuto un profondo rispetto per le persone, sia i ragazzi sia i loro genitori, e questo, ad esempio, lo ha portato ad inserire nel progetto formativo la famiglia con un ruolo profondamente attivo.
Padre Gherardo e l’insegnamento religioso.
Importante anche l’insegnamento religioso e a questo proposito, ha scritto lui stesso, sulle pagine della rivista della Casa: “La famiglia per noi resta un modello. Come la mamma e il papà si preoccupano perché i loro figli imparino a leggere e a scrivere, ma non solo: sono attenti anche alla loro persona, anche la Casa del Fanciullo, fin dalle sue origini, non si è mai limitata a dare solo una generica istruzione. Il nostro impegno è per la vita dei nostri ragazzi e per questo abbiamo sempre curato anche l’istruzione religiosa. E’ un argomento sul quale è facile essere fraintesi. L’obiettivo del nostro impegno, del mio in particolare, non è quello di fare proseliti, ma di giungere, attraverso l’insegnamento di Cristo, alla valorizzazione della persona. In questo mio intento ho sempre avuto l’appoggio e la partecipazione dei ragazzi che frequentano, con interesse, gli incontri in cappella. Ora i piccoli ospiti sono numerosi e spesso dobbiamo incontrarci nella sala delle riunioni. A questi incontri devono essere sempre presenti anche le insegnanti in quanto tali momenti devono rientrare a tutti gli effetti nel percorso formativo. Ci si potrà obiettare che nella nostra istituzione non vi è, sotto questo aspetto, pluralità. No, non c’è! Lo diciamo con chiarezza non tanto perché vogliamo fare della discriminazione. Alla Casa del Fanciullo sono bene accetti tutti, ma il fatto che si privilegi il cristianesimo sta proprio nella convinzione che più che ad un’istruzione religiosa tecnica e fredda, ci preme trasmettere agli alunni l’essenza del vangelo che è universale più di quanto possano pensare i non credenti. Puntiamo all’educazione, più che all’istruzione. Quest’ultima non la sottovalutiamo, ma è un mezzo, la prima un obiettivo. La dimostrazione che la religione, alla Casa del Fanciullo, non è un semplice fatto di proselitismo, ma la sintesi del nostro rispetto alla persona, è dimostrato da tante altre iniziative”.
Non potevamo ricordare la biografia del padre senza soffermarci sui principi del suo metodo. La sua vita è stata ricca di molti altri particolari che, in una sede più appropriata, dovranno essere ricordati.
Ad esempio era contemporaneamente il “frate cercone” – la definizione era sua - e l’amico dei notabili, sapeva muoversi con sicurezza su un palcoscenico davanti ad una folla e spingere una carriola per costruire la casa per i suoi ragazzi. Era umile e non amava atteggiarsi a protagonista, ma, conversando con lui, finivi con lo scoprire che aveva studiato musica al conservatorio, che sapeva suonare la fisarmonica per una serata con amici, ma anche il pianoforte per accompagnare l’amico tenore, che sapeva comporre brani musicali, che aveva una solida istruzione umanistica, ecc..
Sono indicativi, a questo proposito, i numerosi riconoscimenti ricevuti: il Ministro della Pubblica Istruzione Mattarella è venuto appositamente a Piacenza per consegnargli la medaglia d’oro per meriti scolastici; era commendatore della repubblica; negli anni Sessanta la Famiglia Piasinteina gli ha consegnato il Premio della bontà notte di Natale; gli era stato pure assegnato l’Antonino d’oro, ecc.. Nel settembre successivo alla sua morte la Fondazione di Piacenza e Vigevano gli ha concesso “alla memoria” l’Angil dal dom.
Altre esperienze
Qualche altra esperienza di questo periodo. Dagli anni immediatamente precedenti la guerra fino a metà anni Sessanta funziona a Piacenza anche la “mensa del povero” della FUCI (gli universitari avevano avuto in gestione questa iniziativa dall’Opera Pia Alberoni). “Così, per più di vent’anni, un gruppo di poveri della nostra città ogni domenica, dopo aver partecipato all’Eucaristia, riceveva gratuitamente un pasto caldo e abbondante”.
