Le consegne Pastorali
In dialogo con il Vescovo
Introduzione
Bene, un po’ di imbarazzo ce l’ho, per tanti motivi, innanzitutto perché… una volta usava fra i cardinali fare il suo monumento sepolcrale prima di morire… con tutte queste vostre lodi… ho già l’aureola.
Il secondo motivo è questo, il mio vescovo che era mons. Baroni di Reggio Emilia, diceva: “Bisogna sempre essere attenti a volere bene al proprio vescovo, ma al vescovo attuale, non al vescovo di prima o non al vescovo della diocesi vicina, proprio al vescovo della propria diocesi”. Allora vuole dire alla fine che, sì, io qualche cosa dico e lo dirò molto volentieri perché mi piace, ma il cammino sarà da fare con il futuro vescovo, con il nuovo vescovo di Piacenza-Bobbio, che il Signore attraverso il ministero di qualcuno ci manderà. Quindi prendetele come consegna ma in senso molto ampio, cioè non ci sono regole, non ci sono evidentemente dei punti rigidi per il futuro.
Il terzo motivo dell’imbarazzo, ma relativamente in questo senso, è che quello che io voglio dire lo trovate già scritto in modo bellissimo nella Novo millennio ineunte nei cap. 3° e 4°. Quindi se voi andate a leggere quella Lettera di Giovanni Paolo II ci ritrovate le cose che mi stanno a cuore e che io tento di dire come viene.
‑ I ‑
La prima consegna fondamentale è quella della santità
1. La santità indica quella perfezione del cammino di crescita e di maturazione che ogni uomo è chiamato a fare. La santità è il culmine del progetto di Dio, ed è per noi il segno di credibilità della fede.
Parto dalla “santità”, da quello che il Papa collocava come impegno fondamentale. La santità è un po’ fuori moda, però, dal punto di vista di Giovanni Paolo II, e credo che sia importante, è il nostro orizzonte fondamentale. La santità indica quella perfezione del cammino di crescita e di maturazione che ogni uomo è chiamato a fare.
Lo dicevamo questa mattina in modo banale, la “vocazione dell’uomo è diventare uomo”, ma detto in un altro modo è “diventare santo”, di portare a pienezza quelle potenzialità che il Signore ha messo dentro al suo cuore. Perché il senso della Rivelazione dell’Incarnazione ‑ il motivo per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo ‑ è fondamentalmente questo: Dio viene incontro all’uomo per renderlo uomo. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, diventa veramente uomo quando assomiglia a Dio; bene, viene Lui, Dio, a indicarci la strada e a darci l’energia per questo cammino. Quindi la santità è il culmine del progetto di Dio, ed è per noi il segno di credibilità della fede.
Perché il discorso diventa: siete cristiani, avete fede in Gesù Cristo, ma questo vi rende più uomini? Questo arricchisce la vostra umanità? Fatemelo vedere! Se mi fate vedere una umanità arricchita dall’incontro con il Signore, vuole dire che in quel Cristo nel quale voi credete c’è una energia straordinaria di via, diventa credibile, si riconosce che c’è il “dito di Dio”, la potenza di Dio a favore dell’uomo.
2. Questo il discorso della santità: cioè riuscire a vivere in questa vita facendo il meno male possibile agli altri.
E portate pazienza per la citazione. Vi rileggo un brano famoso di quel romanzo straordinario, anche allegorico per certi aspetti, che è la “Peste” (1947) di Albert Camus [1]. Dice ‑ verso la fine del libro, ormai la peste a Orano in Algeria è passata per fortuna con tutte le sue tragedie ‑ uno dei protagonisti medico che ha combattuto contro la peste:
“Quand’ero giovane vivevo pensando di essere innocente, vale a dire che non pensavo affatto. Non sono un tipo del tormentato, sono partito col piede giusto, tutto mi riusciva bene: ero intelligente, avevo successo con le donne e se avevo qualche inquietudine passava come era venuta. Con il tempo mi sono accorto che anche quelli che erano migliori degli altri non potevano fare a meno di uccidere o di lasciare uccidere. Era nella logica in cui vivevano: non si poteva fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di far morire. Sì, ho continuato ad avere vergogna e ho capito che tutti eravamo nella “peste” e ho perduto la pace. Ancor oggi la cerco tentando di comprendere tutti e di non essere nemico mortale di nessuno, so soltanto che bisogna fare il necessario per non essere più un appestato e che soltanto questo ci può fare sperare nella pace, o in mancanza di questa, in una buona morte. Questo solo può dare sollievo agli uomini e se non salvarli, almeno far loro il minore male possibile, persino talvolta un po’di bene. Ecco, perché ho deciso di rifiutare tutto quello che, direttamente o indirettamente, con motivazioni buone o cattive, fa morire o giustifica che si faccia morire. Questa “epidemia” non mi insegna nulla, se non che bisogna combatterla al vostro fianco. Io so con certezza che ciascuno la porta in se stesso la peste, perché nessuno, nessuno al mondo ne è indenne. So che bisogna essere sempre attenti per non farsi trascinare in un attimo di disattenzione a respirare sulla faccia dell’altro e trasmettergli così l’infezione. Ciò che è naturale è il microbo, il resto ‑ cioè la salute e l’integrità e la purezza ‑, è il risultato di uno sforzo di volontà che non deve mai allentarsi. L’uomo onesto, quello che non infetta quasi nessuno, è quello che ha meno distrazioni possibili, e ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti. Sì, costa molto essere un appestato, ma costa assai di più non volerlo essere: è per questo che tutti sembrano oppressi. Oggi tutti sono segnati dalla peste ma è anche per questo che quelli alcuni che vogliono cessare di esserlo, provano un’estrema fatica da cui nulla li libererà più se non la morte. Da quel momento so che non valgo più nulla per questo mondo e che da quando ho rinunciato ad uccidere mi sono condannato ad un esilio senza ritorno. Sono gli altri che faranno la storia. So anche che non posso giudicare gli altri, mi mancano le qualità per essere un assassino ragionevole; non è un fatto di superiorità dunque, ma ora accetto di essere quello che sono, mi accetto nella mia piccolezza. Dico soltanto che su questa terra ci sono flagelli che uccidono e ci sono vittime; che per quanto è possibile bisogna rifiutare distare con il flagello che uccide. Ciò vi sembrerà un po’ troppo semplice, forse, ma so che tutto ciò è vero. Insomma, disse Tarlot con semplicità, ciò che mi interessa è sapere come si diventa santi. Gli viene fatta l’obiezione: Ma lei non crede in Dio! Certo ‑ rispose ‑, si può essere santo senza Dio? È il solo problema concreto che io oggi conosca!”.
Ci si potrebbe ragionare tantissimo sopra, ma è questo il discorso della santità: cioè riuscire a vivere in questa vita facendo il meno male possibile agli altri. Perché, il rischio di “respirare sulla faccia degli altri la nostra peste”, questa ce l’abbiamo tutti. E ci vuole una attenzione incredibile per riuscire a non infettare nessuno o infettare il minor numero di persone.
3. Il cammino fondamentale è esattamente il diventare santi, e tocca ai credenti manifestare la verità della Rivelazione attraverso la santità, attraverso una vita rinnovata e migliore.
