Brescia 14 ottobre 2007
I "grazie" di Monari nella cattedrale di Brescia
La cosa più importante l’abbiamo fatta; anzi, l’ha fatta il Signore risorto servendosi di noi, delle nostre mani, della nostra libertà, del nostro cuore. È Lui, il Signore che ha convocato il popolo di Dio bresciano – presbiteri e religiosi, laici e diaconi – attorno al vescovo. È Lui che a noi, suo popolo, ha rivolto la parola per dirigere i nostri passi su una via di vita; è Lui che con la forza del suo Spirito ha fatto del pane e del vino – frutto della terra ma anche delle nostre fatiche – la sua vita spezzata e donata per noi; è Lui, quindi, che ci ha nutriti con il suo amore e ci ha coadunati in un unico popolo. Povera cosa come siamo, siamo però immagine vera di Dio, della comunione trinitaria. “Vi è un solo Dio – scriveva san Cipriano – e un solo Cristo, una è la sua Chiesa e una è la fede, e uno il popolo congiunto dal legame della concordia nella compatta unità del corpo.” Quello che abbiamo vissuto oggi, in questa cattedrale è uno di quegli eventi che fanno sognare e sperare: fanno sognare un’umanità raccolta nell’amore, fanno sperare una Chiesa che di questa umanità nuova sia anticipo e segno credibile proprio attraverso la sua concordia. Ripeto con Paolo: “Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti.” (Fil 2,1-2) Con questo ho già detto il primo e fondamentale senso del mio servizio episcopale tra voi: essere segno e strumento del Signore per custodire nell’unità della carità la Chiesa bresciana. A questo desidero dedicare le energie che mi restano; vorrei offrire a Cristo una comunità concorde e salda, umile e grata, gioiosa e ricca di speranza .
Non ho programmi precisi da presentare. O, se un programma mi è caro, è quello che ci ha offerto Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte con queste parole: “Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non ci salverà una formula, ma una Persona, e la certezza che essa c’infonde: Io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un ‘nuovo programma’. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal vangelo e dalla viva Tradizione. Esso s’incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio.” Come Chiesa bresciana, Chiesa madre, ci viene chiesto di concepire e dare alla luce Cristo, a imitazione di Maria: di concepirlo con la fede nell’ascolto della Parola, di darlo alla luce con la carità che dà forma a tutte le scelte, a tutti i comportamenti, a tutti i progetti dell’uomo. È la missione di ogni chiesa che la chiesa bresciana è chiamata a realizzare in questo tempo e in questo luogo, con una particolare storia alle spalle e con precise possibilità davanti. Per questo m’impegnerò anzitutto ad ascoltare e a cercare di capire. Capire quello che il Signore ha fatto e sta facendo in questa Chiesa che ama, quello che il Signore si aspetta da lei e che le sta chiedendo. Sarà il cammino di discernimento da fare insieme – con i Consigli di partecipazione, anzitutto – Consiglio presbiterale e Consiglio pastorale – ma col contributo di tutti se è vero che il Signore parla al cuore degli umili e comunica loro le verità più preziose.
A tutto questo vorrei aggiungere alcune riflessioni che mi stanno particolarmente a cuore. La prima riguarda la comunione del presbiterio. La metto al primo posto perchè sono convinto che vescovo e presbiterio sono una cosa sola, che il loro ministero è servizio comunitario, che essi (vescovo e presbiterio) portano in solido la responsabilità del servizio pastorale a tutta la diocesi. L’ordine sacro non è solo un sacramento che abbiamo in comune, ma un’origine che dà al nostro ministero una forma comunitaria. Siamo sacramento di Gesù pastore; con le parole e i gesti siamo chiamati a rendere presente oggi la premura, l’amore, la dedizione di Cristo per la sua Chiesa. È evidente, allora, che la comunione è un’esigenza primaria. Non ci sono due pastori o venti: ce n’è uno solo: Cristo. E tutti noi – vescovo e ottocento preti – siamo l’unico sacramento di questo unico pastore. Potremmo renderlo visibile se fossimo divisi tra noi? Cristo è forse stato diviso? Chiedeva ironicamente Paolo ai Corinzi. So che la vita del prete oggi non è facile – se mai lo è stata nella storia. Le gratificazioni sono scarse e i riconoscimenti pure; il contesto culturale in cui viviamo non fa gran conto di quello per cui abbiamo donato la vita e questo ci brucia. Quando siamo diventati preti lo abbiamo fatto convinti che Gesù Cristo, il vangelo, la chiesa sono valori assoluti, capaci di giustificare il dono di tutta la propria vita. E oggi respiriamo – che lo vogliamo o no – uno spirito diverso che condanna i valori assoluti e assolutizza quelli relativi come se fossero i soli per cui vale la pena vivere: il successo e il benessere, la realizzazione personale e la carriera. Vivere la sobrietà, la castità, l’obbedienza in un contesto come questo significa resistere a una pressione forte. Ma sono convinto che proprio per questo la nostra testimonianza è ancora più preziosa. Ho scelto come motto le parole di Paolo ai Romani: “Non mi vergogno del vangelo”. Non perchè mi senta particolarmente coraggioso, ma perchè so quale sia il valore del vangelo. So che quella umile parola che annuncia e trasmette l’amore di Dio per l’uomo è capace di rendere l’uomo libero da tutte le seduzioni e da tutte le paure, è capace di far zampillare dentro di lui la gioia anche in mezzo alle situazioni più difficili, è capace di liberarlo dalla presa mortale dell’egoismo e proiettarlo verso l’avventura affascinante dell’amore. Credo in Gesù Cristo; credo nel suo vangelo.
