Festa del Sacro Cuore, 12 giugno 2008
Relazione del vescovo mons. Gianni Ambrosio
ai sacerdoti della diocesi diPiacenza-Bobbio
Carissimi confratelli,
vi ringrazio della vostra partecipazione a questa “festa del Sacro Cuore”, che è pure festa della fraternità sacerdotale qui nella nostra diocesi di Piacenza-Bobbio. Abbiamo con noi il vescovo monsignor Luigi Ferrando: la sua presenza qui, nella comunione del nostro presbiterio, dopo molti anni di forzata assenza, è per noi tutti motivo di gioia e di gratitudine al Signore: un figlio di questa nostra Chiesa che lo ha generato alla fede è successore degli Apostoli nel lontano Brasile, che visiterò presto, incontrando i nostri sacerdoti e lo stesso vescovo Ferrando.
Oltre al ringraziamento per la vostra partecipazione a questo incontro, vi debbo ringraziare per la vostra accoglienza. Con grande sincerità dico che è stata un’accoglienza davvero amichevole e fraterna, ben al di là di ogni mia aspettativa. Se il ringraziamento è rivolto a tutti voi, come pure a tutta la popolazione, è in particolar modo rivolto a chi più da vicino ha dovuto occuparsi degli aspetti organizzativi della mia ordinazione episcopale e poi della mia progressiva introduzione in questa Chiesa che amo di tutto cuore, perché il Signore mi ha inviato per servirla come vescovo e poi perché la vedo accogliente e sensibile, e con dimostrazioni di affetto per il vescovo sia da parte del presbiterio come da parte della popolazione. Con l’aiuto del Signore, spero di essere in grado di corrispondere a questa vostra accoglienza, a mia volta accogliendo tutti voi come amici e fratelli.
E’ la mia prima volta, come ha messo in risalto il Vicario generale nella lettera di invito, che io partecipo a questa festa. Mons. Ferrari ha anche scritto che in questo incontro io dirò “che cosa mi sta maggiormente a cuore per la vita della nostra diocesi”.
Confesso di essermi un po’ preoccupato nel leggere qualche giorno fa una indicazione così impegnativa. Dico subito che ridimensiono di parecchio l’indicazione. Innanzi tutto perché non ho avuto a disposizione il tempo necessario per una riflessione così impegnata. In secondo luogo, devo dire che ho dovuto finora affrontare – anzi spesso solo tentare di capire – alcuni problemi concreti o questioni pratiche. Infine ho cercato di venire incontro alle richieste di colloquio e ai molteplici inviti che mi avete rivolto e di cui vi ringrazio. Per quanto posso sono lieto di corrispondere agli inviti per essere vicino a voi e per essere presente nella vita delle nostre parrocchie. Ma questo riduce la possibilità di uno sguardo più ampio o di un confronto più disteso sulla nostra realtà pastorale.
Per cui oggi intendo limitarmi ad esprimere ad alta voce alcune mie impressioni. Direi che la riflessione non è altro che una “glossa” a queste impressioni, un commento più o meno ragionato ai diversi stimoli che l’esperienza mi ha offerto in questi primi mesi – quasi quattro mesi – di pastore di questa Chiesa. E poiché il ruolo di glossa alle impressioni risulterebbe troppo limitato, volentieri cederò la parola all’episcopato italiano che ha precisato i contenuti e gli indirizzi che intende imprimere alla nostra azione ecclesiale in Italia: sono del tutto convinto della bontà di questi contenuti e di questi indirizzi.
D’altronde le mie impressioni di questi mesi si sono sempre confrontate con gli orientamenti pastorali della Chiesa italiana – in particolare con il documento dal titolo suggestivo “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” –, in quanto la riflessione della Cei appare capace di rileggere il passato recente del cattolicesimo italiano e di fornire motivazioni lucide a sostegno delle istanze che vengono proposte per il presente e per il futuro della nostra Chiesa.
Due brevi note di metodo, prima di mettere in luce alcuni punti della pastorale con le sue molte potenzialità e con alcuni suoi nodi critici.
