Vi ringrazio di aver accolto l’invito di partecipare a questo incontro.
Così posso rivolgervi gli auguri di Natale e di buon anno nuovo e, insieme, esprimervi il mio ringraziamento personale e di tutta la comunità ecclesiale per il vostro impegno di amministratori della cosa pubblica.
Ringraziando voi, ringrazio anche coloro che si sono impegnati per questo incontro, in particolare l’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro, e soprattutto il dr. Enrico Corti.
Vorrei dare un contenuto a questo ringraziamento con un omaggio: la lettera enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate. Il dono è piccolo, certo, ma il contenuto è grande, davvero grande. Se l’avete già letta, sono certo che condividete con me questo giudizio. Se non l’avete letta – il tempo disponibile per le buone letture è poco anche per voi –, vorrei invitarvi a trovare il tempo. È il libro dell’anno, come ha detto Mario Deaglio, professore ordinario di Economia Internazionale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Torino, sul Sole 24 ore del 6 dicembre scorso. Ancora qualche giorno fa, il 17 dicembre scorso, sempre sul Sole 24 ore vi era una discussione sull’enciclica (a p. 17). Dico questo perché sono passati ormai sei mesi da quando l’enciclica è stata pubblicata – il 29 giugno – , e, come sapete, oggi un libro ha vita piuttosto breve, molto spesso di pochi mesi.
Insieme al dono dell’enciclica, vorrei anche cogliere l’occasione per condividere con voi alcune riflessioni che traggono ispirazione proprio dall’enciclica stessa.
1. Parto da una frase che non troviamo nell’enciclica, ma che può aiutare a capire il pensiero del Papa.
La frase è la seguente: “la comunicazione costruisce la casa e la città”. È di san Tommaso questa frase: communicatio facit domum et civitatem, la comunicazione fa o edifica la comunità familiare (rappresentata dalla casa) e la comunità civile (rappresentata dalla città, che è tale perché è comunità civile). Vi leggo tutta la frase di san Tommaso: “Poiché, dunque, il discorso è dato all’uomo dalla natura ed è ordinato al fine della comunicazione umana riguardo a ciò che è utile o nocivo, giusto o ingiusto e così via, ne consegue, in considerazione del fatto che la natura non fa nulla di vano, che gli uomini comunichino fra loro. Ma la comunicazione in queste cose costruisce la casa e la città. Dunque l’uomo è per natura un animale domestico e civile” (Tommaso d’Aquino, In Octo Libros Politicorum Aristotelis Expositio, L.I, lectio I, n.37).
Così conclude San Tommaso: “l’uomo è per natura un animale domestico e civile”. San Tommaso scrive queste riflessioni partendo da Aristotele, anzi commentando Aristotele. Quindi se con san Tommaso andiamo indietro nel tempo – è nato nel 1225 –, con Aristotele, nato nel 384 prima di Cristo, arriviamo ai tempi antichi.
Eppure credo che questa frase, con la riflessione che è alla sua origine, sia di una straordinaria modernità. Solo comunicando si costruisce la vita, quella della casa domestica e quella civica, della polis. Il termine comunicare è collegato a ‘comune’, communis, composto dalla preposizione cum e dall’aggettivo munis, il cui significato è dono e impegno. Si tratta allora con la comunicazione di condividere un dono e una carica, una responsabilità, costruendo la comunità civile su ciò che è ‘comune’, condizione essenziale per l’esistenza di qualsiasi comunità.
Perché san Tommaso ci aiuta a capire l’enciclica? Ma ancor di più: perché l’enciclica ci aiuta ad affrontare i gravi problemi economici, politici e umani?
Perché sia san Tommaso sia l’enciclica fanno appello all’unica grande risorsa che abbiamo per uno sviluppo vero, per una crescita autentica: e cioè la persona in relazione, e non l’individuo isolato, la persona che comunica e cioè favorisce ciò che è communis, condivide il dono dello stare insieme e la responsabilità di crescere insieme, e non la lotta tribale, per clan o fazioni o corporazioni di vario genere. Siamo chiamati tutti – in particolare chi ha la responsabilità della cosa comune – a favorire la persona in relazione, la persona che comunica e costruisce la comunità civile, prendendosi cura del bene comune che è il bene di noi-tutti.
2. Proprio su questo bene comune vorrei soffermarmi qualche istante.
Il bene comune, dice il Papa, è il bene di “noi-tutti, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale” (n. 7). Noi-tutti siamo questo bene comune da ricercare, da rispettare, da promuovere. Noi-tutti a livello interpersonale: fin qui la cosa è pacifica. Ma il bene comune è più ampio, legato al vivere sociale delle persone. Per questo il bene comune comporta il “prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale che in tal modo prende forma di pólis, di città” (n. 7).
Voi, amministratori e politici, avete questo grande compito di curare il bene comune più ampio. È un compito grande. Il Papa parla della via istituzionale e politica della carità: “Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella pólis. È questa la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis” (n. 7).
L’esercizio di questa mediazione istituzionale della pólis è delicato. Per tanti motivi. Permettetemi di accennare a un rischio che è presentato dalla enciclica.
Può capitare che l’amministrazione pretenda di dirigere tutto e imporsi a tutto. Così si finisce con il distruggere la vita, la vita della pólis, perché non si comunica, non si condivide, non si favoriscono le soggettività sociali, ma si annullano. Questo è un grande rischio: un rischio che incombe e che va dalla nostra Unione europea alla nostre regioni e ai nostri comuni.