Il cammino fondamentale è esattamente questo: del diventare santi. E tocca ai credenti manifestare la verità della Rivelazione attraverso la santità, non c’è un altro modo, attraverso una vita rinnovata e migliore.
È vero, lo ricordavamo ieri, che non c’è nessuna condizione nella nostra vita nella quale ci sia negato il perdono di Dio. Ma mentre io debbo annunciare a tutti il perdono di Dio, non posso annunciarlo a me con troppa facilità. “Io devo perdonare fino a settanta volte sette” (Mt 18, 22), ma non devo pretendere il perdono di Dio, lo debbo solo attendere, desiderare, accogliere, con riconoscenza, senza pretese. Perché solo questo costituisce la mia vita in un atteggiamento di sanità, la rende pulita, non mi rende persona che sfrutta il perdono di Dio per non dovere diventare santo, per non dovere convertirsi, per dovere essere sempre attento a non fare del male, e possibilmente qualche volta fare anche un po’ di bene. Che non accada quello che ricorda san Paolo ai Romani:
«[24] il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani» (Rm 2, 24).
Il testo della Lettera agli Efesini dice all’inizio del cap. 4° così:
«[1]Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, [2]con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, [3]cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 1-3).
E verso la fine del capitolo:
«[22] dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici [23]e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente [24]e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4, 22-24).
E poi porta tutte le applicazioni di questo principio fondamentale.
E chiaramente di fronte a questa dimessine della santità viene un po’ nel nostro cuore un senso di tristezza perché ci siamo lontani. Tristezza che non mi dovrebbe portare a prendermela con nessuno se non con me. Non posso evidentemente giudicare il cammino di nessuno, perché il “cammino di nessuno” è il segreto del suo cuore e del suo rapporto con il Signore, però posso vedere il mio e quello che manca nel mio cammino.
Allora, se volete una consegna la prima e fondamentale è quella della santità, che diventi l’orizzonte della vita, ma non per la questione del “voglio diventare santo o chissà chi”, ma è in quel senso che ci diceva Camus nella “Peste”.
‑ II ‑
La seconda consegna è Gesù Cristo
1. La seconda consegna è chiaramente legata a questo: Gesù Cristo, Via, Verità, Vita. Gesù Cristo è verità nel senso che svela il futuro dell’umanità.
La seconda consegna è chiaramente legata a questo ed è Gesù Cristo. Gesù Cristo, Via, Verità, Vita. E non mi ci fermo sopra perché ne abbiamo parlato chissà quante volte.
Il discorso è che noi sappiamo sufficientemente bene da dove veniamo: qual è la storia che abbiamo alle spalle, anche qual è la storia evolutiva che abbiamo alle spalle. Storici e scienziati ci illuminano su questo; non so se sappiano esattamente tutto, sarà difficile, però possiamo guardare dietro e rileggere qualche cosa della nostra storia. Ma non sappiamo verso dove andiamo. E siccome siamo delle persone che hanno l’autocoscienza, sono libere, il “dove andiamo” dipende da noi. E mentre il passato, l’evoluzione così come è stata, è avvenuto secondo delle regole che sono leggi naturali in qualche modo, adesso no. Adesso l’evoluzione del futuro dipende dalle scelte che io e voi facciamo, dipende dalla nostra coscienza, dalla nostra decisione, dalla nostra perseveranza nell’impegno.
Bene, Gesù Cristo è verità in questo senso, che svela il futuro dell’umanità.
2. La Rivelazione è svelamento, cioè ci pone davanti in Gesù Cristo l’uomo.
Sapete che in greco la parola “verità”, che è aletheia, vuole dire di per sé “svelamento”, è togliere il velo; c’era qualche cosa di nascosto, si toglie il velo e si vede, si vede quello che c’è.
Bene, la Rivelazione è svelamento, cioè ci pone davanti in Gesù Cristo l’uomo. Perché i miei bisogni li riconosco facilmente: ho bisogno di 2500 calorie al giorno, ho bisogno di vestito… Ma i valori della mia vita non sono così facili da riconoscere, e soprattutto non sono facili da coordinare, da gerarchizzare, bisogna metterli in gerarchia per sapere quali stanno al primo posto e quali sono i secondi e quali i terzi.
Bene, quando noi diciamo che Gesù Cristo è Verità non vogliamo dire che tutti i misteri del mondo scientifici o politici sono svelati in Gesù Cristo; ma vogliamo dire che la pienezza della umanità, che cosa significa essere uomo completo, è svelato in noi; e che quel cammino di assunzione di responsabilità che siamo chiamati a prenderci ha come obiettivo Lui, Gesù Cristo come rivelazione di amore oblativo, di amore generoso, con tutto quello che ci sta dietro. E non sto fare evidentemente tutto il ritratto di Gesù Cristo.
In questo senso abbiamo bisogno della Rivelazione.
3. Gesù di Nazaret è uno Spirito interiore che produce essenzialmente dei figli di Dio.
La Rivelazione non fa concorrenza alle scienze, non fa concorrenza alla politica… o niente. La Rivelazione ci pone davanti un itinerario di vita, un valore, che è una umanità realizzata che si chiama Gesù di Nazaret, e ci conduce verso questo traguardo, in modo che le nostre scelte siano orientate lì.
Tenendo presente che Gesù di Nazaret non è un modello esterno da copiare, come può essere un quadro di Raffaello che cerco di copiare; è invece uno Spirito interiore che produce essenzialmente dei figli di Dio, quello che ci ricordava ieri sera don Davide D’Alessio: persone che davanti a Dio stanno nell’atteggiamento della fiducia e della obbedienza filiale, non impaurita! No, è una obbedienza che nasce dall’Amore, non nasce affatto dalla paura: nasce dalla fiducia piena nell’amore di Dio che ci ha creato.
‑ II. 1 ‑
La Parola di Dio e la Preghiera
1. Gesù Cristo lo conosco attraverso la Parola di Dio, e come complementare la Preghiera.
Allora posto questo le conseguenze sono semplici e ripeto delle cose che sapete più che bene. L’importanza della parola di Dio (avreste scommesso che la tiravo fuori?), è fondamentale, innanzitutto per quello che dice, perché Gesù Cristo lo conosco attraverso di lei. La parola di Dio è il ritratto di Gesù Cristo, dalla prima parola all’ultima. La Bibbia, dalla Genesi alla Apocalisse, è il ritratto di Gesù Cristo, per questo non ne posso fare a meno. Non mi interessa il Libro in sé o le idee, mi interessa il volto di Gesù Cristo che c’è in questo Libro e che mi viene trasmesso attraverso queste idee, attraverso queste parole, questi simboli, il suo volto; è la realizzazione umana, è il compimento della mia vocazione che cerco nella vita.
Della Parola di Dio non ne posso fare a meno:
§ Per quel legame che crea tra Dio e noi, come legame di libertà, di intelligenza e di amore.
§ Per costruire legami con gli altri.
§ Per costruire legami con Dio.
§ E perché nasca un dinamismo che è fatto di ascolto, di intelligenza (si deve capire quello che si è ascoltato), di obbedienza, di risposta di comportamento conforme a quello che abbiamo ricevuto.
E chiaramente accanto alla Parola metteteci come complementare la Preghiera.