Negli anni Cinquanta vi sono anche altre iniziative di settore: ad esempio la parrocchia della SS. Trinità avvia il F.A.C. (Fraterno aiuto cristiano) come ha ricordato, inquadrandolo nel suo contesto ecclesiale, mons. Antonio Tagliaferri in una recente pubblicazione. Ovviamente non va trascurato l’impegno delle Conferenze di San Vincenzo. Questa struttura della carità ha avuto in diocesi nomi importanti come il caso di Giuseppe Berti che operava nella parrocchia cittadina di Sant’Anna. Si va comunque verso cambiamenti sociali e politici che anche sul piano ecclesiale risentono di una nuova sensibilità che non manca in diocesi dei necessari strumenti di approfondimento con iniziative culturali dell’importanza – citiamo sempre a titolo di esempio – della Scuola Sociale che, per merito di monsignor Eliseo Segalini, si tiene a Palazzo Fogliani negli anni Sessanta.
Le Conferenze San Vincenzo
Una presenza antica quanto prestigiosa, in diocesi, è costituita dalle conferenze di San Vincenzo: attualmente, stando al loro sito internet, sono 8 (sette in città e 1 in provincia) riunite in un Consiglio Centrale. La sede attuale è presso l’Oratorio di S. Dalmazio in via Mandelli, 23 a Piacenza.
La San Vincenzo piacentina è nata nel 1853 per iniziativa di alcuni patrizi piacentini fra i quali il conte Francesco Caracciolo che ne fu il primo presidente. La prima opera che la prima Conferenza mise in atto fu l’assistenza agli orfani del colera che in quell’anno imperversò: venne fondato un orfanotrofio gestito dalla San Vincenzo. L’attività principale comunque era, come lo è adesso, l’assistenza e la visita a domicilio dei poveri.
Negli anni a seguire la San Vincenzo fu messa a dura prova da lotte e persecuzioni, ma era talmenteforte la fede e la volontà di proseguire secondo gli insegnamenti del beato Federico Ozanam che pian piano la Società si risollevò non senza fatica ma con coraggio seguì l’esempio di Parigi e aprì il 31 gennaio 1874 le cucine economiche (le prime mense dei poveri) anticipando di quasi un secolo quelle che verranno poi con la Caritas. Negli anni successivi si crearono poi le altre Conferenze (fino a 11 nel 1953).
L’episcopato Manfredini
Negli anni del Dopoguerra la diocesi è guidata dall’arcivescovo mons. Umberto Malchiodi che riorganizza alcuni settori e soprattutto aiuta la comunità a vivere il Concilio. Nel 1969 cambio di guardia a Palazzo vescovile: arriva mons. Enrico Manfredini e, visto che stiamo parlando di avvenimenti accaduti appena ieri, possiamo dire concluso il percorso storico che ci eravamo ripromessi di richiamare alla memoria.
Può essere utile, però, un breve cenno al quadro d’insieme – ci limitiamo sempre al settore che con termine sempre più stretto indichiamo “assistenza” – unicamente per favorire i necessari approfondimenti che lasciamo ad altri.
Iniziamo con il richiamare la scheda biografica di questo vescovo, il cui ricordo è ancora ben vivo nella maggioranza dei cattolici piacentini. Mons. Enrico Manfredini nasce a Suzzara di Mantova il 20 gennaio 1922. La famiglia si trasferisce nel 1930 a Milano e il giovane Enrico entra nel seminario dell’archidiocesi milanese nel 1934 completando i suoi studi alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Venegono. Viene ordinato sacerdote il 26 maggio 1945.
Fino al 1950 é curato prima a Monza e poi a Lambrate interessandosi in particolare dei giovani. Nel 1951 si laurea in lettere e filosofia all’Università Cattolica. Dal 1950 al 1956 insegna filosofia nei collegi dell’archidiocesi di Milano assumendo anche l’incarico di preside. Dal 1956 é assistente diocesano degli uomini di Azione Cattolica; negli anni seguenti, fino al 1963, é delegato vescovile per l’AC diocesana. Dal 1963 è prevosto della basilica di San Vittore a Varese e come tale é “parroco uditore” al Vaticano II. Paolo VI, il 4 ottobre 1969, lo nomina vescovo di Piacenza, diocesi rimasta vacante per la rinuncia, per motivi di età, di mons. Umberto Malchiodi. L’ordinazione episcopale è del 4 novembre 1969; l’8 dicembre successivo fa l’ingresso in diocesi.
