domenica 10 febbraio 2008

Monari soggetto da museo


Ecco che cosa ha detto il vescovo Luciano Monari alla presentazione del suo ritratto eseguito da Ulisse Sartini.


Innanzitutto naturalmente debbo ringraziare con tutto il cuore l’”Opera Pia Alberoni” per questa committenza. Debbo ringraziare il maestro Sartini per l’impegno che ci ha messo nel risultato. Ringrazio soprattutto perché lo leggo come un segno di affetto, di amicizia, di legame, e sono le cose che a me stanno più a cuore.

Poi dico il come l’ho percepito e lo percepisco, senza evidentemente avere nessuna pretesa di valutazione dal mio punto di vista.

Mi sono detto: è un passo avanti perché sono anche soggetto museale, di museo; e questo non semplicemente come battuta, perché un ritratto in qualche modo fissa la vita di una persona. La vita di una persona è una avventura, è un romanzo che procede anno in anno con trasformazioni, cambiamenti, novità, esperienze, ecc. E un ritratto in qualche modo fissa, cioè fa in anticipo quello che farà la morte. Alla fine la morte conclude il ritratto della nostra persona, della nostra avventura, e rende questo ritratto definitivo, si potrebbe dire eterno.

Ebbene, una pittura in qualche modo l’anticipa, ma detto in modo positivo, non come se questo fosse la paura della morte che mi viene addosso o cose di questo genere; ma al contrario come un invito a rivedere il senso della mia esistenza: di tutto quello che sono stato, di quello che è diventato, dei miei limiti, di quello che non sono riuscito a fare, perché mi debbo confrontare con il risultato della fatica, delle sofferenze, degli errori, delle speranze che hanno accompagnato il mio cammino.

E un ritratto mi aiuta in questo senso a dire quello che diciamo tutte le sere a “compieta”: “Ora, o Signore, lascia che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Che è come dire: c’è una maturità, un compimento della mia vita, c’è un limite nella mia vita che mi porto dietro, lo consegno a Te, porta a compimento Tu quello che non sono riuscito a fare.

E questo è il primo pensiero.

Il secondo pensiero è questo. Quando il maestro Sartini mi ha fotografato, perché ha preso tutta una serie di fotografie in Vescovado, mi dava naturalmente le istruzioni, dove dovevo mettere le mani, che diceva il maestro sono importantissime. E ha ragione, perché è una delle cose che ho imparato a riconoscere: la ricchezza della mano dell’uomo, il quanto è capace di dire, di esprimere del cuore, dei sentimenti, della vita dell’uomo… sulla croce… su tutte queste cose.

E tra le varie osservazioni, tra le varie indicazioni, una era quella del “sorrida dentro”. Adesso non mi ricordo le parole precise, ma il senso era esattamente questo: dovevo riuscire a sorridere dentro, sorridere dal di dentro… E questo per me è stata una cosa bellissima, perché vuole dire: evidentemente il sorriso deve vedersi fuori, altrimenti non cambia niente, non si può esprimere niente neanche dal punto di vista artistico. Però non è un fatto muscolare, non è semplicemente il fatto che i muscoli prendono una certa forza; è invece una rivelazione, deve il sorriso diventare una rivelazione, la rivelazione di quello che c’è dentro, la rivelazione, credo, della gioia di vivere, della gioia di esistere, di quel sì radicale alla vita che sta dentro a tutti i nostri comportamenti e a tutti i nostri rapporti.

E mi richiamava quello che sappiamo tutti, ma è bello ricordarci: l’uomo è carne, ma carne che esprime un’anima. È anima, è pensiero, ma è un pensiero incarnato, che si vede, che si vede in forme, in colori, in movimenti, in atteggiamenti, e così via… che in fondo la vita dell’uomo è arte. “Arte”, vuole dire: è fatta di materiali, come una tela, è fatta di materiali concreti di colori; però è capace di contenere un’anima, è capace di contenere un desiderio, una speranza, una attesa, una dignità, una profondità di vita. E questo credo sia prezioso, perché ci richiama in qualche modo – mi richiama al mio compito ‑ al nostro compito.

Voglio dire: noi siamo un’anima incarnata, questo è quello che siamo, ma questo è quello che dobbiamo essere: dobbiamo riuscire a incarnare, a esprimere quello che siamo dentro. Siamo un corpo, una carne, ma dobbiamo riuscire a fare sì che questa carne sia espressione di un’anima, di un cuore, di un desiderio; e questo è quello che siamo, ma nello stesso tempo quello che dobbiamo diventare.

Dicevo prima, il “mistero della mano”, di quello che una mano può essere. Ma evidentemente, quello che una mano è, è quello che riusciamo a metterci dentro noi nella mano, porta i sentimenti che abbiamo, dobbiamo avere quei sentimenti perché la mano li possa portare ed esprimere; e soprattutto si intende il volto, gli occhi.

