domenica 14 ottobre 2007

Monari a Brescia, i saluti

Brescia 14 ottobre 2007


I "grazie" di Monari nella cattedrale di Brescia


La cosa più importante l’abbiamo fatta; anzi, l’ha fatta il Signore risorto servendosi di noi, delle nostre mani, della nostra libertà, del nostro cuore. È Lui, il Signore che ha convocato il popolo di Dio bresciano – presbiteri e religiosi, laici e diaconi – attorno al vescovo. È Lui che a noi, suo popolo, ha rivolto la parola per dirigere i nostri passi su una via di vita; è Lui che con la forza del suo Spirito ha fatto del pane e del vino – frutto della terra ma anche delle nostre fatiche – la sua vita spezzata e donata per noi; è Lui, quindi, che ci ha nutriti con il suo amore e ci ha coadunati in un unico popolo. Povera cosa come siamo, siamo però immagine vera di Dio, della comunione trinitaria. “Vi è un solo Dio – scriveva san Cipriano – e un solo Cristo, una è la sua Chiesa e una è la fede, e uno il popolo congiunto dal legame della concordia nella compatta unità del corpo.” Quello che abbiamo vissuto oggi, in questa cattedrale è uno di quegli eventi che fanno sognare e sperare: fanno sognare un’umanità raccolta nell’amore, fanno sperare una Chiesa che di questa umanità nuova sia anticipo e segno credibile proprio attraverso la sua concordia. Ripeto con Paolo: “Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti.” (Fil 2,1-2) Con questo ho già detto il primo e fondamentale senso del mio servizio episcopale tra voi: essere segno e strumento del Signore per custodire nell’unità della carità la Chiesa bresciana. A questo desidero dedicare le energie che mi restano; vorrei offrire a Cristo una comunità concorde e salda, umile e grata, gioiosa e ricca di speranza .
Non ho programmi precisi da presentare. O, se un programma mi è caro, è quello che ci ha offerto Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte con queste parole: “Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non ci salverà una formula, ma una Persona, e la certezza che essa c’infonde: Io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un ‘nuovo programma’. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal vangelo e dalla viva Tradizione. Esso s’incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio.” Come Chiesa bresciana, Chiesa madre, ci viene chiesto di concepire e dare alla luce Cristo, a imitazione di Maria: di concepirlo con la fede nell’ascolto della Parola, di darlo alla luce con la carità che dà forma a tutte le scelte, a tutti i comportamenti, a tutti i progetti dell’uomo. È la missione di ogni chiesa che la chiesa bresciana è chiamata a realizzare in questo tempo e in questo luogo, con una particolare storia alle spalle e con precise possibilità davanti. Per questo m’impegnerò anzitutto ad ascoltare e a cercare di capire. Capire quello che il Signore ha fatto e sta facendo in questa Chiesa che ama, quello che il Signore si aspetta da lei e che le sta chiedendo. Sarà il cammino di discernimento da fare insieme – con i Consigli di partecipazione, anzitutto – Consiglio presbiterale e Consiglio pastorale – ma col contributo di tutti se è vero che il Signore parla al cuore degli umili e comunica loro le verità più preziose.