La prima nota di metodo è la seguente. Avendo avuto la fortuna – devo dire la grazia – di passare un po’ di anni all’estero per studio e per insegnamento, ho appreso una cosa che ritengo importante: bisogna lasciarci istruire dalla realtà, altrimenti si cade nella retorica o peggio nella demagogia, nell’utopismo ideologico, che sono le malattie gravissime che affliggono il nostro contesto italiano. Bisogna cercare di capire come funzionano le cose prima di dichiarare come le cose dovrebbero funzionare: occorre prima di tutto chinarsi sulla realtà per capirla se si vuole poi agire su di essa. Questa nota di metodo deve ovviamente valere anche – e, direi, soprattutto - per la nostra realtà ecclesiale: ecco perché ho cercato e cerco di osservare e di ascoltare per inserirmi con grande rispetto in una tradizione ricca e originale, come è quella della nostra chiesa locale.
La seconda nota di metodo consiste nel cercar di non separare mai ‘ciò che Dio ha unito’, e cioè, nel caso nostro, noi preti dal nostro popolo: le distinzioni sono utili e doverose ma le separazioni sono dannose. Siamo un’unica realtà, quella di un popolo in cammino.
La Chiesa non esiste per se stessa ma per aprire nel mondo un varco per Dio. La Chiesa c’è perché il vangelo di Gesù possa giungere all’uomo, essere annunciato a ogni persona. .
Nella missione della Chiesa vi è la missione del prete che, come la Chiesa, non esiste per se stesso ma per suscitare nel cuore dell’uomo il desiderio di Dio, per dire la ‘parola buona’ capace di dare senso, spessore e verità alle parole e alle esperienze umane, per annunciare la ‘vita nuova’ dei figli del Padre. Per questo il prete non è mai solo e non lavora mai da solo: è dentro un progetto di salvezza che è di Dio e che coinvolge quella realtà davvero straordinaria che è la Chiesa voluta da Gesù per continuare la sua stessa ‘opera’, la sua stessa missione, in tutto il mondo, sino alla fine dei secoli (Mt 28, 18 ss.). Siamo i suoi inviati, i suoi messaggeri, siamo pastori solo nel suo nome, per il bene del gregge e in virtù del suo Spirito, a cui dobbiamo rimanere fedeli.
Tutto questo, dicevo, in quella realtà straordinaria che è la Chiesa, costituita non dal singolo prete ma da tutti i preti, dai religiosi e dalle religiose, dai diaconi, dai vari ministeri, dai fedeli laici, dalle famiglie, dalle associazioni, dai gruppi, dai movimenti, nella parrocchia, nell’unità pastorale, nei vicariati, nella diocesi. Insomma, più che un uomo ‘separato’, il prete è un uomo sinfonico, con uno sguardo veramente ‘cattolico’ e con una azione che crea coralità.
1. Il Concilio e il Sinodo diocesano: l’esigenza di un’identità cristiana più consapevole
Partirei da due fatti che costituiscono il punto fermo attorno a cui raccogliere le mie impressioni sparse: essi sono il Concilio Vaticano II e il Sinodo diocesano di Piacenza-Bobbio (1987-1991). Credo che da questi due eventi emerga l’esigenza di un’identità cristiana maggiormente consapevole e matura e, su questo sfondo, emergano alcune caratteristiche della figura e della missione del prete nel nostro contesto.
I due eventi si richiamano e si intrecciano: le istanze del Concilio diventano per la nostra Chiesa piacentina-bobbiese lo stimolo per un ripensamento pastorale ma, ancor prima, per una verifica della identità cristiana e della missione pastorale ecclesiale.
Si potrebbe dire che il tema dell’ “aggiornamento” – per far ricorso al famoso termine del beato Giovanni XXIII - diviene nel Sinodo diocesano l’imperativo dell’impegno ecclesiale-pastorale, declinato attraverso quei temi e quei contenuti che lo avevano già reso protagonista della riflessione conciliare. Così all’ordine del giorno della nostra Chiesa diventano i temi dell’evangelizzazione, della celebrazione liturgica, della vita comunitaria, dei beni al servizio della comunione che erano già centrali nell’assise conciliare.
