domenica 21 ottobre 2007

Il saluto di Monari a Piacenza-Bobbio


Il saluto del vescovo Monari
alla diocesi di Piacenza-Bobbio


Cattedrale di Piacenza 21 ottobre 2007:
omelia di mons. Luciano Monari


L’obiettivo a cui tendiamo è più alto di noi; le forze contro cui combattiamo sono più forti di noi; solo l’aiuto di Dio può fare di noi dei vincitori; e solo la preghiera può aprire la nostra vita all’aiuto di Dio. Questo il messaggio semplicissimo del vangelo di oggi, una parabola che Gesù ha narrato per far comprendere la necessità di pregare sempre, senza stancarsi.
L’obiettivo a cui tendiamo è più alto di noi, dicevo. Non ci basta, infatti, assicurarci qualche soddisfazione o gratificazione. C’interessa che venga fatta giustizia, e che venga fatta pienamente. Che il bene sia riconosciuto come tale e il male smascherato e vinto; che la sofferenza innocente venga ripagata. Come dice il salmo: che “venga fatta giustizia all’orfano e all’oppresso e non incuta più terrore l’uomo fatto di terra.” In una parola, desideriamo che venga il Regno di Dio come regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace. Solo questo può quietare il desiderio del nostro cuore, quell’ansia di verità e di giustizia che può a volte addormentarsi ma poi rinasce vigorosa e invincibile. È vero; a volte si affaccia il dubbio che questo desiderio sia illusione, che a regnare sul nostro mondo sia la forza e che chi è debole sia costretto a soccombere senza che nessuno gli renda giustizia. Non è forse accaduto così per tante generazioni che ci hanno preceduto? Quanti sono gli individui che la storia ha pestato e dei quali non rimane nemmeno il ricordo? Eppure il vangelo ci obbliga a non rassegnarci: l’uomo è più di un frammento di vita gettato nelle spire della storia. L’uomo è uno spirito che anela alla verità e al bene, che ha coscienza di sé e del suo destino, che è capace di scegliere il bene e di amare; Dio lo ha fatto a sua immagine e somiglianza; a un uomo così è giusto che Dio renda giustizia. Ce lo promette il vangelo stesso: “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente.”
D’altra parte per far emergere in noi i valori più belli di umanità e per costruire una società fondata su questi valori, abbiamo da combattere contro potenze più grandi e più forti di noi. Siamo piccole creature in un mondo più grande e più antico di noi; viviamo un’esistenza fragile che un piccolo incidente può distruggere e che un microscopico virus può infettare. Come pretendere che da un essere così debole esca un comportamento così forte come è l’amore autentico, generoso? Eppure proprio questa è la vocazione dell’uomo e solo quando l’uomo si apre al dono di sé la sua esistenza diventa compiuta e piena. Per questo l’uomo ha bisogno di Dio: è il suo paradosso; per diventare pienamente uomo, per rispondere pienamente alla sua vocazione umana deve aprirsi a Dio, quasi a ricevere dalle mani di Lui la sua esistenza ogni giorno.
È l’insegnamento della prima lettura che descrive il combattimento di Israele contro Amalek durante l’attraversamento del deserto. Sul campo Amalek è più forte e Israele deve cedere, ma quando Mosè alza le mani verso il cielo, Israele si riprende e Amalek viene sconfitto. Non è facile, però, tenere a lungo le mani alzate; Mosè siede allora su una pietra mentre Aronne e Hur, uno da una parte e uno dall’altra, sostengono le sue mani. In questo modo “le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.” Così lo stupendo racconto del libro dell’esodo. Immagine del cammino che il popolo di Dio deve fare nella storia, cammino che si scontra con ostacoli, pericoli, insicurezze, fatiche. Per questo Mosè aveva chiesto che la gloria di Dio andasse insieme col popolo, che Dio stesso fosse sua guida e sostegno e forza. È così anche per noi: se la Chiesa può vivere nel mondo senza diventare mondana è pura grazia di Dio; se può sciogliersi dai lacci della paura e rischiare la strada dell’amore è pura grazia di Dio; se può custodire la speranza in mezzo alle delusioni e alle persecuzioni è ancora e solo grazia di Dio.