Allora si guarda sempre e solo alla quantità, poco o mai alla qualità, anche nelle spese. Allora si guarda alla gestione di vertice della vita sociale, con una pesante burocratica. Allora si confonde la sfera pubblica con la sfera politicamente controllata e burocraticamente gestita.
Allora si crea nel cittadino la cultura del “dovuto”, dei rapporti di scambio di tipo mercantile. Non si cerca di comunicare, ma di scambiare: io ti do e tu mi dai. Questo mortifica l’uomo e annulla la coscienza. Questo distrugge ogni dimensione comunitaria, per cui alla fine scompare la vita civile.
Si va smarrendo il senso del “dono”, di ciò che mi è donato, senza che io l’abbia potuto richiedere o meritare. Questa dimenticanza comporta una visione riduttiva dell’uomo, e questa visione riduttiva rovina l’economia, e le conseguenze le sperimentiamo. Ma rovina anche la politica, e anche qui lo sperimentiamo. E, ancor più, rovina la vita: senza la logica del dono, la vita non la si capisce e non la si vive come vita umana, relazionale, sociale.
Il Papa scrive: “Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l’adesione, l’agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al ‘dare per avere’, proprio della logica dello scambio, e al ‘dare per dovere’, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato” (n. 39).
Il Papa non è un moralista: è moralista e fa il moralista chi ha abbandonato la morale. Il Papa non ha abbandonato la morale. Il Papa evidenzia un rischio, molto attuale. Se non si è attenti, viene meno la communicatio di cui parlava san Tommaso, viene meno il dialogo tra persone libere e responsabili, viene meno l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze. Viene a mancare ciò che è essenziale per lo sviluppo veramente umano e solidale di una città, di una convivenza civile.
“La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (n. 19): il Papa ci ricorda che abbiamo bisogno della logica del dono e della dimensione della fraternità. Proprio la fraternità è il criterio decisivo, capace di dare il giusto risalto anche a quei criteri dell’agire morale che vengono presentati al termine dell’enciclica, come il principio di sussidiarietà, della solidarietà e di reciprocità, strettamente collegato con la giustizia e il bene comune (nn. 57-58). Benedetto XVI, richiamando l’insegnamento di Paolo VI, afferma che “il sottosviluppo ha una causa ancora più importante della carenza di pensiero: è “la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” (n. 19, Populorum progressio, n. 66).
Sono certo che state già facendo parecchio per cercare di favorire la crescita della vita civile, e dunque anche la crescita della “comunicazione”, secondo il pensiero di san Tommaso, della gratuità e della fraternità secondo l’indicazione del Papa.
Per esempio, vedo che cercate di ridare memoria alla città, ai paesi. È vivo e acuto il bisogno di riacquistare la memoria, per non essere come un viandante colpito sulla strada da improvvisa amnesia: continua a camminare frettolosamente, ma non ricorda più da dove viene e dove va. Una vita schiacciata sul presente è una vita poco civile, appiattita sull’attualità e sull’effimero. Una città cordialmente abitabile ha bisogno di recuperare la memoria storica del suo passato, se non vuole ridursi a un agglomerato di case e di appartamenti. Non si tratta di indulgere a sogni romantici, ma si tratta di recuperare le radici per tradurre l’energia del passato in energia di futuro, in un confronto tra tradizione o memoria o radici da una parte e progetto e creatività dall’altra.
Credo che si possa fare qualcosa anche per aiutare le nostre città e i nostri paesi a riscoprire la gratuità come valore irrinunciabile dell’esistenza. Non solo ricordando che tutti siamo preziosi, che nessuno è inutile e nessuno è superfluo, che tutti siamo abbastanza ricchi per poter dare e abbastanza poveri per dover ricevere. Tutto ciò che facciamo, lo possiamo vivere in spirito di gratitudine e di gratuità, con stile di condivisione e di corresponsabilità: il lavoro, lo studio, la ricerca, l’educazione, il volontariato, il servizio, il riposo, la festa, il riposo. Sì, anche la festa: senza la festa, la gratuità è più difficile da capire e da vivere, ma allora è più difficile la serenità, dentro di noi e tra di noi, è più difficile la relazione, sia in casa sia nella comunità civica, direbbe san Tommaso.
3. Il secondo punto su cui vorrei soffermarmi brevemente riguarda i tradizionali principi dell’etica sociale che sono importanti per una buona amministrazione. Anche qui prendo spunto dal Papa, che parla di trasparenza, di onestà e di responsabilità nell’ultimo capoverso del capitolo terzo, al n.
Se la trasparenza, l’onestà e la responsabilità devono caratterizzare la vita economica, devono ovviamente caratterizzare i comportamenti degli amministratori pubblici. Sono condizioni di base del buon operato personale, e questo riavvicina i cittadini e l’amministrazione, la vita sociale e la vita politica. Occorre ricuperare un clima di fiducia anche attraverso la coerenza personale.
Sono certo che anche su questo fronte già fate parecchio e anche di questo vi ringrazio molto.
Concludo con gli auguri più fervidi di buone feste natalizie a tutti voi, alle vostre famiglie, ai vostri concittadini. Vi assicuro anche la mia preghiera per il vostro compito così importante.
+ Gianni Ambrosio, vescovo
Palazzo Vescovile di Piacenza,
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