A partire da questi temi all’ordine del giorno vengono ripensate nel Sinodo le modalità e le strutture su cui poggia l’azione pastorale della nostra Chiesa.
Prima di riferirmi ad alcuni di questi temi, anticipo l’impressione generale di questa recezione conciliare nel Sinodo diocesano e poi nella prassi pastorale successiva.
Mi pare che emerga con evidenza l’esigenza di vivere in un modo più consapevole e rinnovato l’identità cristiana. La pastorale vuole venire incontro a questa esigenza favorendo un’identità più matura.
Se questo è l’intento di fondo, comune peraltro a ogni realtà diocesana, mi pare di poter dire che la strategia adottata nella nostra diocesi è stata prudente e saggia. Non sono state del tutto abbandonate le forme tradizionali, con un rigetto radicale, a volte anche quasi manicheo, come altrove a volte è avvenuto. D’altra parte queste forme tradizionali non sono state semplicemente confermate per principio. Piuttosto sono state rilette, riviste, riconsiderate nella loro origine e, se possibile, recuperate nella loro specificità, facendo tesoro di tutti quei temi legati alla tradizione ma anche aperti alla novità, come peraltro la stessa riflessione conciliare aveva già ben evidenziato.
A me pare – ripeto che si tratta solo di una mia impressione, bisognosa di confronto – che questa linea sia ricca di potenzialità.
A partire da questa impostazione, che mi pare buona non solo nelle intenzioni ma anche nella sua attuazione, e cioè nella prassi pastorale successiva al Sinodo, ritengo proficuo sottolineare alcune ‘riscoperte’, in riferimento soprattutto alla nostra vita e al nostro impegno di pastori.
2. Riscoprire il tesoro nascosto, ovvero il primato del Vangelo
Credo che anche la nostra chiesa di sant’Antonino e di san Colombano sia invitata a prendere coscienza del tesoro che ha a sua disposizione e che le è stato affidato per comunicarlo e farlo fruttificare. Non arriveremo mai a prendere coscienza in modo dovuto di questo tesoro che è Cristo stesso. Ma pur con i nostri limiti, credo che possiamo fare qualcosa per renderci più consapevoli di questo tesoro e così presentare un cristianesimo più affascinante per il suo stile più evangelico.
Credo che sia necessario partire da qui per rendere praticabile – e non retorico – il progetto di evangelizzazione e di rievangelizzazione. Occorre aiutare la nostra Chiesa a confrontarsi meglio con l’evento da cui ha avuto origine e con le conseguenze di questo evento: vivere con maggior consapevolezza la memoria delle nostre origini riscoprendo le ragioni e le radici della fede in Cristo Gesù è la base per comunicare il vangelo e viverlo gioiosamente.
E’ pieno di fascino questo impegno, che è personale e comunitario, ed è pure nello stesso tempo ‘spirituale’ – nel senso cristiano, lasciarci condurre dallo Spirito – e culturale, nel senso che ci invita a studiare e ad approfondire i contenuti della nostra fede in Cristo Gesù.
Si tratta di far sì che questa fede approfondita e rinnovata qualifichi e ridisegni i modi e le figure della vita ecclesiale, dalla liturgia alla catechesi, dai momenti di vita comune ai gesti di carità. Se la Chiesa piacentina-bobbiese è stata invitata dal Sinodo a rivedere se stessa – la sua identità, la sua azione pastorale - alla luce del primato dato al Vangelo di Dio che è Gesù Cristo, questo è pure l’invito serio e pressante della nostra Chiesa italiana.