Ma la grazia di Dio entra nella esistenza dell’uomo solo attraverso la preghiera. Non perchè Dio voglia fare pagare all’uomo un prezzo per donargli la vita. La vita che viene da Dio non ha prezzo e Dio non ha bisogno della nostra lode per accrescere la sua gloria. Siamo noi che abbiamo bisogno di aprire il cuore a ricevere e questo è più difficile di quanto possa sembrare a prima vista. Ricevere un dono non è solo un fatto passivo, come essere bagnati dalla pioggia; richiede invece consapevolezza (chi non si rende conto di ricevere un dono, in realtà non lo riceve), riconoscenza (chi non è grato per il dono ricevuto, non lo sperimenta affatto come dono ma solo come un possesso in più) e infine richiede di reimpostare la propria vita tenendo conto del legame di amicizia e di affetto che il dono ha costruito. Solo così il dono produce davvero i suoi meravigliosi effetti. E solo così la grazia di Dio ci colloca su una base nuova e salda di vita.
La preghiera si dimostra allora indispensabile. Chi prega prende coscienza di non potere salvare se stesso, di non potere offrire alla propria esistenza tutto ciò di cui ha bisogno; nella preghiera si rivolge allora a Dio che riconosce come onnipotente (altrimenti non avrebbe senso rivolgersi a lui in qualsiasi necessità) e soprattutto riconosce buono e favorevole (altrimenti la preghiera sarebbe immersa in un alone di incertezza: mi vorrà bene Dio? O mi sarà avversario e nemico?). Così dalla preghiera deriva un’esistenza nuova non più solitaria ma vissuta in comunione con Dio, in quella relazione amicale che la Bibbia chiama ‘alleanza.’ In fondo, lo scopo della preghiera è esattamente questo: collocare la nostra vita sotto la grazia preveniente di Dio, impostare la nostra vita come collaborazione con Dio nella costruzione di un mondo che corrisponda ai suoi desideri. Siamo partiti parlando di verità, di giustizia, di amore e di pace. E abbiamo detto che siamo troppo deboli per fare queste cose don le nostre forze; ma non dobbiamo nemmeno cadere nell’idea che la grazia di Dio operi in noi senza la nostra libertà e responsabilità. La grazia di Dio non sostituisce la nostra libertà e la nostra responsabilità; al contrario le risveglia, le purifica, le fortifica, le rende capaci di operare col massimo di efficacia. Dio non supplisce alle nostre debolezze, ma ci dà la forza di assumerle e superarle; di integrarle in uno stile di vita evangelico.
Non è difficile vedere che si colloca in questo contesto di fede e di preghiera il cammino della chiesa piacentina-bobbiese. Ci sta a cuore, come dicevamo, il compimento del disegno di Dio a favore dell’uomo. Quarant’anni fa da Piacenza sono partiti i primi missionari fidei donum per aiutare le chiese del Brasile a crescere e maturare nella fede e nella carità. Oggi vogliamo riconoscere la preziosità di questo cammino della nostra chiesa ringraziando anzitutto il Signore e nello stesso tempo i missionari che sono stati o sono ancora in Brasile. La missione è espressione di amore; nasce dalla condivisione del desiderio di Dio che l’uomo viva e si colloca in continuità con la missione di Gesù che è venuto perchè noi avessimo la vita attraverso di lui. Quando una chiesa è missionaria, è feconda e sta facendo fruttare i talenti che ha ricevuto dal Signore. Così è stata, per grazia di Dio, la nostra Chiesa. E così deve continuare a essere. Il bilancio di questi quarant’anni è straordinariamente positivo e ce lo ha ricordato in un bel libro Fausto Fiorentini: nelle diocesi di Vitòria da Conquista, di Bragança do Parà, di Picos, di Boa Vista, di Rio, ma anche in una dimensione più ampia per tutto il Brasile i nostri missionari hanno operato saggiamente ed efficacemente: Dio li benedica e li ricompensi. Vorrei ricordarli e ringraziarli uno ad uno, con tutto l’affetto e scambiare con loro l’abbraccio fraterno. Sono fiero di loro e tutta la nostra chiesa ne è fiera di una fierezza umile e riconoscente. Oggi la situazione è cambiata velocemente e in modo radicale rispetto a quello che era quarant’anni fa. Le chiese del Brasile hanno conosciuto un autentico decollo: hanno cominciato a camminare con le proprie gambe e costruiscono progetti pastorali esemplari. D’altra parte, la nostra Chiesa ha molte meno vocazioni di allora e, dopo aver donato generosamente, sperimenta una dolorosa povertà. Cambia quindi inevitabilmente il nostro modo di vivere la missione, ma non cambia – non deve cambiare – l’impulso missionario. Questo anzi deve consolidarsi sempre più. Potremo rinunciare alla missione solo quando tutti avranno ricevuto e accolto l’annuncio del vangelo, e cioè alla fine dei tempi. Fino allora il nostro amore per l’uomo ci costringerà sempre ad andare dove l’uomo vive e soffre e a portare la consolazione che viene dall’amore di Dio, da Gesù mite e umile di cuore.