Da qui nasce l’evangelizzazione; nasce come atto di amore nei confronti dell’uomo. La percezione della distanza che separa l’uomo d’oggi dal vangelo diventa il segno della necessità sempre più grande dell’annuncio del vangelo. Non è opera di propaganda e non è intesa a rendere più forte la Chiesa; è opera d’amore e tende solo a rendere l’uomo più libero e gioioso. Il mondo diventa troppo brutto se non si riesce a guardarlo con gli occhi dell’amore; la vita è troppo dolorosa se non si riesce a renderla dono d’innamorato. Al di fuori di questo rimangono solo gli anestetici, per non far percepire la pesantezza della vita; o gli stimolanti per illudersi di vivere una vita parallela, diversa da quella reale. Annunciare il vangelo significa lavorare per l’umanità dell’uomo; e lavorare non con le nostre sole forze, ma con la forza dell’amore che viene da Dio attraverso Gesù Cristo. “Così dice il Signore, che offrì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti... Ecco, faccio una cosa nuova; proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.” (Is 43,16.19) Quando il secondo Isaia diceva queste parole, la condizione di vita degli Israeliti era avvilente, certo peggio della nostra oggi. Eppure quella parola era vera e rimane vera per noi: la risurrezione di Gesù ce ne dà la sicurezza perchè ha spezzato, e definitivamente, il cerchio di un mondo autoreferenziale e ha legato per sempre la nostra piccola storia precaria all’eternità di Dio.
La sfida che abbiamo davanti è proprio quella per l’umanità dell’uomo. Che non è garantita: per ciascuno di noi essere ‘umani’ è il risultato sempre precario di un’attenzione viva, di una crescita continua, di un esercizio (ascesi) perseverante. Non lo possiamo dare per scontato. Ci accorgiamo benissimo quando dal nostro cuore escono impulsi e sentimenti che ci fanno meschini: “Più fallace di ogni altra cosa è il cuore – avvertiva Geremia – e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?” E aggiungeva: “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori.” (Ger 17,9-10) C’è una profondità del cuore che non riusciamo a sondare, che nemmeno i sogni rivelano. Ma lì, in quel centro misterioso e a volte oscuro dell’uomo, lì entra la parola di Dio, lì purifica sentimenti e impulsi, genera sentimenti nuovi, apre strade nuove di semplicità: “Viva, infatti, è la parola di Dio, efficace, e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.” (Eb 4,12) Questo cammino di purificazione operato nel cuore di ogni singola persona va insieme con l’azione di edificazione e correzione della Chiesa. Tutte le domeniche la comunità cristiana si raccoglie insieme per ascoltare la parola. A quella parola tutti, insieme, diamo l’assenso della fede. Così nasce e prende forma e cresce la Chiesa: non attraverso le nostre scelte, ma attraverso la nostra docilità alla chiamata del Signore. Il cammino di questi anni dopo il Concilio è stato fecondo, certamente, ma non ha ancora espresso tutte le sue valenze: poco alla volta la fisionomia delle nostre comunità deve essere plasmata dall’ascolto della parola. Non è ancora così: non è forse vero che anche nelle nostre comunità si sviluppano dinamismi di carriera, contrasti di potere? Possiamo dire che al centro della nostra attenzione ci stanno davvero i piccoli? Davvero nelle nostre comunità non si cerca il proprio interesse, ma piuttosto quello degli altri? Potrei continuare facilmente con l’esame di coscienza, ma mi capite bene. E non si tratta di scandalizzarsi per i limiti che riscontriamo; sarebbe, temo, anche questa una forma di fariseismo. Che in noi e tra noi ci siano egoismi, che grano e zizzania coesistano è affermazione scontata, addirittura banale. Il problema non è indignarci e ribellarci; il problema è volgerci sempre di nuovo verso la parola di Dio perchè sia essa a plasmarci e costruirci secondo il suo dinamismo proprio. Il problema è che l’eucaristia non sia solo rito, ma rito che dà forma alla vita delle comunità e le fa esistere nella logica dell’amore oblativo.