A tutto questo vorrei aggiungere alcune riflessioni che mi stanno particolarmente a cuore. La prima riguarda la comunione del presbiterio. La metto al primo posto perchè sono convinto che vescovo e presbiterio sono una cosa sola, che il loro ministero è servizio comunitario, che essi (vescovo e presbiterio) portano in solido la responsabilità del servizio pastorale a tutta la diocesi. L’ordine sacro non è solo un sacramento che abbiamo in comune, ma un’origine che dà al nostro ministero una forma comunitaria. Siamo sacramento di Gesù pastore; con le parole e i gesti siamo chiamati a rendere presente oggi la premura, l’amore, la dedizione di Cristo per la sua Chiesa. È evidente, allora, che la comunione è un’esigenza primaria. Non ci sono due pastori o venti: ce n’è uno solo: Cristo. E tutti noi – vescovo e ottocento preti – siamo l’unico sacramento di questo unico pastore. Potremmo renderlo visibile se fossimo divisi tra noi? Cristo è forse stato diviso? Chiedeva ironicamente Paolo ai Corinzi. So che la vita del prete oggi non è facile – se mai lo è stata nella storia. Le gratificazioni sono scarse e i riconoscimenti pure; il contesto culturale in cui viviamo non fa gran conto di quello per cui abbiamo donato la vita e questo ci brucia. Quando siamo diventati preti lo abbiamo fatto convinti che Gesù Cristo, il vangelo, la chiesa sono valori assoluti, capaci di giustificare il dono di tutta la propria vita. E oggi respiriamo – che lo vogliamo o no – uno spirito diverso che condanna i valori assoluti e assolutizza quelli relativi come se fossero i soli per cui vale la pena vivere: il successo e il benessere, la realizzazione personale e la carriera. Vivere la sobrietà, la castità, l’obbedienza in un contesto come questo significa resistere a una pressione forte. Ma sono convinto che proprio per questo la nostra testimonianza è ancora più preziosa. Ho scelto come motto le parole di Paolo ai Romani: “Non mi vergogno del vangelo”. Non perchè mi senta particolarmente coraggioso, ma perchè so quale sia il valore del vangelo. So che quella umile parola che annuncia e trasmette l’amore di Dio per l’uomo è capace di rendere l’uomo libero da tutte le seduzioni e da tutte le paure, è capace di far zampillare dentro di lui la gioia anche in mezzo alle situazioni più difficili, è capace di liberarlo dalla presa mortale dell’egoismo e proiettarlo verso l’avventura affascinante dell’amore. Credo in Gesù Cristo; credo nel suo vangelo.
Da qui nasce l’evangelizzazione; nasce come atto di amore nei confronti dell’uomo. La percezione della distanza che separa l’uomo d’oggi dal vangelo diventa il segno della necessità sempre più grande dell’annuncio del vangelo. Non è opera di propaganda e non è intesa a rendere più forte la Chiesa; è opera d’amore e tende solo a rendere l’uomo più libero e gioioso. Il mondo diventa troppo brutto se non si riesce a guardarlo con gli occhi dell’amore; la vita è troppo dolorosa se non si riesce a renderla dono d’innamorato. Al di fuori di questo rimangono solo gli anestetici, per non far percepire la pesantezza della vita; o gli stimolanti per illudersi di vivere una vita parallela, diversa da quella reale. Annunciare il vangelo significa lavorare per l’umanità dell’uomo; e lavorare non con le nostre sole forze, ma con la forza dell’amore che viene da Dio attraverso Gesù Cristo. “Così dice il Signore, che offrì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti... Ecco, faccio una cosa nuova; proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.” (Is 43,16.19) Quando il secondo Isaia diceva queste parole, la condizione di vita degli Israeliti era avvilente, certo peggio della nostra oggi. Eppure quella parola era vera e rimane vera per noi: la risurrezione di Gesù ce ne dà la sicurezza perchè ha spezzato, e definitivamente, il cerchio di un mondo autoreferenziale e ha legato per sempre la nostra piccola storia precaria all’eternità di Dio.