Diverse le iniziative che il vescovo Manfredini, seguendo le indicazioni del Concilio, attua nella diocesi piacentina: crea l’Istituto La Casa per la pastorale della famiglia e del matrimonio, segue l’aggiornamento dei preti, si impegna nella pastorale di tutte le categorie in particolare del mondo dell’emarginazione, del lavoro e della cultura. Tra le opere che hanno maggiore risonanza, vi é la pastorale missionaria che porterà, ad esempio, alla fondazione di “Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo”. In questo caso preziosa é stata la collaborazione con don Vittorio Pastori.
A livello regionale, come vescovo, é stato delegato per la famiglia dal 1970 al 1977 e dal 1982 alla morte; a nome dei confratelli dal 1977 al 1982 si è interessato di problemi caritativi e assistenziali; a livello nazionale é stato prima segretario (dal 1973 al 1975) e poi presidente (dal 1982 al 1983) della commissione episcopale per la famiglia; dal 1975 al 1978 é stato presidente del comitato episcopale per l’Università Cattolica.
Il 18 marzo 1983 Giovanni Paolo II lo nomina arcivescovo di Bologna in sostituzione del dimissionario cardinale Antonio Poma. Fa l’ingresso il 30 aprile 1983. Nel capoluogo emiliano muore il 17 dicembre 1983 per infarto.
Con questo Vescovo il Concilio, che già Piacenza con mons. Malchiodi aveva vissuto in posizione privilegiata, diventa operativo. Per quanto riguarda l’assistenza, come si vede da questi cenni biografici, viene segnata maggiormente dal messaggio evangelico (Manfredini è stato anche, e soprattutto, un MAESTRO) e coordinata con l’insieme delle molte iniziative della diocesi; da qui il fiorire delle molte iniziative che hanno al centro l’istituzione della Caritas.
La pastorale diventa prioritaria come dimostra l’istituzione di apposite strutture
1972: La Caritas Diocesana
Fin qui un’assistenza ha privilegiato l’intervento concreto. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, con la nascita della Caritas, si registra un cambiamento di rotta: ha priorità la pastorale della carità
La Caritas Italiana (e di conseguenza le Caritas diocesane) nasce il 2 luglio 1971. In tale data viene, infatti, costituita con decreto del cardinale Antonio Poma, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, dopo la cessazione nel 1968 della POA (Pontificia opera di assistenza); contemporaneamente all’emanazione del decreto, la CEI nomina un gruppo di lavoro composto da monsignor Giovanni Nervo, monsignor Carlo Muratore, monsignor Giulio Salmi, per dare vita agli organi statutari, il consiglio nazionale e la presidenza.
Prendeva così consistenza un nuovo organismo pastorale, per il quale lo stesso Paolo VI indicava mete non assistenziali, ma pastorali e pedagogiche. “Senza sostituirsi alle istituzioni già esistenti in questo campo nelle varie diocesi e senza far perdere alle medesime la loro caratteristica e la loro autonomia – disse il Papa – questo nuovo organismo si presenta come l’unico strumento ufficialmente riconosciuto a disposizione dell’episcopato italiano per promuovere, coordinare e potenziare le attività assistenziali nell’ambito della comunità ecclesiale italiana”.
Il primo convegno nazionale delle Caritas diocesane si svolge nel settembre del 1972 ed è di nuovo Paolo VI a indicare i pilastri su cui costruire la Caritas: “La carità è sempre necessaria come stimolo e completamento della giustizia (…). Una crescita del popolo di Dio nello spirito del Concilio Vaticano II non è concepibile senza una maggior presa di coscienza, da parte di tutta la comunità cristiana delle proprie responsabilità nei confronti dei bisogni dei suoi membri”.