Dicono i vescovi:
«La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo, parola di Dio fatta carne. Egli è “la grande sorpresa di Dio”, colui che è all’origine della nostra fede e che nella sua vita ci ha lasciato un esempio, affinché camminassimo sulle sue tracce (cf. 1Pt 2,21). Solo il continuo e rinnovato ascolto del Verbo della vita, solo la contemplazione costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo. Solo seguendo l’itinerario della missione dell’Inviato – dal seno del Padre fino alla glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento e l’umiliazione del Messia –, sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello del Servo, di cui essa stessa è serva. La Chiesa, come ha detto il Concilio, “mira a questo solo: a continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito”. Questa è la missione della Chiesa nella storia e al cuore dell’umanità. Perciò essa medita anzitutto e sempre “sul mistero di Cristo, fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale » (CVMC, 10).
3. Riscoprirsi popolo di Dio, comunità di salvati
Debbo confessare che ho visto delle belle comunità eucaristiche e parrocchiali: è una ricchezza grande della nostra Chiesa e di questo ringrazio il Signore e ringrazio tutti voi.
Mi permetto di citare ancora i vescovi italiani perché ci offrono un’indicazione preziosa per la nostra pastorale: “Se un anello fondamentale per la comunicazione del vangelo è la comunità fedele al «giorno del Signore», la celebrazione eucaristica domenicale, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato il Signore di tutta l’umanità, dovrà essere condotta a far crescere i fedeli, mediante l’ascolto della Parola e la comunione al corpo di Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della chiesa con un animo apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza che abita i credenti (cf. 1Pt 3,15). In tal modo la celebrazione eucaristica risulterà luogo veramente significativo dell’educazione missionaria della comunità cristiana » (CVMC, 48).
Se noi ci riscopriamo popolo di Dio e facciamo esperienza della salvezza di Dio celebrando i misteri di Dio, credo che ci aiutiamo a passare da una fede vissuta in modo privato ed individuale ad una fede capace di esprimersi in modo pubblico e comunitario, ad una fede capace cioè di testimonianza, di missionarietà.
Insisterei parecchio sulla figura di ‘Chiesa di popolo’: preferisco questa espressione rispetto ad altre che potrebbero generare confusione. Sono davvero lieto di constatare, attraverso molteplici segni, che la nostra Chiesa piacentina-bobbiese è una ‘Chiesa di popolo’.
Mi pare che il carattere di popolarità e di capillarità che hanno contraddistinto il passato del nostro cattolicesimo sia in parte anche il volto presente della nostra realtà cristiana. E di questo dobbiamo ringraziare il Signore e tutti coloro che non si sono lasciati sedurre dal miraggio di forme più o meno elitarie.
Anche gli orientamenti della Chiesa italiana si muovono nella direzione di una Chiesa che sa mantenere il carattere di ‘Chiesa di popolo’, affermando al contempo l’esigenza di una testimonianza ecclesiale di qualità. Mi pare molto interessante questa prospettiva e meritevole di essere verificata: si tratta di garantire il volto di una Chiesa che sa non solo mantenere ma rinnovare il proprio carattere ‘popolare’ come elemento di un percorso di rinnovamento.
Ciò significa la capacità di puntare sull’esemplarità di comportamenti e di forme di vita cristiana, senza mai trasformare questa esemplarità in esclusività e in selettività. Ciò significa pure che la nostra Chiesa non si stancherà mai di fare dell’accoglienza la propria virtù, la propria attenzione missionaria, il modo più ovvio per l’apertura e il dialogo.
Per questo la parrocchia, per la sua capacità di accoglienza e allo stesso tempo per la sua capacità di rappresentare la grammatica di base dell’esperienza cristiana ed ecclesiale, rimane l’interlocutrice privilegiata del percorso di aggiornamento e di ripensamento dell’azione pastorale.
Occorre subito aggiungere – e lo faccio con tutto il rispetto dovuto - che è necessario che la parrocchia sia davvero parrocchia, capace di presentare un cammino di esperienza ecclesiale e di crescita nell’esperienza cristiana, capace di una testimonianza seria e di qualità. Insomma, non tutte quelle realtà che oggi noi, nella nostra diocesi, chiamiamo ‘parrocchia’, sono davvero tali. Per cui ritengo utile, al di là del titolo di parrocchia, su cui non intendo soffermarmi, vedere dove poter effettivamente realizzare la parrocchia nell’unità pastorale, cioè realizzare una realtà istituzionale accogliente ma anche capace di offrire itinerari di introduzione e di crescita nell’esperienza cristiana. Credo che sia necessaria una selezione del nostro impegno pastorale, troppo esposto alla dispersione. Credo che sia utile anche una ‘diversificazione’ dell’‘offerta’ pastorale nell’unità pastorale, per cui non si debba fare tutto da parte di tutti.