‑ II. 2. –
La dimensione Sacramentale della Parola
Secondo, come conseguenza della Parola di Dio, inevitabilmente la dimensione Sacramentale. Ma questo l’abbiamo detto chissà quante volte, che Gesù Cristo non è una idea ma è fatto di carne; lo si incontra nella carne, i Sacramenti sono la carne di Cristo, la Celebrazione è fondamentale per questo, deve riuscire a esprimere Gesù per donarlo, la Celebrazione deve essere la carne del Verbo di Dio perché mi deve mettere in comunicazione con Dio; ma su questo sapete più cose di quelle che potrei dire adesso. M’interessa però sottolineare due cose.
1. Tenete fermo il legame tra il Sacramento e la Parola, perché i Sacramenti sono la carne di Cristo. La Chiesa i Sacramenti non li ha mai Celebrati senza la Parola di Dio.
Innanzitutto tenete fermo il legame tra il Sacramento e la Parola, perché i Sacramenti sono la carne di Cristo.
Ma dove mai imparate qual è la carne di Cristo? Nel Vangelo. Il contenuto dell’Eucaristia è il Vangelo, è tutta la vita di Gesù Cristo. L’Eucaristia acquista valore per voi se la vita di Gesù Cristo è ricca dentro di voi, nella vostra memoria e nei vostri sentimenti e nei vostri desideri, allora l’Eucaristia diventa preziosa; altrimenti diventa magica, diventa un rito bello e seducente, forse anche utile per alcune cose, ma non è l’Eucaristia. L’Eucaristia è Gesù Cristo, e il Gesù Cristo che la Parola di Dio mi delinea, mi descrive, mi dipinge.
Torno a dire, tutta la vita di Gesù è raccolta nella Eucaristia; chiaro, è la Passione del Signore, è la sua morte e risurrezione, ma non staccato dal resto: è tutta la vita di Gesù, tutte le sue parole e i suoi gesti
Allora, i Sacramenti la Chiesa non li ha mai Celebrati senza la Parola di Dio. Allora tenete questo legame.
‑ II. 3. ‑
La dimensione simbolica dei Sacramenti
1. Tenete viva la “dimensione simbolica della realtà”.
Così come tenete viva la “dimensione simbolica della realtà”. Se il pane diventa semplicemente una quantità di carboidrati, non riuscite a capire l’Eucaristia. Se il vino è una quantità di alcol, l’Eucaristia non ci sta dentro. Bisogna riuscire a cogliere dentro al pane la realtà della vita, dentro al vino la realtà della gioia. Bisogna riuscire a riconoscere il valore simbolico della realtà, che non è semplicemente una specie di aggiunta mentale o romantica o poetica; ma è il cogliere la realtà nella sua dimensione più profonda.
Ø Voglio dire, questa penna che ho in mano è una penna, la potete analizzare dal punto di vista della scrittura che ne viene fuori, dalla quantità di inchiostro che contiene, ecc. Però questa penna me l’ha data suor Albina. Quindi questa penna ha un suo significato in più, che non è una aggiunta esterna, non è qualche cosa… è un simbolo! Si porta dentro una realtà che è a livello non più semplicemente dei materiali con cui è fatta, ma si porta i sentimenti o le parole o i rapporti interpersonali che ci stanno dentro; è realmente così, non mi immagino il modo arbitrario che la penna possa avere questo significato: la penna è questo significato.
Ø E lo stesso vale per il Mondo, perché se siete materialisti il mondo è fatto di metri cubi di legname. Ma se avete fede in un Dio creatore, il mondo è fatto di amore; è fatto di legname certamente, il legname lo potete misurare a metri cubi, ma quel legname parla dell’amore di Dio, e le stelle parlano dell’amore di Dio, e non è una aggiunta.
Ø Per cogliere il significato dei Sacramenti, bisogna tenere viva questa dimensione simbolica. Perché “il materialismo ‑ diceva Ratzinger ‑ non consiste nel dare troppo valore alla materia, ma consiste nel trasformare la materia in materiali: quando la materia diventa materiale per fare una macchina o per qualunque cosa d’altro… allora siamo proprio materialisti”.
Ma la materia la potete cogliere nella sua ricchezza. Non c’è niente di materialismo nella stima per la materia.
Ø C’è una bellissima “preghiera, di Teilhard de Chardin [2], alla materia”; che la prima volta che l’ho letto mi ha un po’ disorientato… ma in realtà è cattolica, è propria cattolica nel suo atteggiamento.
Ø Mons. Eliseo Segalini ricordava stamattina nella sua relazione “Il piccolo principe”. Il piccolo principe deve lasciare la volpe, allora c’è il problema del: “ma perché abbiamo fatto la fatica di diventare amici, se poi adesso ci dobbiamo lasciare?”. E la risposta che la volpe dà alla domanda del piccolo principe, “che cosa ci guadagna nell’essere diventata mia amica?”: “Ci guadagno il colore del grano”. “Ci guadagno il colore del grano”, vuole dire: il grano per una volpe non ha nessun significato, perché la volpe non mangia il grano, quindi il grano non le interessa affatto. Ma il grano è biondo, e il piccolo principe è biondo. Allora tutte le volte che la volpe vedrà il grano biondo, ricorderà il piccolo principe biondo. Allora quella esperienza dell’amicizia ritornerà viva e sarà ancora per lei una amicizia consolante. Ha un amico, non lo vede in quel momento, però vede l’amico nel biondo del grano.
Il rendersi conto che “l’uomo è un animale simbolico”, è fondamentale. I Sacramenti richiedono questo; di qui l’importanza della bellezza. Quindi eliminare i simboli vuole dire alla fine impoverire la persona, la sua profondità.
Ø C’è un commento simpatico di Heinrich Schlier [3] all’Inno alla Carità (cfr. 1 Cor 13, 1-13). Tra le tante cose che Paolo dice nell’Inno alla Carità, è che la Carità non è indecorosa, ocaschemonei. E Schlier interpreta dicendo che vuole dire che “la Carità è bella, è gradevole, non si presenta come vistosa che colpisce, o come trasandata”; no, è bella, è proprio ordinata la Carità.
Quindi anche questo aspetto: il mio presentarmi davanti agli altri esprime un rispetto, quando mi presento, non necessariamente con abiti firmati ma decorosi, per quel quello che posso… Ma ci sta anche questo dentro la Carità.
‑ II. 4. ‑
L’aspetto del silenzio nella Liturgia
1. Per cogliere sempre il significato del valore della Liturgia aggiungeteci il “silenzio”.
E chiaramente, per cogliere sempre il significato del valore della Liturgia aggiungeteci il “silenzio”.
Questa è una delle cose che ci dobbiamo proporre e che dobbiamo di nuovo imparare. Perché al di fuori del silenzio non è possibile vivere autenticamente e profondamente le realtà simboliche.
Al di fuori del silenzio si “possono produrre le mattonelle”, non c’è problema di silenzio, il silenzio può essere più o meno gradevole ma non serve. Ma al di fuori del silenzio non si può gustare una poesia, e non si può gustare una musica, e non si può gustare una Liturgia. L’aspetto del silenzio diventa fondamentale.