A Piacenza
La Caritas diocesana nasce a Piacenza il 14 ottobre 1972 con l'atto costitutivo di mons. Enrico Manfredini che si ispira alle linee suggerite dalla Caritas Italiana. Attenta ai segni dei tempi ed alle urgenze del territorio e del mondo, mette in atto dei servizi per dare risposte che siano "segno" dell'interessamento della Chiesa ai problemi dell'uomo e che al tempo stesso stimoli le istituzioni a trovare risposte adeguate.
Per realizzare queste "opere segno" suscita una schiera di volontariato in tutti gli strati della società. La Conferenza Episcopale Italiana ha chiesto alle Caritas diocesane di passare la gestione ad altre entità per poter essere libera di svolgere il suo mandato "prevalentemente pedagogico", di coordinamento e di stimolo al mondo sociale.
Per raggiungere i propri scopi la Caritas diocesana si avvale di strutture che operano in diversi settori. Vediamone in breve alcuni facendo riferimento al sito internet ufficiale dell’istituzione.
PASTORALE. L'Ufficio Pastorale Caritas diocesana ha una funzione "prevalentemente pedagogica", per animare tutta la comunità religiosa e civile all'attenzione cristiana verso tutti, specialmente i più poveri.
"La Caritas Diocesana è l'organismo pastorale costituito dal Vescovo al fine di promuovere, anche in collaborazione con altri organismi, la formazione e la testimonianza della carità della comunità ecclesiale piacentina, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell'uomo della giustizia sociale, e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica. La Caritas diocesana è lo strumento ufficiale della diocesi per la promozione e il coordinamento delle iniziative caritative ed assistenziali." (art.1 Statuto)
Alla Caritas Diocesana vengono affidati i seguenti compiti a servizio della Chiesa piacentina:
approfondire le motivazioni teologiche della diaconia della carità;
promuovere l'animazione al senso della carità verso le persone e le comunità in situazioni di difficoltà, e al dovere di tradurlo in interventi concreti, con carattere promozionale e, ove possibile, preventivo… (art. 2 Statuto).
LA FONDAZIONE. Nel 1999 nasce la Fondazione Autonoma "Caritas diocesana di Piacenza-Bobbio" per la gestione delle "opere segno messe in atto o che verranno promosse in futuro dalla Caritas Diocesana; è persona giuridica pubblica nell'ordinamento canonico ed è civilmente riconosciuta come Ente ecclesiastico con DPR.
La Fondazione assume la gestione delle attività promosse e coordinate dall'Ufficio Pastorale Caritas diocesana in campo caritativo, assistenziale, culturale, educativo, sociale e missionario. In particolare i suoi compiti sono:
indire, organizzare e coordinare, in collegamento con la Caritas Italiana, interventi di emergenza in caso di pubbliche calamità che si verifichino in Italia e/o all'estero;
realizzare studi e ricerche sui bisogni, per aiutare a scoprirne le cause, per preparare piani di intervento sia curativi che preventivi nel quadro della programmazione pastorale unitaria, e per stimolare l'azione delle istituzioni civili e un'adeguata legislazione;
contribuire allo sviluppo umano e sociale nei Paesi del Terzo Mondo con la sensibilizzazione dell'opinione pubblica, con la prestazione di servizi, con aiuti economici, anche coordinando le iniziative dei vari gruppi e movimenti di ispirazione cristiana. In particolare la fondazione gestisce le opere assistenziali già in atto nella diocesi di Piacenza – Bobbio, denominate Casa di Accoglienza per malati di AIDS "Don Giuseppe Venturini" e Centro diocesano di Servizio Sociale. (art. 3 - Compiti)
Nel perseguimento delle proprie finalità, - precisa lo statuto - la Fondazione ricerca la collaborazione con altri enti nelle forme e nei luoghi che si rivelano nel tempo opportuni e più congeniali. Con analogo intento e nel rispetto delle leggi vigenti, la Fondazione potrà favorire la costituzione e lo sviluppo di società o enti, anche partecipandovi in qualità di socio (art. 4 - Gestione delle attività).