In qualche modo siamo anche noi gli artisti del nostro corpo. Noi riceviamo un corpo dai nostri genitori, è secondo un certo codice genetico; però non rimane così per tutta la vita, lo plasmiamo noi. Lo plasmiamo con tutti i nostri comportamenti, con tutti i nostri sentimenti, con tutti i nostri impegni, con i nostri errori… s’intende. Cioè ogni comportamento in qualche modo lascia un piccolo segno, quasi invisibile ma che c’è dentro al nostro volto, dentro al nostro corpo. E l’impegno è proprio quello di dare una forma che sia la più bella e la più ricca e la più completa possibile.

E qui mi viene in mente che san Paolo nella Lettera ai Galati scrive così:

«figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!»

“Non sia formato Cristo in voi”, vuole dire: fino a che il vostro corpo non prenda una forma che è essenzialmente la forma di Cristo.

E un pochino prima aveva detto:

«non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me».

Che vuole dire: il nostro compito è addirittura dare al nostro corpo la forma di Cristo. Ma che cosa vuole dire “forma di Cristo”? Vuole dire tante cose:

Forma di uomo autentico, cioè di uomo che sia libero e responsabile.

Forma di uomo fiducioso, quel sì alla vita che ricordavo prima, e che si esprime in un sorriso di fondo. “Dare la forma di Cristo al nostro corpo”, vuole dire quello di un uomo obbediente, che sa cercare la verità e sa sottomettersi alla Verità.

E vuole dire soprattutto quello di “uomo innamorato”, che sa amare e cercare di fare della sua vita un dono.

Credo che la vera tristezza che noi ci portiamo dentro, a volte questo me la sento… è quando ci rendiamo conto che non riusciamo a esprimere l’umanità piena, quando mortifichiamo l’uomo che è in noi; quando mortifichiamo il Cristo, la presenza del Signore che è in noi.

Mi capita… siccome mi capita spesso di incontrare i giovani, e mi piace tantissimo… E mi verrebbe da dire, ma non posso evidentemente fare questo discorso qui… Però mi verrebbe da dire: “Attenzione, datevi da fare! Io sono arrivato fino a qui, e mi rendo conto di tutti i miei limiti, voi dovete andare più avanti, dovete riuscire ad esprimere ancora meglio l’umanità dell’uomo, la presenza di Cristo dentro la nostra vita. C’è molto da fare, da esplorare, da cercare, da realizzare, da migliorare…”.

Mi piacerebbe riuscire a trasmettere la voglia di vivere, la voglia di crescere umanamente dentro. Perché dicevo, quello che mi rimane come tristezza è proprio la tristezza di quello che non sono, che non sono riuscito a fare… che non ho voluto fare per cattiveria, per infedeltà…

Chiuso… adesso sono in Galleria, insieme con tutti i ritratti di persone… Importanti? Ebbene, lo sono stati. Sono davanti al Signore, e davanti al Signore cambiano molte cose.

Può succedere quello che si legge nel cap. 16° di Luca, che “chi è ricco si trova povero davanti al Signore, e chi era povero si trova immensamente ricco”.

Allora questa Galleria di quadri, di persone, di vescovi, che hanno servito Piacenza, sì c’è perché i vescovi evidentemente ha un suo significato di autorità, di valore, ecc. Però vale la pena guardarli custodendo la consapevolezza di questo: che alla fine i valori che entrano in questo mondo sono realtà autentiche, ma sono effimere e passeggere, e che alla fine deve rimanere, e che rimane alla fine di tutte queste persone, quello che hanno saputo vivere di amore e di dono agli altri, di servizio e di relazione autentica.

Tutti gli anni quando si faceva la festa del “Cerati”, don Bracchi rileggeva, ripeteva, sempre le parole che sono sulla tomba del Cerati:

Nihil fuit – nihil est – et utinam sit aliquid apud deum ‑ “Non è stato niente, adesso non è niente, Dio voglia che sia qualche cosa davanti a Dio”. “Dio voglia che della sua vita ci sia qualche cosa, un frammento che custodisce valore davanti a Dio, perché questo è l’unico che rimane”.

La contessa Matilda ‑ siccome sono reggiano e quasi di “Canossa”, alla contessa Matilda sono affezionato ‑ firmava così: “Matilda dei grazia quid est” – “Matilde, se per grazia di Dio è qualche cosa”.

Ecco, i ritratti io credo che li dobbiamo guardare così, per quello che dicono, per quello che suggeriscono, per quello che fanno capire, per il mistero che tentano di esprimere… con la consapevolezza della nostra fragilità e debolezza; con anche la consapevolezza che quello che rimane è in realtà quello che l’uomo è riuscito a trasformare in bontà e amore della sua vita.

Grazie ancora al maestro Sartini. Grazie all’Alberoni. Grazie al dott. Gasparotto e al dott. Fugazza perché hanno lavorato e faticato. Che Dio vi benedica.

Si ringrazia Vittorio Ciani per la collaborazione