Quando il Card. Martini scrisse quella Lettera pastorale sulla Parola di Dio, citò Renoir, che diceva: “La Parola, di chiacchiere niente. La Parola ha fatto tacere le mie chiacchiere”. Siccome di chiacchiere e di pettegolezzi la nostra esperienza è piena. Per esempio, alcuni telegiornali della televisione sono pettegolezzi, sono esattamente pettegolezzi! Bisogna che ci difendiamo; bisogna che questo aspetto rimanga, per cogliere il senso della Liturgia.
‑ III ‑
L’Unità tra i cristiani
1. Il discorso grande della unità e della comunione che ci deve unire.
E metteteci il discorso grande della unità e della comunione che ci deve unire.
Sul Magazine del “Corriere della Sera” di questa settimana c’è un articolo sui romanzi letti, che invece di doverli leggere li si ascolta; ci sono attori che leggono romanzi e si ascolta il testo, invece di leggerlo. E in questo articolo c’è ad un certo punto un sottotitolo che dice: “La trasmissione orale crea una comunità. Ce l’hanno insegnato Omero e i Greci”. Omero è innanzitutto un aedo [4], uno che recita, che canta, dopo viene anche lo scritto, ma Omero è nato orale; e dice l’articolo: “Omero è una di quelle realtà, di quelle esperienze, che ha fatto la Grecia”; ed è vero.
2. La Parola ci fa diventare una comunità. E credo che questa dimensione sia da recuperare. Siamo cristiani come popolo, e non individualmente, solo nell’accettazione anche della vicinanza della comunione con gli altri.
Forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di Omero, perché il popolo di Dio ai piedi del Monte Sinai è nato come comunità che ascolta; Mosè ha proclamato la Legge, e la gente ha detto di sì alla Legge, ed è nato il popolo di Israele (cfr. Dt 4°). Neemia ha proclamato la Legge dopo l’esilio ed è nata la comunità del post-esilio [5].
Tutte le sante domeniche facciamo questo: tutte le sante domeniche c’è una parola di Dio proclamata, e proclamata perché crea una comunità.
I liturgisti si arrabbiano con noi quando usiamo i “fogliettini” e leggiamo le letture mentre il lettore le proclama. È bello leggere le letture, ma in altri momenti, lì bisogna ascoltare perché tendiamo tutti insieme il nostro orecchio a quella Parola.
E quella Parola ci fa diventare una comunità, ci lega, ci pone dentro ad alcuni atteggiamenti e comportamenti comuni. E credo che questa dimensione sia da recuperare, sia preziosa. Siamo cristiani come popolo, e non individualmente, solo nella accettazione anche della vicinanza della comunione con gli altri.
‑ IV ‑
Il Servizio del Ministero
1. Il “servizio del ministero”, del prete o del vescovo, ci stanno semplicemente come “sacramento della presenza del Signore”. È la logica del ministero al servizio dell’unità della Chiesa.
E metteteci in questo anche il “servizio del ministero”, del prete o del vescovo, ci stanno semplicemente come “sacramento della presenza del Signore”, perché la comunità sia una comunità raccolta intorno al Signore e non intorno a qualche cosa d’altro.
E anche in questo bisogna che ci convertiamo, perché noi istintivamente, siccome viviamo in questo mondo, ci portiamo dietro inevitabile il senso del ministero come servizio istituzionale e quindi inevitabilmente come carriera.
Ogni tanto mi capita di sentirmi dire: “Farà carriera! Chissà che cosa diventa? Chissà che cosa realizza?…”, e tutte queste cose. E questo è un pasticcio! È un pasticcio dal punto di vista della umiltà personale perché dopo vengono tutti i pensieri di conseguenza…
Ma non è solo un pasticcio di questo genere, è un pasticcio dal punto di vista della ecclesialità della Chiesa. È un pasticcio perché la Chiesa perde la sua natura e diventa qualche cosa d’altro. Il rischio ce lo portiamo dietro, però bisogna che ci stiamo attenti. Cioè bisogna che riusciamo ad entrare in una logica diversa, che è quella della logica del ministero al servizio dell’unità della Chiesa, e nient’altro.
Per cui se un parroco viene spostato dalla parrocchia “a” alla parrocchia “b”, questo non vuole dire mai una promozione o una retrocessione; non è per questo, non è per punizione. Ma sarebbe stupido per un vescovo che collocasse un prete in una parrocchia per punizione, perché alla fine il problema è il servizio che farà quella parrocchia, e su questo che si misura una decisione saggia o non saggia. Così come sarebbe stolto se mettessi un parroco in una parrocchia per premio. Non è un premio, perché se dopo non è capace di gestire la parrocchia che cosa mai ne viene fuori?
Evidentemente il vescovo può sbagliare in tutte le scelte, questo è umano; ma non mi interessa quello, mi interessa la logica. Entrare nella logica per cui uno spostamento è in prospettiva di servizio.
Se il vescovo va da Piacenza-Bobbio a Brescia, Brescia non è diocesi cardinalizia e non è neanche arcidiocesi, quindi dal punto di vista del titolo non cambia assolutamente niente. Se vado a Brescia è semplicemente perché a qualcuno, a Roma, sembra che possa servire un mio servizio là, punto e basta!
Se entriamo in questa logica allora si capisce che il senso del nostro essere, è proprio solo quello del servizio, e nient’altro. Poi ci portiamo dietro le nostre fragilità, le debolezze, ecc., però bisogna che non le ingrandiamo, che non ci diamo aria… altrimenti diventa un pasticcio.
‑ V ‑
Il primato della comunione del Presbiterio
1. Se il vescovo è segno sacramentale della presenza di Cristo, lo è insieme con i preti e solo insieme con i preti. E se i preti sono segno sacramentale di Cristo, lo sono con il vescovo e solo con il vescovo.
Così come ‑ ma questa è una consegna che farò soprattutto ai preti, ma lo ricordava mons. Lino Ferrari nella visione del video nella introduzione ‑ “il primato della comunione del Presbiterio”.
Io non so se sono mai riuscito a spiegare esattamente quello che intendo.
Ma se il vescovo è segno sacramentale della presenza di Cristo, lo è insieme con i preti e solo insieme con i preti. E se i preti sono segno sacramentale di Cristo, lo sono con il vescovo e solo con il vescovo.
E non possiamo essere due segni separati di Gesù Cristo ‑ non ce ne sono due di Gesù Cristo, ce ne è uno solo. Allora i trecento preti della Diocesi di Piacenza-Bobbio sono un unico segno dell’unico Gesù Cristo. E chiaramente per essere unico segno bisogna che sia “un cuore solo e un’anima sola”, altrimenti non funziona il segno, cioè non è bello… Funziona sempre in tutti i modi perché c’è una radice sacramentale per fortuna che… Ma non è luminoso, non è chiaro, diventa opaco, non illumina, non fa comprendere la presenza del Signore
Il senso è questo: c’è un unico Sacramento di Gesù Cristo, e il Sacramento è il Presbiterio con il suo Vescovo insieme.
Allora sulla comunione del presbiterio credo ci sia effettivamente l’impegno massimo. Perché, se il presbiterio è uno, l’unità della diocesi è garantita; se il presbiterio è no, qualunque tipo di realizzazione pastorale può essere bella, però fa fatica ad edificare la Chiesa, cioè crea anche delle tensioni, delle contrapposizioni, che non sono simpatiche.