ASSOCIAZIONE CAMMI. L'Associazione "Carmen Cammi - Volontari per la Caritas" coordina il volontariato che si impegna con la sua presenza a far funzionare le "opere segno". Per ottemperare alle norme civili i Volontari operanti nei vari servizi della Caritas si sono associati dando origine all’Associazione di volontariato "Carmen Cammi" ‑ volontari per la Caritas. È iscritta all'Album Regionale del volontariato e Coordinamento provinciale dei volontari, lo SVEP. Si è voluto ricordare così Carmen Cammi, una volontaria che ha operato attivamente al nascere della Caritas diocesana di Piacenza-Bobbio e che Dio ha già chiamato con sé.
Ogni volontario dà il proprio contributo di tempo, energie fisiche ed intellettuali nel campo che ha scelto e di cui si può prendere visione consultando il sito della Caritas diocesana. L'Associazione ha una Assemblea annuale, un Consiglio direttivo che si riunisce periodicamente e promuove iniziative per far conoscere tra di loro i soci.
Centro Missionario Diocesano e Religiosi
Sarà ormai chiaro, anche da una relazione generale come la nostra, che il settore dell’assistenza, essendo quasi sinonimo di carità, riguarda gran parte della vita ecclesiale diocesana. Per questo vi sono settori che ufficialmente riguardano altri aspetti della vita pastorale, ma poi fanno anche dell’assistenza sia attraverso l’attenzione alla persona sia sul piano più ampio della promozione umana.
E’ il caso delle missioni e in primo piano, in questo caso, vi è il Centro Missionario Diocesano che raccoglie aiuti sia per la ultraquarantennale missione diocesana in Brasile, sia per quelle in Africa. E’ un quadro molto ampio e diversificato, dalle offerte in denaro alle adozioni a distanza, per non parlare dell’apporto non meno importante dei volontari.
Vi sono poi le varie congregazioni religiose che spesso hanno al loro fianco associazioni collaterali che organizzano aiuti ed energie per i più deboli. E qui il panorama è veramente ampio: si va dai pasti offerti ai bisognosi dai Cappuccini dello Stradone Farnese alle “Mamme della speranza” (genitori che hanno perso figli) che si appoggiano alle Suore di monsignor Torta”.
A Piacenza, nel settore dell’assistenza, prendono il via in questi anni diverse strutture, altamente benemerite, che si muovono seguendo un progetto pienamente in linea con le indicazioni della Chiesa locale, pur seguendo propri progetti e con un diverso grado di autonomia. Di seguito ci limitiamo a ricordare quanto sta facendo “La Ricerca” e citiamo altre realtà: solo cenni per indicare quanto sia ricco e complesso questo settore.
La Ricerca
Iniziamo – a titolo d’esempio ‑ con uno sguardo di massima a “La Ricerca”, un'associazione al servizio della persona, molto articolata e complessa: la sua proposta educativa per affrontare il disagio in tutte le sue forme è strutturata in diverse aree di intervento e con una molteplicità di servizi. Fa parte della Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche) che si ispirano a Progetto Uomo, il programma terapeutico elaborato sulla base del metodo DayTop Village statunitense e avviato in Italia da don Mario Picchi nel 1978; e come ente ausiliario iscritto all'Albo regionale dell'Emilia Romagna entra nel sistema dei servizi sociosanitari del territorio ed è convenzionata con l'Asl.
La filosofia del metodo terapeutico centrato sull'Uomo: Progetto Uomo pone l'uomo al centro di ogni intervento multidisciplinare e lo accoglie nella sua fragilità e nel suo disagio esistenziale, che esprime nell'affrontare la quotidianità della vita.
Fondata nel 1980, l'associazione non ha fini di lucro, persegue in modo esclusivo finalità di solidarietà sociale e svolge la propria attività prevalentemente nel settore dell'assistenza sociale, sociosanitaria e della prevenzione.
La sede dell'associazione La Ricerca, a Piacenza, in Stradone Farnese 96, funge oltre che da raccordo dei propri servizi sul territorio, anche da primo punto di contatto con le famiglie e l'utenza. Qui si trovano gli operatori dell'area prevenzione che si diversifica in vari settori: punto di ascolto dipendenze e consulenza P.A.D.; interventi sul territorio mirati a leggere il disagio, che insorge nell'età giovanile, con Iniziative e progetti di formazione; attività educative che coinvolgono enti locali, altre associazioni, famiglie, insegnanti, allenatori, educatori.
