«L'Europa non dimentichi Sarajevo e la Bosnia-Erzegovina. Siamo tutti una grande famiglia». E' il messaggio che il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, ha consegnato alla delegazione piacentina nei Balcani in occasione del 15esimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Un pellegrinaggio laico per il quale il vescovo cattolico ha ritagliato quaranta minuti di una domenica mattina di un fresco luglio estivo, almeno nella capitale della Bosnia-Erzegovina. Cordiale, sempre sorridente, nell'udienza privata ha ricevuto - oltre a chi scrive - l'insegnante di religione dell'Isii Marconi e consigliere comunale, Claudio Ferrari, nonchè il presidente dell'associazione "Bosnia oltre i confini", Medaga Hodzich.
«L'Europa ha dato un grande appoggio per creare uno stato in cui siamo tutti uguali, e questo è molto importante; però l'Europa deve entrare di più in questo paese, con leggi democratiche, come in una grande famiglia». Figlio degli accordi di Dayton, si parla della Bosnia-Erzegovina come di uno stato Frankestein: «Oggi abbiamo ben tredici governi! Mamma mia - esclama il cardinale in ottimo italiano -! E chi paga per loro? » Pulijc punta molto sull'uguaglianza dei cittadini di Bosnia-Erzegovina, indipendentemente da etnie e confessioni. «I miei cattolici non possono tornare nella repubblica serba di Bosnia. Se ne sono andati quasi in 320mila. Non può esistere uno stato dentro un altro stato! » Ancora: «Prima della guerra c'erano 528mila cattolici nell'arcidiocesi di Sarajevo. Oggi sono 213mila. L'Europa non vede questa situazione. Solo dice: è già molto che non sparano. Ma non è questa la questione. Bisogna creare una strategia per la pace e la convivenza. Siamo tre popoli (cattolici, musulmani e ortodossi) ma non è un nostro peccato. Occorre rispettare l'identità religiosa, le etnie ma anche creare un'identità nazionale. Noi siamo tutti uguali». Per il porporato «non si può ritornare alla convivenza prima della guerra ma occorre creare una nuova tolleranza. Tutti dobbiamo lavorare per questo fine».
«C'è un proverbio bosniaco - continua - che va a pennello per la nostra situazione: ai piccoli popoli viene messo sempre un grande cappello. In questo paese ci sono tanti influssi: America, Europa, Russia, Grecia, Turchia, Paesi Arabi. E' Dayton che ci ha creato». Si sofferma sulla Chiesa Cattolica in Bosnia: «E' in grande miracolo. Dall'Europa non esiste nessun fondo e nella mia arcidiocesi sono stati distrutti 600 edifici ecclesiastici». Ci vorrebbe un libro per raccontare le testimonianze dei tre anni di assedio che dal 1992 al 1995 schiacciarono Sarajevo. Puljic lo ha anche scritto: "Cristiani a Sarajevo", edizioni Paoline. In udienza ci tiene però a dare l'idea: «Eravamo senza luce, medico, acqua, gas. Mangiavamo solo riso, tanto che mi sono venuti gli occhi a mandorla - scherza -; nel mio giardino ho scavato un pozzo per trovare l'acqua, a 9 metri. Ci cadevano sulla testa granate giorno e notte. Se oggi ho qualche problema all'udito è per il loro assordante rumore». «La Chiesa oggi. Bisogna sopravvivere ma anche dare speranza ai sacerdoti e al mio popolo - prosegue Puljic -. Ho venti sacerdoti malati a causa della guerra. Ho cominciato a costruire una casa per loro ma con grandi problemi per i permessi». «Quando vado a Roma mi chiedono sempre: come va a Sarajevo? Domanda molto interessante, rispondo io... ». Parla di papa Benedetto XVI e ricorda l'impegno di Giovanni Paolo II per la pace: «Ha chiesto più di 270 volte la pace in Bosnia. Non per mio merito, ma come omaggio alla popolazione mi ha fatto cardinale. Quando è venuto, nel '97, è stato accolto da migliaia di persone. Ho conosciuto un musulmano, malato, venuto a vedere il papa allo stadio.. Per i dieci giorni successivi non ha più avuto bisogno di cure».
Al fianco del papa, allora, c'era il "piacentino" monsignor Piero Marini. «Una persona pratica, concreta, diretta» lo ricorda il cardinale. Sarajevo può essere ancora oggi una Gerusalemme d'Europa, come disse Giovanni Paolo II? «E' molto importante creare una capitale per tutti, non solo per i musulmani. Le autorità devono capire che la sicurezza dipende dalla convivenza di questa città. Questa deve essere una città per tutti. Io non parlo come politico o diplomatico ma come uomo».
Federico Frighi
Libertà, 25 luglio 2o1o
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