‑ VI ‑
Prendersi cura dei fratelli
1. Il problema vero che abbiamo di fronte nasce dalla separazione tra la vita di fede e la vita sociale, quindi il cammino che ci viene proposto ci lega al prendersi cura dei fratelli, essere insieme con gli altri, figli dell’unico Padre.
Dicevamo, e l’abbiamo ripetuto tante volte, che il problema vero che abbiamo di fronte, quindi l’impegno di consegna, nasce dalla separazione tra la vita di fede e la vita sociale. E ci ricordava ieri sera don Davide D’Alessio che il “cammino che ci viene proposto ci lega al prendersi cura dei fratelli, essere insieme con gli altri, figli dell’unico Padre”; quindi rimando al discorso di ieri sera.
2. Il “prendersi cura dei fratelli” raccoglie o coinvolge tutta la vita di una società.
Però vorrei che fosse chiaro che il “prendersi cura dei fratelli”, non è solo l’assistenza che diamo all’altro nel momento in cui ha bisogno; ci mancherebbe altro, questo è necessario, l’ho detto e ripetuto, spero che non ci siano equivoci su questo. Ma il “prendersi cura dei fratelli” raccoglie o coinvolge tutta la vita di una società. Ci si prende cura dei fratelli quando si fa funzionare la società bene; perché quando la società funziona bene, ciascuno all’interno di questa società è sostenuto dalla società di tutti. Se la società funziona bene, il mio impegno di formazione dei miei figli è sostenuta e come! Se gli insegnanti fanno bene il loro dovere e il ministro dell’istruzione manda le circolari adatte, e ci sono gli strumenti necessari perché quando vanno a scuola possono fare un cammino formativo autentico. Io ho bisogno di quelle cose! Perché non posso da solo prendermi cura della formazione dei miei figli in modo totale. Allora tutto quello che serve a fare funzionare bene la società entra nella Carità, è una forma di amore.
Il lavoro quando è fatto con competenza è una forma di amore, e quindi è una forma di amore lo studio che è necessario per imparare a lavorare bene, e così via… e potete moltiplicare il discorso.
Cioè, voglio dire: non vorrei che entrasse nella nostra testa l’idea che la comunità cristiana pratica la carità attraverso l’assistenza; anche, ci mancherebbe, ci vuole e come! E lo abbiamo ricordato. Ma pratica questa carità attraverso tutta la vita dei suoi membri, quando s’intende i membri della comunità cristiana vivono la loro vita con onestà, facendo il proprio dovere, invece di criticare gli altri, che non fanno il loro. Ci sta anche il diritto di critica per alcune cose, ma il primo elemento evidentemente è l’assunzione della propria responsabilità.
E di lì per esempio il valore della vita economica, il valore della cultura e della comunicazione, nella ricerca della verità, nel rispetto delle persone… tutte queste cose.
2.1. Se riusciamo a diventare persone sensibili alla delicatezza della parola, e quindi a usare le parole come vanno usate nella ricerca della verità e nel rispetto delle persone, facciamo un servizio alla carità che è straordinario, facciamo un servizio alla vita sociale, e grande.
C’è scritto nel Vangelo secondo Matteo:
«[36]Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; [37]poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12, 36-37).
Fa un pochino paura… credo che debba fare paura in modo particolare i giornalisti… scherzavo. Però io ripenso ad alcuni episodi di questi giorni… Garlasco… ma si massacrano le persone! Cioè è un modo di usare le parole che è tremendo! Perché questo alla fine è pettegolezzo televisivo. C’è il dovere di informare, ma informare con precisione, ma appunto di informare.
Se riusciamo a diventare persone sensibili alla delicatezza della parola, e quindi a usare le parole come vanno usate nella ricerca della verità e nel rispetto delle persone, facciamo un servizio alla carità che è straordinario, facciamo un servizio alla vita sociale, e grande.
3. Dobbiamo riuscire ad arrivare a percepire che il rapporto con Gesù Cristo ci coinvolge in tutto quello che facciamo.
Perché dobbiamo riuscire ad arrivare a percepire che il rapporto con Gesù Cristo ci coinvolge in tutto quello che facciamo, ma proprio tutto!
Faccio un esempio (dopo poi mi ridete dietro) sul modo di vestire. Se c’è qualcosa che ha poco a che fare con la fede è il modo di vestire. Tu ti vesti bene e ti metti come ti pare e piace… niente da dire su questo.
Non torno all’epoca di padre Zanchetin. Quando ero al Liceo Muratori a Modena, dove avevo studiato, ero di fianco alla chiesa dei Gesuiti di San Bartolomeo, dove c’era un famoso predicatore che era padre Zanchetin, e ai miei tempi, che era l’anno 1959/60, se la prendeva con le “donne a sacco”, perché non erano modeste e tutte queste cose.
Allora tiriamo via il discorso della regola su quanto deve essere lunga una gonna o larga o stretta… Però rendiamoci conto che il mio modo di vestire è il mio modo di presentarmi a voi, e che nel mio vestito c’è un messaggio, io dico qualche cosa a voi di quello che sono e di come mi aspetto che voi mi trattiate, che voi entriate in relazione con me. Dopodiché tu ti arrangi e ti vesti come ti pare. Ma se sei cristiano ti interroghi, ti chiedi sul significato del tuo modo di vestire. O solo dei capi firmati, niente di male, più bello di così, i capi firmati sono belli. Però interrogati: perché, che cosa vuoi dire in questo modo, su quello che sei e sul tipo di rapporto che vuoi stabilire con gli altri? Perché usi solo capi firmati? Torno a dire: ti arrangi tu! Non ho nessun giudizio da fare su questo. Però uno vede interrogarsi; perché deve interrogarsi? Perché questo ci rende persone più consapevoli, e ci rende persone più mature. Dopo posso anche dire: mi vesto così per farmi vedere. Mi va anche bene, però deve essere chiaro a te il motivo per cui fai quella scelta. Non dico che tu debba portare il saio, però devi riuscire a dare a tutte le cose che fai il loro significato, alle cose importanti s’intende; il vestito è una delle cose importanti, almeno dal mio punto di vista, poi ciascuno ha le proprie idee.
3.1. Fai quello che ti pare, però se vuoi essere autenticamente cristiano o autenticamente uomo devi fare le cose che ti aiutano a diventare più uomo.
E lo stesso per le altre cose, quando san Paolo scriveva ai cristiani di Corinto (cfr. 1 Cor 6, 12) rispondeva a quella obiezione che i cristiani di Corinto fanno a partire dalla libertà cristiana, dicono: “Tutto mi è lecito”. E Paolo non dice di no: “Tutto mi è lecito! E va bene”. Però mette una specie di correzione: “Ma non tutto giova”. Che vuole dire: fai quello che ti pare, però se vuoi essere autenticamente cristiano o autenticamente uomo devi fare le cose che ti aiutano a diventare più uomo. Ma se qualche cosa ti aiuta a diventare più banale, devi imparare a dire di no. Se qualcosa ti massifica, ti mette sotto il potere o la pressione dell’ambiente, devi essere capace di dire di no. Ma non per una questione di regola morale precisa che devi osservare, però è questione di autenticità tua per essere te stesso.