Sempre in sede (Stradone Farnese 96), l'associazione ha attivato un Gruppo specifico (il Diogene) che offre accoglienza e sostegno a giovani consumatori di droghe leggere e nuove droghe e alle loro famiglie.
Attivo anche uno speciale centro di orientamento al servizio di tutte quelli persone che stanno vivendo un momento particolarmente difficile, perché non riescono più a gestire il rapporto con la famiglia, con i figli, con i genitori, o con il marito, la moglie, perché sono finite nelle tenaglie della depressione, perché un dolore grave li ha talmente provati che non sono più in grado di relazionarsi con nessuno…persone che ad un certo punto della loro esistenza si ritrovano incapaci di capire che cosa fare, perdono autostima e capacità di agire. Il Centro ha sede al numero 2 di via Lanza.
Vi sono poi i servizi residenziali con quattro comunità terapeutiche: “La Vela” per le persone che hanno scelto di frequentare il percorso educativo Progetto Uomo; “Luna Stellata” per mamme tossicodipendenti; “Comunità di accoglienza Don Giuseppe Venturini” per persone in Aids conclamato e senza supporto familiare (la sede è nel grande immobile della Pellegrina, in Strada Agazzana 68); Emmaus (sempre alla Pellegrina, in una struttura adiacente ai locali della "Don Venturini"), che offre un servizio ad alta caratterizzazione terapeutica per persone con disturbi da uso di sostanze che presentano compromissioni psicologiche e psichiatriche.
Altre realtà
Ci siamo soffermati su “La Ricerca” per dare l’esempio di quanto sia complesso questo mondo in cui il volontariato, la preparazione specifica, l’attenzione alla persona ed altro ancora concorrono ad un’unica finalità.
Altrettanto spazio, e forse più, meriterebbero, tra gli altri, l’associazione Assofa, la cooperativa Assofa, il Germoglio, l’Istituto la Casa, tutti con le varie diramazioni e i molti collegamenti. Ma questo esula dal nostro compito.
Chi volesse avere altre informazioni, oltre a consultare i singoli interessati ed i loro siti internet, può entrare nel sito: www.provinciasolidale.pc.it.
Il XVII Sinodo Diocesano
Ovviamente per la Chiesa fare assistenza non è semplicemente aiutare fisicamente le persone, ma realizzare un comandamento fondamentale del Signore. Questa è la vera forza che anima le varie iniziative e questo spiega anche il significato importante che, per noi, viene ad assumere il XVII Sinodo Diocesano indetto dal vescovo mons. Antonio Mazza e punto di riferimento nella recente vita della diocesi di Piacenza-Bobbio.
Com’è noto, il Sinodo si è tenuto da metà degli anni Ottanta al 1991 quando, dopo l’assemblea conclusiva, il Vescovo ha divulgato i documenti conclusivi raccolti poi nel volume: “Sinodo diocesano di Piacenza-Bobbio 1987-1991- Dichiarazioni e decreti – Editrice Berti”.
Al nostro tema il Sinodo ha dedicato l’intera parte quinta: “Una Chiesa che vive la carità”. È un capitolo diviso in due parti: la carità e la Chiesa dove si trovano considerazioni teologico – pastorali (“La carità non può essere intesa solo come semplice impegno al fare, ma come dono di Dio da accogliere e da cui lasciarsi plasmare”) e l’illustrazione delle varie scelte pastorali. Quindi le iniziative al servizio dell’uomo d’oggi.
Importante per capire il quadro culturale (termine da intendere nella sua accezione più ampia) è anche la seconda sezione: “La carità e i cristiani a servizio dell’uomo nella società civile”. Per comprendere l’importanza di queste pagine è sufficiente leggere il primo capoverso dell’introduzione a questa seconda parte: “La Chiesa di Piacenza-Bobbio, nell’affrontare gli aspetti del servizio della carità dei fedeli nelle realtà del nostro territorio, prende in considerazione il rapporto con la politica, il mondo del lavoro e della scuola, dello sport e del tempo libero, letti tenendo conto della cultura attuale, resa cultura di massa dall’eccezionale influsso dei mezzi di comunicazione”.