Mi rimane solo da dire una parola personale, come saluto affettuoso e riconoscente alla diocesi piacentina-bobbiese. Dodici anni fa il Papa mi ha mandato come vescovo in questa chiesa e sono venuto con gioia anche se il legame affettivo con Reggio era e rimane profondo. Dopo dodici anni quella gioia è rimasta integra. Rendo testimonianza che mi avete accolto con una disponibilità piena e che in questi anni mai mi è mancato l’affetto dei Piacentini e del presbiterio. Vi sono riconoscente perchè questo affetto mi ha sostenuto e mi ha permesso di fare il mio servizio serenamente, non gemendo. Porto nel cuore la memoria di tantissimi incontri coi bambini, gli anziani, i malati, con sconosciuti che mi hanno donato gratuitamente un sorriso e una parola di amicizia.
Il mio primo impegno, quello che mi stava più a cuore, è stato per la comunione del presbiterio. Questo viene prima di ogni altra cosa perchè è questione che riguarda strettamente l’identità del vescovo, non solo il suo servizio. Il vescovo, non mi sono stancato di dirlo, non è pensabile senza il presbiterio e la sua stessa figura è definita dai volti, dalle storie, dalle relazioni tra tutti i presbiteri. Grazie, dunque, a ciascuno di voi. Incontrarvi ha significato comprendere meglio chi sono e che cosa il Signore vuole che io sia. Porto nel cuore tantissimi volti di preti che mi hanno ascoltato con pazienza e affetto, che mi sono stati vicini sempre, che hanno sopportato le mie debolezze - le conosco bene, almeno in parte -, che hanno collaborato generosamente e in modo disinteressato. Dio vi benedica; io pregherò sempre perchè siate un cuore solo e un’anima sola insieme al vescovo che il Signore, attraverso il ministero del Papa, vi donerà.
Accanto ai preti ricordo naturalmente i diaconi. Sono le cellule staminali della Chiesa, cellule che non hanno ancora assunta una fisionomia precisa ma proprio per questo sono pronte ad assumere qualsiasi servizio venga loro richiesto. Ho gioito spesso dei miei diaconi e li ringrazio di cuore. L’unica raccomandazione che mi sento di fare loro è solo che siano sempre e solo diaconi, servi. Che non abbiano paura di perdere dignità facendosi sottomessi, se è vero che il Signore che adoriamo si è sottomesso a tutti e si è fatto nostro servo.
Una riconoscenza particolare va ai religiosi e alle religiose. Debbo dire che il rapporto con loro è stato gioioso e gratificante. Molte volte li ho ringraziati di quello che sono: l’immagine pura dell’esistenza cristiana vissuta come consacrazione al Signore e ai fratelli. La loro presenza è decisiva nell’immagine che la Chiesa piacentina dà di se stessa: il loro stile di vita fa capire a tutti quelli che vogliono capire che la Chiesa non è mondana, anche se vive nel mondo; che non è attaccata ai soldi, anche se, vivendo nel mondo, deve trattarli; che non confida nel possesso, ma nella grazia del Signore. Posso quindi solo dire ai religiosi e alle religiose: siate voi stessi, con fierezza, umiltà e gioia. Basta questo perchè la vostra presenza sia feconda e insostituibile.