Alla fine quello che a me interessa è che tu sia te stesso, ma nel modo più pieno, cioè che tu porti la tua umanità alla pienezza della santità, dell’amore; quello che ti aiuto in questo fallo, fosse anche solo il portare le “scarpe di prada”, se ti serve solo portare le “scarpe di Prada per diventare santo, va bene; ma se questo ti rende il cammino verso la santità più faticoso o ambiguo, taglia, impara, devi edificare la tua vita.
Quello che intendevo va un po’ in quella direzione.
‑ VII ‑
Il futuro che avremo di fronte
1. Il problema antropologico.
Il problema successivo riguarda un po’ il futuro che avremo di fronte, dove ci sono alcuni confronti che mi interessa richiamare.
Il primo è più che noto ed è quello che nasce dal “problema antropologico”, che è questo.
Qualche settimana fa a Cortina d’Ampezzo hanno fatto una discussione, una specie di dialogo tra Scalfari il giornalista e il patriarca di Venezia Scola. E in questa simpatica discussione di cui sono venuti fuori anche alcune relazioni, Scalfari dice che “tra l’uomo, tra lui, e il gatto non vede che ci sia una differenza così grossa”. In realtà non è nuova l’affermazione perché già una volta Scalfari aveva scritto così sulla Repubblica del 24 Gennaio del 1996.
“Cercare il senso della vita? È il modo consolatorio che tutti in certi momenti e passaggi abbiamo adottato per bisogno di consolazione. Il senso della vita è la vita, che non ha alternative. La natura si pone forse di queste domande? La natura vive e basta! E noi non siamo forse natura! A meno di non compiere un atto di luciferino orgoglio che ci vorrebbe fare superiori al resto della natura. Noi siamo diversi ma non superiori. Diversi solo in alcuni aspetti, ma anche noi natura come tutti gli altri. Personalmente non credo che il ruolo della specie a cui appartengo sia superiore a quello delle api o delle formiche o dei passeri. La sola differenza dovuta allo sviluppo del mio cervello sta nel fatto che io so di dover morire e la formica o il passero non lo sanno, né il filo d’erba che nasce nel campo. Il resto viene da sé, compresa la morale”.
Allora il problema antropologico è quello lì: chi è l’uomo? Se l’uomo è semplicemente una forma animale un tantino più complessa delle altre. Oppure se l’uomo è quello che noi chiamiamo persona, cioè un soggetto consapevole di sé e quindi libero, e quindi che si pone degli obiettivi e responsabilmente fa delle scelte tra bene e male. La scelta tra questi due atteggiamenti è una scelta che ha delle conseguenze immense, dal punto di vista etico, ma dal punto di vista anche sociale e politico, relazionale del rapporto con gli altri. Perché evidentemente se non riconosco differenza tra me e il gatto non posso pretendere un trattamento diverso da quello del gatto, questo viene logico con “i suoi piedi”.
Allora il discorso è proprio di andare in quella direzione lì.
E in questo noi abbiamo alle spalle una tradizione cristiana immensa, con il richiamo al valore non calcolabile della persona.
1.1. Nel cammino evolutivo, quando si passa dall’animale all’uomo, c’è la infusione dell’anima, cioè c’è un intervento di Dio.
Quando noi diciamo che nel cammino evolutivo (mi va bene tutte le evoluzioni che volete), quando si passa dall’animale all’uomo, c’è la infusione dell’anima, cioè c’è un intervento di Dio. Quello che vogliamo dire, è che in quel passaggio dall’animale all’uomo c’è uno scarto qualitativo. Per cui mentre nel mondo animale quello che prevale è la specie ‑ e l’individuo è semplicemente sottomesso alla specie e muore purché la specie viva ‑, quando passo dagli animali all’uomo, il singolo ha un valore infinito, quindi non lo posso sottomettere a nessun obiettivo più alto di lui.
Oppure, detto con le parola di Kant “l’uomo non è mai mezzo ma sempre e solo fine”.
Allora vogliamo dire questo: c’è uno scarto, che siamo natura e non c’è dubbio, ha ragione Scalfari nel dire che siamo natura, ma non siamo solo natura, siamo autocoscienza, e l’autocoscienza crea una dignità della persona che è unica, l’uomo non lo posso calcolare a peso. Questo fa parte un po’ della nostra tradizione.
1.2. Per questo per noi il discorso diventa centrale: la difesa della dignità personale di ogni persona umana, di ogni essere umano.
Vi leggo un testo famosissimo, che cita più volte il Card. Ruini, di Karl Löwith [6] (da Hegel amici, questo è il volume dei primi anni del dopo guerra almeno in Italia), dice così (attenzione, quello che scrive non è un credente, Löwith non è un uomo religioso):
“Il mondo storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” (il termine va preso in senso neutrale, non negativo) che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la dignità e il destino di essere uomo, non è, questo mondo storico, originariamente il mondo della semplice umanità, avente le sue origini nell’uomo universale e anche nel terribile del Rinascimento. Ma il mondo del cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato, attraverso l’uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. L’immagine che sola fa dell’homo del mondo europeo un uomo è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé quale immagine di Dio. L’affermazione che noi tutti siamo uomini, è determinata quindi dall’umanità prodotta dal cristianesimo in unione con lo stoicismo”.
Tradotto questo vuole dire: che ogni essere che ha un volto umano debba essere riconosciuto in una dignità personale inviolabile, questo appartiene al mondo cristiano, è un portato della esperienza cristiana. È diventato un atteggiamento diffuso nella nostra cultura, quindi tutti lo condividono. Ma è nato di lì, non è nato dalla concezione dell’uomo universale, è nata dalla concezione dell’Incarnazione del Figlio di Dio, dell’uomo che ha il volto del Figlio di Dio.
Per questo per noi il discorso diventa così centrale: la difesa della dignità personale di ogni persona umana, di ogni essere umano. Dove esiste un essere umano – bianco, nero, piccolo, ricco, povero… ‑ c’è una dignità che non è diminuibile per nessun motivo.
Dicevo, questo è una specie di “pregiudizio cristiano”, per fortuna diffuso ma cristiano.
L’affermazione, “c’è una persona in bisogno, debbo fare qualche cosa”, questo è tipicamente cristiano, ha le sue origini in un cammino di formazione che è durato dei secoli; e secondo me bisogna essere attenti a questo. Attenzione, ci si può anche rinunciare a questo “pregiudizio”, si può anche tornare ad una legge più fredda, ma sarebbe una diminuzione grossa del senso della vita umana, dell’umanità dell’uomo.
Allora il primo problema che avremo è questo.
2. Il problema della scienza.
E il secondo, lo ricordava questa mattina mons. Eliseo Segalini, è il problema della scienza.
È strano, io ero convinto fino a qualche anno fa che il problema del rapporto scienza/fede fosse tranquillamente superato, appartenesse ai residui del passato. E credo ancora che sia vero dal punto di vista dei contenuti, cioè non c’è nessun contenuto della scienza, nessuna affermazione scientifica, che di per sé mi dia problemi dal punto di vista della fede, né il discorso della evoluzione, tanto meno il discorso del bing gang, anzi il discorso del bing bang sembra ancora più favorevole a una ipotesi creazionista o tutte queste cose… Non c’è problema di questo genere. E però in realtà il problema torna fuori frequentemente.