Il Sinodo ha avuto come “opera segno” la casa di accoglienza don Giuseppe Venturini.
La necessità di tenere gli occhi sul Sinodo
Alla Carità il Sinodo dedica una sezione ampia e importante, entrando nello specifico del rapporto con diverse categorie di persone in difficoltà. Già questo è sufficiente per vedere in queste pagine – come d’altra parte hanno fatto i Vescovi che sono subentrati a mons. Mazza nella guida della diocesi ‑ un punto di riferimento per affrontare i problemi del nostro tempo anche nel mondo dell’assistenza.
Nel valutare il significato di queste indicazioni sinodali va anche tenuto conto qual è stata la loro genesi. Il volume “Dichiarazioni e decreti” che conclude il Sinodo è frutto del lavoro dell’assemblea finale, ma non si dovrebbe dimenticare – come invece spesso avviene – che il Sinodo ha generato un lungo cammino che si è svolto nell’approfondimento e nella ferma volontà di capire i nuovi tempi e, in particolare, la realtà piacentina.
Ad esempio, per quanto riguarda l’assistenza e la carità, un intero anno è stato dedicato a “La Chiesa ascolta l’uomo” e in questo contesto è stata svolta nelle parrocchie una “ricerca sulla situazione socio-pastorale della diocesi”. Sono state predisposte apposite schede e, i dati raccolti, sono stati elaborati, analizzati da sottocommissioni e poi riportati nel dodicesimo quaderno del Sinodo (maggio 1989). Anima di questa pubblicistica sinodale è stato don Giuseppe Venturini che, come direttore della Caritas diocesana, ha avuto un doppio ruolo proprio in questo settore della “ricerca sulla situazione socio-pastorale della diocesi”. Non meraviglia se, in questa sede, vengono portate in primo piano realtà – come le nuove povertà – che la comunità solo a grandi linee stava intuendo al proprio interno.
Quando si parla di introdurre anche nella pastorale una nuova sensibilità storica si intende anche questo: i risultati raggiunti con precedenti contributi devono entrare a far parte di una banca dati che sostengano una programmazione in divenire senza pause o, peggio ancora, ritorni su approfondimenti che in realtà sono già stati fatti.
Ed è con questo augurio che offriamo ai partecipanti a questo convegno la presente relazione avvertendo che si tratta, per forza di cose, solo di una traccia. Per chi volesse approfondire indichiamo una breve nota bibliografica.
Nota bibliografica
Per una storia della Chiesa piacentina, oltre a quelle classiche del Campi e del Poggiali, indichiamo, per le “Storie” generali uscite negli ultimi anni, quella iniziata nel 1980 dalla Cassa di Risparmio, poi passata alla Fondazione e conclusa recentemente dalla Tip.Le.Co.. Sono diversi volumi che ripercorrono la storia piacentina dalle origini fino al 2000. Ampio spazio è dedicato alla storia ecclesiastica.
È in corso di stampa, per iniziativa della Fondazione di Piacenza e Vigevano, una “Storia della Diocesi di Piacenza” in cinque volumi. Finora sono usciti i primi quattro: due riferiti alle fonti; il terzo “Dalle origini all’anno Mille”; il quarto “Dalla riforma gregoriana alla vigilia della riforma protestante”; il quinto in corso di realizzazione.
VENEZIANI M., “Chiesa e società a Piacenza nel Dopoguerra”, Berti, Piacenza, 2001.
FIORENTINI E. F., “Don Serafino. Una vita vissuta nell’amore per il prossimo”, Madonna della Bomba e Banca di Piacenza, 2005
FIORENTINI E. F, “Il Prete degli ultimi. Don Giuseppe Venturini, dal giornalismo alla Caritas e al Sinodo”, Berti, 2006.
Altre pubblicazioni, uscite recentemente, sono relative alla Madonna della Bomba e alla Casa del Fanciullo (per quest’ultima istituzione vedere la rivista dell’Associazione degli Amici della Casa …).
Un grazie a Vittorio Ciani per la collaborazione
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