4. Riscoprire la bellezza della dimensione comunitaria
Insisto molto sulla dimensione comunitaria, in quanto la ritengo ‘strumento’ di maturazione della nostra Chiesa e della nostra vita presbiterale, ma soprattutto perché ritengo che la comunione del presbiterio sia la realizzazione di base della Chiesa-comunione che siamo chiamati a edificare con la grazia dello Spirito Santo.
Credo che anche rispetto alle esigenze di azioni pastorali innovative, pure utili, la dimensione comunionale e comunitaria sia più decisiva. Mi pare che oggi l’importante non sia la novità o la tradizione, l’importante è la vita ecclesiale coerente e dinamica: questo è possibile precisamente là ove c’è la dimensione comunitaria: essa è un’energia che opera una trasformazione profonda e radicale della figura di Chiesa e della sua testimonianza nella storia.
I vescovi italiani ci ricordano che i cristiani, per essere capaci di testimonianza, non possono non vivere questa dimensione di comunione, esplicitandola come collaborazione, come sostegno reciproco, come condivisione, come pastorale integrata.
Credo che oggi, in un mondo che esalta il singolo, ma lo abbandona anche nella sua solitudine, dobbiamo saper fare comunione per esperimentare insieme il dono di salvezza che è l’incontro nello Spirito con Gesù Cristo e il Padre che Lui ci ha rivelato. Solo così si testimonia in modo pubblico e visibile la salvezza ricevuta.
Questo vale anche per noi sacerdoti. Ma prima di dire qualcosa su questo, permettetemi una breve considerazione. Andando in giro per le celebrazioni del sacramento della confermazione o per incontri, osservo attentamente il territorio, e cerco di immedesimarmi in esso: è il nostro habitat che, tra l’altro, è molto bello e molto vario.
La domanda che spesso mi pongo è la seguente: come questo territorio ci segni nell’animo, anche nel nostro modo di essere cristiani e preti. Sono convinto – senza essere un romantico tedesco – che ogni luogo ha il suo Geist, il suo ‘spirito’, uno spirito che influisce parecchio nel nostro stile di vita e anche nel modo di pensare.
La risposta che mi è venuta in mente, osservando i numerosi castelli e le numerose vallatem, è la seguente: lo ‘ spirito’ del luogo non sembra favorire una grande apertura verso la vita comunitaria a largo raggio, visto che le diverse valli, soprattutto nel passato, non consentivano – e anche oggi non consentono - una facile comunicazione e soprattutto visto che questi numerosi castelli sono molto belli ma anche ben recintati.
Non so quanto valga una risposta così impressionistica e dunque quanto mai superficiale. Ma al di là del territorio e della mia interpretazione, mi pare che sia necessario un impegno serio nella direzione della comunione, da desiderare e da testimoniare. Mi pare che noi preti non possiamo correre fino allo sfinimento e in ordine sparso senza mai – o quasi mai - incontrarci e cercare di pensare insieme e di lavorare insieme. Se è buona la partecipazione al ritiro mensile - ringrazio coloro che vi partecipano e chiederei a tutti di partecipare -, dobbiamo comunque convincerci che non possiamo affrontare da soli le sfide pastorali e culturali del nostro tempo. Non possiamo essere pastori secondo il nostro punto di vista quasi dimenticando che siamo pastori secondo il cuore di Cristo e della sua Chiesa. Cosa offriamo al popolo di Dio di cui siamo responsabili davanti a Dio e alla nostra coscienza se ciascuno di noi gioca la sua partita?
Se posso far ricorso a slogan, ne propongo due.