Nell’ultimo numero della rivista “Scienze”, che è la traduzione italiana di Scientific American, c’è un dialogo tra due scienziati che sono Lorenz Krauss e Richard Dawkins [7] che si chiedono:
“Come la scienza possa arricchire la fede, togliendo per esempio alcuni aspetti di superstizione, un altro beneficio che può offrire la scienza è stato illustrato con grande efficacia da Carl Sagan [8], che come noi non è un credente, in una ha accolto postumo delle conferenze fatte in Scozia, affermò che il normale senso del meraviglioso della religione in realtà è troppo miope e limitato. Un solo mondo è troppo poco per un vero Dio, l’immensità del nostro Universo rivelatoci dalla scienza e ben più grandiosa. Si potrebbe aggiungere che alla luce delle attuali tendenze della fisica teorica perfino un unico Universo potrebbe essere troppo poco e che potremmo volere cominciare a pensare a una moltitudine di universi”.
E mi va bene, se c’è una moltitudini di universi sono contentissimo.
“Mi affretto a precisare però che arricchire la fede è molto diverso dal fornire prove a sostegno della fede, cosa che secondo me la scienza certamente non fa”.
E l’atro Richard Dawkins risponde:
“Sono contento che tu abbia richiamato Sagan. Quando sono state pubblicate le conferenze le ho scritto nella quarta copertina del libro: “Carl Sagan era un uomo religioso? Era molto di più! Si era lasciato alle spalle il mondo meschino parrocchiale medioevale della religiosità convenzionale, lasciando teologi preti e mullah a crogiolarsi nella loro miope povertà spirituale. Li aveva lasciati alle spalle perché avevano molto di più per nutrire il suo senso del religioso, essi hanno i loro miti da età del bronzo, le loro superstizioni medioevali, i loro desideri infantili scambiati per verità. Lui aveva l’Universo. Non credo di avere altro da aggiungere per rispondere “se la scienza può arricchire la fede”, può farlo nel senso che intendete tu e Sagan, ma detesterei che questa risposta fosse interpretata come una approvazione della fede.
“Detesterei che questa risposta fosse interpretata come una approvazione della fede”; allora è su questo atteggiamento di fondo che inevitabilmente nascono degli attriti, perché evidentemente la scienza gode oggi di uno statuto di credibilità assoluta; quando una cosa è detta dalla scienza nessuno si avventa a dire esattamente il contrario. Però non c’è dubbio che un atteggiamento di questo genere è un atteggiamento che non lascia spazi per la religione se non come forma di superstizione.
E credo che ci sia almeno due problemi per gli scienziati, che sono.
2.1. Una concezione mitologica della conoscenza.
Il primo è una concezione mitologica della conoscenza (e qui lo potrebbe spiegare tutto Triani perché è un esperto di questo). Paradossalmente questi scienziati hanno una concezione della conoscenza mitologica, come se la conoscenza fosse un vedere le cose, il mondo. Loro vedono le cose del mondo e quindi la descrizione che fanno è semplicemente la fotografia della realtà. Il che, qualunque persona che abbia ragionato da Kant in poi, sa che non è la realtà; perché la conoscenza è una cosa molto più complessa e molto più bella, che non una fotografia della realtà.
2.2. La ideologizzazione della scienza, che diventa il paradigma della verità.
E la seconda cosa, la ideologizzazione della scienza, che diventa il paradigma della verità; per cui le uniche verità veramente vere sono le verità che sono scientificamente dimostrabili. Questa è una ideologizzazione, evidentemente (evidentemente dal mio punto di vista). Però anche su questo credo che il confronto sarà nei prossimi anni inevitabile.
Per dire quello che poi ricordava stamattina mons. Eliseo Segalini, e cioè che c’è anche una dimensione culturale alla quale non possiamo rinunciare, è preziosa, se vogliamo che il Vangelo possa… È vero che il Vangelo non è cultura, e quindi anche con un cammino di crescita culturale non si trasmette il Vangelo. Però è vero che il Vangelo deve avere un apparato culturale, proprio per non essere incastrato in atteggiamenti o ragionamenti del tipo di quello che abbiamo ricordato prima ‑ di uno scienziato che mi piace anche, Richard Dawkins è simpatico come scienziato, ma ragiona in quel modo.
2.3. Quindi il futuro dipende da noi, è nelle nostre mani, è Dono, grazia del Signore, ma grazia che suscita la libertà, che non la sostituisce.
Quindi il futuro dipende da noi, è nelle nostre mani, è Dono, grazia del Signore, ma grazia che suscita la libertà, che non la sostituisce. Il Signore non mi toglie niente di responsabilità, la responsabilità l’abbiamo noi. La grazia di Dio ci dà la possibilità di assumerci questa responsabilità, di pagare di persona, di essere disposti a impegnarci con una prospettiva di speranza di futuro, con un orientamento di vita abbastanza preciso in quella Rivelazione di Gesù Cristo. Quello che ci viene chiesto è di impegnarci con onestà nell’accettazione del Mondo, della realtà, nel diventare un po’ più autentici.
Una citazione di Alfred Adler
E finisco questa volta con una citazione che mi piace moltissimo, di Adler, ma sta citando raccontando una storia orientale antica. L’avevo letta ultimamente ai pallavolisti, ma tra voi non c’è nessun pallavolista, quindi nessuno l’ha sentita ancora. È preso da uno psicologo viennese che di chiamava Alfred Adler [9], non è suo, lo riporta lui.
“C’era una volta un intagliatore di legno che fece una statua meravigliosa, una vera opera d’arte, ammirata grandemente da tutti. Anche il suo sovrano, il principe Lee – quindi si capisce che viene dall’oriente – era prodigo di lodi e gli chiese quale fosse il suo segreto. Lo scultore rispose: “Come posso io umile persona e vostro servo avere dei segreti per voi. Non ho segreti, la mia arte non ha niente di speciale. Vi dirò tuttavia come la mia opera è stata fatta. Quando decisi di intagliare una statua, mi accorsi che ero troppo pieno di vanità e di orgoglio: lavorai allora due giorni per sciogliermi da questi peccati e alla fine mi sembrò di essermi liberato da loro. Scoprii però che ero spinto dall’invidia verso un compagno di lavoro: lavorai per altri due giorni, e superai l’invidia che avevo. Mi rimaneva ancora un fortissimo desiderio di lodi: ci vollero altri due giorni per fare svanire questo desiderio. Notai infine che continuavo a pensare quanto denaro avrei guadagnato con la mia statua: questa volta mi ci vollero quattro giorni, ma alla fine mi sentii libero e forte. Andai nel bosco e quando trovai un pino, sentendo che eravamo fatti uno per l’altro, lo tagliai, lo portai a casa e mi misi al lavoro”.
* Cv. Documento non rivisto dall’autore, ma rilevato come amanuense dal registratore, scritto in forma didattica, con l’aggiunta dei riferimenti biblici; i titoli formano l’articolo per la comunicazione.