E naturalmente debbo ringraziare tutti i Piacentini. Ho voluto e voglio loro bene e questo affetto non scomparirà certo col tempo. Il Cantico dei Cantici descrive l’amore dello sposo per la sposa giocando sui registri complementari della presenza e dell’assenza. Sposo e sposa, presenti uno all’altra, descrivono la bellezza del partner e s’inebriano della sua contemplazione. Ma anche l’assenza può essere esperienza di amore e lo manifesta il desiderio, l’attesa, la ricerca incessante della presenza dell’altro. Vado vescovo nella Chiesa bresciana, ma non dimentico l’amore della Chiesa piacentina. Chiesa piacentina e bresciana sono una Chiesa sola, l’unica Chiesa di Cristo. Quello che cambia, quindi, è solo l’immediatezza della presenza, non l’intensità dell’affetto. Questo affetto lo custodiamo perchè viene dal Signore e, vissuto nella sofferenza del distacco, diventa ancora più puro e autentico. Per questo abbraccio tutti i piacentini, a cominciare dai piccoli – i bambini, i malati, gli anziani, le persone che sperimentano qualsiasi forma di debolezza. Vorrei che tutti custodissero nel cuore e portassero nella loro case l’abbraccio del vescovo – povero vescovo – come segno dell’abbraccio grande di Cristo. Ho cercato di far sì che la mia presenza e la mia opera fossero strumento di unità e mai di divisione, di comunione e mai di contrapposizione: tra i credenti ma anche tra i non credenti; credo con tutto il cuore nella vocazione degli uomini all’unità e alla pace anche se non m’illudo di poterla raggiungere facilmente e in modo definitivo. Debbo ringraziare tutte le autorità che in questi anni si sono susseguite nel servizio a Piacenza perché le ho trovate nella stessa lunghezza d’onda, alla ricerca della medesima concordia; da loro ho ricevuto sempre (e ho cercato di dare) collaborazione e stima.
Nel primo libro di Samuele si racconta che questa grande figura di capo di Israele, divenuto vecchio, trasmise la sua autorità al primo re, Saul. E davanti al popolo radunato disse: “Ecco io ho vissuto fino ad oggi sotto i vostri occhi. A chi ho portato via il bue? A chi ho portato via l’asino? Chi ho trattato con prepotenza? A chi ho fatto offesa? Da chi ho accettato un regalo per chiudere gli occhi a suo riguardo?” E il popolo rispose: “Non ci hai tratto con prepotenza, né ci hai fatto offesa, né hai preso nulla da nessuno.” Mi ha sempre affascinato questo dialogo. Oggi siamo troppo sofisticati, istruiti dalla psicanalisi che cerca nelle nostre azioni motivazioni profonde e nascoste, per riuscire a dire con tanta parresia parola simili. E tuttavia, vorrei dire davanti al Signore, con tutta umiltà, che vado come sono venuto. Non ho più soldi, non ho più titoli, non ho più potere. Il Signore e voi non mi avete mai fatto mancare nulla del necessario e del superfluo e debbo quindi solo essere fiducioso e riconoscente. Chiedo perdono al Signore e a voi di quello che non ho saputo fare e benedico per tutto quello che la grazia di Dio e la vostra collaborazione ci hanno permesso di vivere. Accogliete il nuovo vescovo come Cristo, amatelo con verità, seguitelo con obbedienza: in questo modo il Signore sarà con voi e vi benedirà sempre.

†Luciano Monari
Vescovo

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