Il primo è questo. Meno solitudine del prete nella sua parrocchia, ma più collaborazione e più corresponsabilità all’interno della parrocchia e nell’unità pastorale sia con i fedeli laici sia con gli altri parroci.
La parrocchia non è ‘nostra’, non è un nostro possedimento, non è una nostra proprietà. Non siamo padroni, ma pastori posti al servizio di un popolo che è del Signore e che appartiene al Signore.
Non sono nostri i beni materiali della parrocchia: per questo li dobbiamo gestire con trasparenza e con onestà insieme con gli organi di partecipazione previsti e insieme con gli organi diocesani, anch’essi previsti. Oggi in particolare dobbiamo prestare la massima attenzione a questo aspetto, anche solo per evitare guai seri con la normative odierne. So che non è una motivazione teologica, ma pragmatica: consideriamola però attentamente. I rischi incombono.
Il secondo slogan è questo. Meno solitudine del prete ma più amicizia e più comunione tra preti, nell’unità pastorale innanzi tutto e poi nella stessa diocesi.
E’ una grazia grande la comunione sacerdotale, un dono prezioso e vitale che ci costituisce preti e ci fa vivere come preti. Siamo diventati preti per la preghiera e l’imposizione delle mani del Vescovo e dei presbiteri che hanno concelebrato con lui. La nostra identità è quella di essere consacrati nella comunione e di essere inviati per una missione di comunione. Questa è la nostra identità di presbiteri. Questa è l’identità e la missione della Chiesa nel mondo: “siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale” (Lumen Gentium, 1).
Siamo chiamati a corrispondere alla preghiera di Gesù: “Ut unum sint”. “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che, per la loro parola, crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21).
Per corrispondere alla preghiera di Gesù, occorre desiderare ciò che lui ha desiderato, l’unità, la comunione. Per questo ci uniamo alla sua preghiera, facendola nostra, sapendo che la comunione è il dono di Dio al suo popolo ed è anche il segno perché il mondo creda che Gesù è stato mandato dal Padre.
So bene ciò che capitò “lungo la via”, come ci è raccontato dal vangelo: “per la via avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande”, e questo proprio dopo il secondo annuncio della passione. Così capitò con i dodici, così capita con tutti noi. Ma so anche che possiamo accogliere l’invito di Gesù a sostare in casa, ai suoi piedi: “Quando fu in casa, disse loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via”….Allora, sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: Se uno di voi vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mt 9, 33-36). Dobbiamo trovare le occasioni perché anche per noi ci sia una ‘casa’ ove sostare insieme per ascoltare insieme Gesù.
Credo che questo possa essere il modo concreto per venire incontro alla preghiera di Gesù e al suo desiderio di unità e di comunione.
Ma – pensiamoci bene - questo è anche il nostro desiderio: perché abbiamo bisogno di ritrovare stima reciproca, perché desideriamo un più vivo senso di appartenenza alla nostra Chiesa, perché auspichiamo legami di amicizia sincera, di comunione concreta, perché vediamo i limiti delle chiesuole e soprattutto sperimentiamo la tristezza della solitudine.
Anche per questo ho insistito sulla opportunità di riprendere gli esercizi spirituali per noi preti nella nostra diocesi: hanno la funzione della ‘casa’ con Gesù rispetto alla logica troppo umana di quando si cammina lungo la ‘via’, discutendo, sgomitando, lavorando in spirito di competizione o di rivalità. Così pure mi pare che si debba cercare di dare attuazione al documento sulla Formazione permanente del clero.
Mi permetto di concludere su questo aspetto che mi sta particolarmente a cuore con un accenno a fatti recenti.
Il primo: ci sono lupi piuttosto rapaci in giro. E’ facile cadere nella trappola se si è soli, se non ci si confida, se non si ha l’appoggio dei confratelli. Soli si è indifesi, soli si è a rischio.