[1] Albert Camus nacque a Mondovi [Algeria] il 7 novembre 1913 da una famiglia francese residente in Algeria. A Algeri studiò, in condizioni economiche difficili, e cominciò a lavorare come attore e giornalista. Dal 1940 a Paris, partecipò alla resistenza. Nel dopoguerra fu caporedattore del giornale «Combat». Nel 1957 ebbe il nobel per la letteratura (con questa motivazione: “for his important literary production, which with clear-sighted earnestness illuminates the problems of the human conscience in our times”). Nel 1958 compra una casa a Lourmarin [Provenza]. Il 4 gennaio 1960 parte per Paris in compagnia di Michel Gallimard: morì a causa di un incidente automobilistico, a Villeblevin [Yonne]: la sua Facel Vega si schiantò contro un platano sulla nazionale Sens-Paris mentre correva a 140 Km l’ora. Raggiunse vasta rinomanza con una seconda opera narrativa, La peste (La peste, 1947). Attraverso la descrizione di una città assediata dall’epidemia, “La peste” propone una allegoria della guerra e dell’occupazione nazista e una più vasta della condizione umana. Siamo a Orano [Algeria]. Gli avvenimenti di cui si dà la cronaca immaginaria sono narrati in terza persona dal dottor Rieux, e si dicono avvenuti nel 194…, dall’aprile al dicembre. L’epidemia si estende irrefrenabile, i morti si moltiplicano giorno per giorno. La città è isolata dal resto del mondo. In questa condizione di assedio la vita, lentamente, riprende alla meglio. C’è chi cerca di distrarsi e di stordirsi, chi è immobilizzato dalla paura, chi approfitta della situazione per arricchirsi, chi cerca coraggiosamente di lottare. A poco a poco la morsa del morbo si allenta. L’epidemia cessa, la città torna libera, i suoi abitanti si abbandonano di nuovo al sonno dell’incoscienza. Ma Rieux invita a restare vigili, perché «il bacillo della peste non scompare mai».
[2] Pierre Teilhard de Chardin (Sarcenat, Clermont-Ferrand 1 maggio 1881 - New York, 10 aprile 1955) pronipote di Voltaire per parte di madre, sacerdote francese dell’ordine della Compagnia di Gesù fu teologo, filosofo, geologo, paleontologo.
[3] Heinrich Schlier nasce da famiglia luterana a Neuburg, una cittadina bavarese sul Danubio, il 31 marzo 1900. Studia filosofia e teologia a Lipsia e a Marburg. Pastore luterano in Turingia dal 1927, a partire dall’anno successivo insegna anche esegesi a Jena e a Marburg. Fin dagli anni Trenta aderisce alla “Chiesa confessante” (Bekennende Kirche), cioè a quella porzione della comunità evangelica tedesca che cercava di salvaguardare la sostanza cristiana del luteranesimo, non accettando che esso si dissolvesse nel movimento fiancheggiatore del nazismo dei “Cristiani tedeschi” (Deutsche Christen). Nel 1935 si trasferisce presso la Scuola ecclesiastica superiore di Wuppertal che a quella “Chiesa confessante” aderiva. Alla fine della guerra assume l’insegnamento di Nuovo Testamento e Storia della Chiesa antica nella Facoltà teologica evangelica di Bonn, che lascerà nel 1952 per passare alla Facoltà filosofica della stessa Università. Il 24 ottobre 1953, a Roma, nella cappella del Collegio germanico-ungarico, viene ricevuto nella Chiesa cattolica con una cerimonia privata. Il giorno seguente riceve la prima comunione e qualche giorno dopo la confermazione. Gli fa da padrino Erik Peterson, anch’egli convertitosi dal luteranesimo nel 1930 e da allora residente a Roma. La sua amicizia e i suoi scritti erano stati importanti nel cammino di conversione di Schlier. Il 26 dicembre 1978 Schlier muore a Bonn, dove, fino al 1970, era stato docente.
[4] L’aedo, nell’antica civiltà greca, era il cantore professionista. L’etimologia della parola viene dal greco “ᾄδειν” cioè “cantare”.
[5] Neemia. In ebraico, “Yhwh consola”. Ebreo, visse tra gli esiliati di *Babilonia occupando un posto importante nella casa reale. Ai tempi del ritorno, fu nominato governatore di *Gerusalemme come rappresentante del re persiano. Ricostruì le mura della città, difese i poveri contro gli usurai, procurò la sicurezza generale e prese misure perché la legge fosse rispettata. Il libro di Neemia narra la sua attività e riporta numerose liste di famiglie che tornarono dall’esilio e di quelle che aiutarono nella ricostruzione. I libri di Neemia, Esdra e 1 e 2 Cronache formano la cosiddetta opera storica del cronista.
[6] Karl Löwith nacque a Monaco di Baviera nel 1897. Fu allievo di Edmund Husserl e di Martin Heidegger all’Università di Friburgo, ma nel 1936 – in quanto ebreo - fu costretto a lasciare la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Visse alcuni anni in Giappone, dove rimase affascinato dalla filosofia zen; questa filosofia prospettava all’uomo un rapporto col nulla non improntato al nichilismo, e lo sollecitava ad abbandonarsi alla natura, pensata né in termini vitalistici né irrazionalistici, ossia in maniera del tutto estranea al soggettivismo ed allo storicismo dell’Europa. Fu inoltre un acuto e critico osservatore del processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti e lavorò, tra l’altro, presso l’Università di Chicago. Fece ritorno in Germania nel 1952 e da allora si dedicò all’insegnamento presso l’Università di Heidelberg, città nella quale ha abitato fino alla morte, avvenuta nel 1973.
[7] Clinton Richard Dawkins Nacque a Nairobi nel 1941. Nel 1949 ritorna con la sua famiglia in Inghilterra, stato che il padre aveva abbandonato per unirsi, durante la Seconda Guerra Mondiale, alle Forze Alleate in Kenya. Studia all’Università di Oxford e si laurea nel 1962. Si trattiene in questa città per lavorare al suo dottorato con l’etologo Niko Tinbergen. Tra il 1967 e il 1969 svolge la professione di assistente di zoologia all’Università della California a Berkeley. Nel 1970 diventa professore in zoologia all’Università di Oxford e un membro del “New College”. Nel 1976 pubblica il suo primo libro “Il Gene Egoista” che diventa immediatamente un bestseller internazionale e, come un altro suo libro, “L’Orologiaio Cieco” (1986), viene tradotto in tutte le principali lingue. Con questo sua seconda opera, nel 1987, Dawkins vince sia il premio della “Royal Society of Literature”, sia quello del “Los Angeles Times”. Nel 1995 è stato il detentore del Premio Charles Simonyi per la Divulgazione Scientifica. Nel 1996 viene eletto Umanista dell’anno e nel 1997 entra a far parte della “ Royal Society of Literature”. Dawkins, esponente della corrente del fondamentalismo darwiniano
[8] Carl Sagan (New York, 9 novembre 1934 – Seattle, 20 dicembre 1996) è stato un astrofisico e scrittore statunitense.
[9] Alfred Adler (Vienna 1870 - Aberdeen 1937), psicanalista austriaco. Discepolo di Freud, gli rimase fedele fino al 1911, anno in cui, a causa di profondi dissensi teorici, egli si staccò dal maestro, fondando una propria scuola, chiamata «Scuola della psicologia individuale». Questa insegna che l’elemento base della psiche umana non è, come pretendeva Freud, l’istinto sessuale, ma l’affermazione di sé, l’ambizione di riuscire nella vita. Lo stesso istinto dell’amore non sarebbe che istinto di affermazione di sé, di possesso.
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