Insomma, l’unità della chiesa bresciana, di cui mi metto al servizio, sarà garantita dalla parola e dall’eucaristia se alla parola e all’eucaristia aderiremo con tutta la nostra fede; se non ci tireremo indietro quando la parola brucerà i nostri sentimenti meschini, quando l’eucaristia ci chiederà il sacrificio silenzioso di noi stessi. Quando san Paolo descrive la comunità di Corinto come il corpo di Cristo, dice che, a motivo di questo, nessuno può dire agli altri : “Non ho bisogno di voi.” E, parallelamente, nessuno può dire: “Non c’è bisogno di me.” Poi aggiunge: “Anzi, quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre.” (1Cor 12,22-25) Insomma, secondo san Paolo, l’unità potrà manifestarsi nella chiesa quando concretamente in essa al centro verranno posti i piccoli – e cioè gli ammalati, gli anziani, i poveri, i bambini... insomma tutti coloro che per un motivo o per l’altro, sono deboli. È proprio così. Quando in una comunità al centro stanno i posti di potere, la vita diventerà una lotta per occupare quei posti; non è proprio questo lo spettacolo antico e sempre ripetuto della storia? Quando invece al centro vengono posti i piccoli, allora la comunità si compatta: quelli che hanno capacità, tendono a unirsi tra loro per rispondere meglio alle necessità dei piccoli. Insomma, loro, i piccoli, sono preziosi perchè da loro dipende molto della comunione nella chiesa.
Così ho finito anche la seconda e ultima predica, per oggi. Mi resta solo da ringraziare doverosamente tutti voi che siete venuti: ci siamo fatti a vicenda il dono di un’esperienza di Chiesa bella e grande, ricca di doni e salda nella speranza. Grazie. Grazie ai presbiteri, ai religiosi/e e ai laici che rappresentano l’intera diocesi di Piacenza-Bobbio e hanno desiderato accompagnarmi in questo giorno; una comunità che ho amato e dalla quale mi sono sentito voluto bene. Con le parole di Paolo, anch’io posso affermare che mi sono affezionato a voi e ho desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la mia stessa vita, perché mi siete diventati cari” (cfr 1 Ts 2,8) . Grazie anche al card. Ruini, mio vecchio insegnante e, credo di poterlo dire, amico. Grazie a tutti i vescovi che hanno concelebrato con noi: ricordo anzitutto mons. Marini perchè fino ad oggi, come vescovo di Piacenza- Bobbio, sono stato il suo vescovo; poi mons. Betori, compagno di seminario (e i compagni di seminario non si dimenticano). Un saluto affettuoso e grato al vescovo Giulio per aver servito con sapienza di padre la chiesa di Brescia; a lui unisco un ricordo amico per il vescovo Bruno anch’egli servitore generoso e fedele della nostra diocesi. Grazie ai fratelli sacerdoti delle Chiese ortodosse; ai pastori delle Chiese valdese ed evangelica; la loro presenza è un invito a continuare a camminare sulla via del dialogo e della comunione. Grazie a tutte le autorità civili e militari; la loro presenza ci fa sentire l’affetto e la partecipazione della città intera. Dio le benedica e doni loro di compiere con gioia ed efficacemente il loro servizio perchè, come dice san Paolo “possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità.” Non mi resta che abbracciarvi idealmente tutti quanti, uno per uno, con l’abbraccio del Signore. Da oggi “io provo per voi, per la Chiesa bresciana, una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo.” Mi doni il Signore un cuore puro, che sappia servire con gioia senza nessuna pretesa, che sappia parlare e donare per indirizzare a Cristo e poi ritirarsi con la libertà dell’amico dello sposo “perchè egli cresca e io, invece, diminuisca.”
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