Il secondo fatto riguarda i due seminaristi che hanno purtroppo interrotto il loro cammino lasciando il seminario. Credo che per rilanciare la pastorale delle vocazioni come pure la pastorale giovanile - oggi come ieri, sono i giovani che Gesù di preferenza sceglie e chiama ad essere sacerdoti secondo il suo cuore, ai quali si rivolge come ai «suoi amici» (Gv 5, 9-15) –, occorre che il nostro presbiterio manifesti la gioia dello stare insieme, del lavorare insieme sotto la guida di colui che è il Principe dei Pastori (1 Pt 5,4).
Certamente è tutto il popolo cristiano che deve preparare, a cominciare dalle sue famiglie esemplari, il buon terreno dove la semente possa germinare e produrre. È tutto il popolo cristiano che deve manifestare la sua attesa e la sua stima verso il sacerdote, il religioso, la religiosa, creando il clima favorevole all’aprirsi dei giovani a Dio. È tutto il popolo cristiano che deve domandare a Dio umilmente ciò che Dio solo può dare, pregando, secondo il comando del Maestro, perché Egli mandi operai nella sua messe (Mt 9, 38). Tutto il popolo cristiano, certo, ma primi fra tutti gli stessi sacerdoti, il presbiterio: l’avvenire della nostra Chiesa è come sospeso all’esempio, al fervore, alla fedeltà, all’amicizia dei - e tra i - presbiteri.
5. Riscoprire la valenza culturale della pastorale (e viceversa)
L’esigenza di una riappropriazione più consapevole e matura della nostra identità cristiana, sollecitata dal Concilio e dal nostro Sinodo, non ha origini soltanto interne al contesto ecclesiale. In realtà è anche la conseguenza di una constatazione preoccupata: in questi ultimi decenni è venuto meno quel legame tra cultura generale e visione cristiana dell’uomo, della vita e della società, che invece era patrimonio comune della storia italiana, fino ad un passato anche recente. La Chiesa italiana prende atto di questa situazione affermando che:
« Già nell’ormai lontano 1975 Paolo VI ammoniva la Chiesa tutta a riconoscere come la rottura tra Vangelo e cultura fosse senz’altro il dramma per eccellenza della nostra epoca. I cristiani possono fecondare il tempo in cui vivono solo se sono continuamente attenti a cogliere le sfide che provengono loro dalla storia, e se si esercitano a rispondervi alla luce del Vangelo » (CVMC, 50).
Il rinnovamento richiesto è allora pastorale e culturale insieme. In verità, è sempre avvenuto così. La pastorale riguarda l’azione della Chiesa, dal modo di dire la fede, a come celebrarla e testimoniarla nella carità e nella comunione, ma riguarda anche la cultura perché tocca le mentalità, il modo di pensare individuale e collettivo. La Chiesa italiana è molta lucida al riguardo:
« Se comunicare il Vangelo è e resta il compito primario della Chiesa, guardando al prossimo decennio, alla luce del contesto socio-culturale di cui abbiamo offerto qualche lineamento, intravediamo alcune decisioni di fondo capaci di qualificare il nostro cammino ecclesiale. In particolare: dare a tutta la vita quotidiana della Chiesa, anche attraverso mutamenti nella pastorale, una chiara connotazione missionaria; fondare tale scelta su un forte impegno in ordine alla qualità formativa, in senso spirituale, teologico, culturale, umano; favorire, in definitiva, una più adeguata ed efficace comunicazione agli uomini, in mezzo ai quali viviamo, del mistero del Dio vivente e vero, fonte di gioia e di speranza per l’umanità intera ». (CVMC, 44)
Gli strumenti individuati per realizzare questo rinnovamento sia culturale che pastorale sono molteplici e vanno dalla fede adulta e pensata (n 50), al discernimento comunitario (n 44), alla scelta missionaria.
Mi soffermerei qualche istante su questa scelta missionaria. L’atteggiamento missionario proposto si traduce qui in una rinnovata attenzione alla formazione o educazione:
«Detto questo, non possiamo tacere come in non poche comunità questo lavoro formativo e di aiuto al discernimento dei giovani e degli adulti sia carente o addirittura assente; è necessario allora maturare una decisione coraggiosa a cambiare le cose. Se ciò non avverrà, mostreremo di essere ben poco realisti e di non tener conto di quanto viene chiesto ogni giorno al cristiano comune negli ambienti che caratterizzano la sua vita di famiglia, di lavoro, di scuola. Alle risorse, a volte limitate di una realtà parrocchiale, verrà in aiuto la sinergia tra più parrocchie, nonché la relazione tra le comunità cristiane e le varie aggregazioni ecclesiali presenti nel territorio; senza parlare delle associazioni professionali di ispirazione cristiana e dei vari centri e istituti culturali cattolici, chiamati anch’essi a prendere sul serio il loro compito di stimolo e di elaborazione di una fede adulta e pensata a partire dall’ascolto intelligente delle Scritture e della Tradizione » (CVMC, 50).
Più radicalmente ancora, questa attenzione missionaria ci chiede di farci carico in modo positivo del problema dell’annuncio e della trasmissione della fede alle nuove generazioni:
«Va detto però che ora abbiamo tutti una grande responsabilità: se non sapremo trasmettere alle nuove generazioni l’amore per la vita interiore, per l’ascolto perseverante della parola di Dio, per l’assiduità con il Signore nella preghiera, per una ordinata vita sacramentale nutrita di Eucaristia e Riconciliazione, per la capacità di “lavorare su se stessi” attraverso l’arte della lotta spirituale, rischieremo di non rispondere adeguatamente a una sete di senso che pure si è manifestata. Non solo: se non sapremo trasmettere loro un’attenzione a tutto campo verso tutto ciò che è umano – la storia, le tradizioni culturali, religiose e artistiche del passato e del presente –, saremo corresponsabili dello smarrirsi del loro entusiasmo, dell’isterilirsi della loro ricerca di autenticità, dello svuotarsi del loro anelito alla vera libertà ». (CVMC, 51)
Sono convinto che la nostra Chiesa piacentina-bobbiese ha lavorato e lavora parecchio in questa direzione, con un impegno che rende possibile e visibile la presenza cristiana, anche attraverso le associazioni e i gruppi, o attraverso l’insegnamento della religione cattolica.
Ma credo che per l’educazione e la formazione dei ragazzi e dei giovani – è ciò che sta a cuore a tutti noi -, occorra riscoprire il valore di quella che si chiamava ‘pastorale d’ambiente’, come ‘luogo’ o ‘ambito che permette alla fede cristiana di abitare in un modo più profondo e più intimo la società e la cultura. Non è un doppione dell’organizzazione di base della chiesa locale, quanto invece un servizio a questa, uno stimolo a ripensare le ragioni del credere, un richiamo alla capacità di trasmettere i valori. Mi pare che la pastorale d’ambiente – si tratterà insieme di precisarla meglio – favorisca in concreto l’istanza missionaria della fede soprattutto in riferimento ai giovani, un’istanza ineludibile nella stessa misura dell’istanza comunionale e comunitario.
Una simile pastorale d’ambiente è uno stimolo a far crescere e a rendere visibile il carattere per così dire ‘estroverso’ della Chiesa, il suo essere ‘per’ gli uomini, come Cristo che “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”.
Cari confratelli, la missione di Gesù continua. Egli rimane sempre con noi (Mt 28, 20b.), i cieli e la terra passeranno, ma le sue parole non passeranno (Mt 24, 35).
Gesù, il Pastore Buono, continua a chiamare chi vuole collaborare con Lui a compiere la sua stessa missione, in virtù del sacramento del battesimo e, per noi sacerdoti, anche in virtù dell’ordinazione sacerdotale. Tutti siamo chiamati a cooperare all’attuazione del disegno di Dio (Rm 12, 4-7; 1 Cor 12, 4 ss.), tutti dobbiamo avvicinarci con fiducia a Cristo, alla sua vita, alle sue parole, per riscoprire la volontà di Dio su di noi, e mettere a servizio degli altri, della Chiesa, dell’umanità, i doni che abbiamo ricevuto (1 Pt 4, 10 ss.).
†Gianni Ambrosio
Vescovo di Piacenza-Bobbio
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