La sfida che abbiamo davanti è proprio quella per l’umanità dell’uomo. Che non è garantita: per ciascuno di noi essere ‘umani’ è il risultato sempre precario di un’attenzione viva, di una crescita continua, di un esercizio (ascesi) perseverante. Non lo possiamo dare per scontato. Ci accorgiamo benissimo quando dal nostro cuore escono impulsi e sentimenti che ci fanno meschini: “Più fallace di ogni altra cosa è il cuore – avvertiva Geremia – e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?” E aggiungeva: “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori.” (Ger 17,9-10) C’è una profondità del cuore che non riusciamo a sondare, che nemmeno i sogni rivelano. Ma lì, in quel centro misterioso e a volte oscuro dell’uomo, lì entra la parola di Dio, lì purifica sentimenti e impulsi, genera sentimenti nuovi, apre strade nuove di semplicità: “Viva, infatti, è la parola di Dio, efficace, e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.” (Eb 4,12) Questo cammino di purificazione operato nel cuore di ogni singola persona va insieme con l’azione di edificazione e correzione della Chiesa. Tutte le domeniche la comunità cristiana si raccoglie insieme per ascoltare la parola. A quella parola tutti, insieme, diamo l’assenso della fede. Così nasce e prende forma e cresce la Chiesa: non attraverso le nostre scelte, ma attraverso la nostra docilità alla chiamata del Signore. Il cammino di questi anni dopo il Concilio è stato fecondo, certamente, ma non ha ancora espresso tutte le sue valenze: poco alla volta la fisionomia delle nostre comunità deve essere plasmata dall’ascolto della parola. Non è ancora così: non è forse vero che anche nelle nostre comunità si sviluppano dinamismi di carriera, contrasti di potere? Possiamo dire che al centro della nostra attenzione ci stanno davvero i piccoli? Davvero nelle nostre comunità non si cerca il proprio interesse, ma piuttosto quello degli altri? Potrei continuare facilmente con l’esame di coscienza, ma mi capite bene. E non si tratta di scandalizzarsi per i limiti che riscontriamo; sarebbe, temo, anche questa una forma di fariseismo. Che in noi e tra noi ci siano egoismi, che grano e zizzania coesistano è affermazione scontata, addirittura banale. Il problema non è indignarci e ribellarci; il problema è volgerci sempre di nuovo verso la parola di Dio perchè sia essa a plasmarci e costruirci secondo il suo dinamismo proprio. Il problema è che l’eucaristia non sia solo rito, ma rito che dà forma alla vita delle comunità e le fa esistere nella logica dell’amore oblativo.
Insomma, l’unità della chiesa bresciana, di cui mi metto al servizio, sarà garantita dalla parola e dall’eucaristia se alla parola e all’eucaristia aderiremo con tutta la nostra fede; se non ci tireremo indietro quando la parola brucerà i nostri sentimenti meschini, quando l’eucaristia ci chiederà il sacrificio silenzioso di noi stessi. Quando san Paolo descrive la comunità di Corinto come il corpo di Cristo, dice che, a motivo di questo, nessuno può dire agli altri : “Non ho bisogno di voi.” E, parallelamente, nessuno può dire: “Non c’è bisogno di me.” Poi aggiunge: “Anzi, quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre.” (1Cor 12,22-25) Insomma, secondo san Paolo, l’unità potrà manifestarsi nella chiesa quando concretamente in essa al centro verranno posti i piccoli – e cioè gli ammalati, gli anziani, i poveri, i bambini... insomma tutti coloro che per un motivo o per l’altro, sono deboli. È proprio così. Quando in una comunità al centro stanno i posti di potere, la vita diventerà una lotta per occupare quei posti; non è proprio questo lo spettacolo antico e sempre ripetuto della storia? Quando invece al centro vengono posti i piccoli, allora la comunità si compatta: quelli che hanno capacità, tendono a unirsi tra loro per rispondere meglio alle necessità dei piccoli. Insomma, loro, i piccoli, sono preziosi perchè da loro dipende molto della comunione nella chiesa.
Così ho finito anche la seconda e ultima predica, per oggi. Mi resta solo da ringraziare doverosamente tutti voi che siete venuti: ci siamo fatti a vicenda il dono di un’esperienza di Chiesa bella e grande, ricca di doni e salda nella speranza. Grazie. Grazie ai presbiteri, ai religiosi/e e ai laici che rappresentano l’intera diocesi di Piacenza-Bobbio e hanno desiderato accompagnarmi in questo giorno; una comunità che ho amato e dalla quale mi sono sentito voluto bene. Con le parole di Paolo, anch’io posso affermare che mi sono affezionato a voi e ho desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la mia stessa vita, perché mi siete diventati cari” (cfr 1 Ts 2,8) . Grazie anche al card. Ruini, mio vecchio insegnante e, credo di poterlo dire, amico. Grazie a tutti i vescovi che hanno concelebrato con noi: ricordo anzitutto mons. Marini perchè fino ad oggi, come vescovo di Piacenza- Bobbio, sono stato il suo vescovo; poi mons. Betori, compagno di seminario (e i compagni di seminario non si dimenticano). Un saluto affettuoso e grato al vescovo Giulio per aver servito con sapienza di padre la chiesa di Brescia; a lui unisco un ricordo amico per il vescovo Bruno anch’egli servitore generoso e fedele della nostra diocesi. Grazie ai fratelli sacerdoti delle Chiese ortodosse; ai pastori delle Chiese valdese ed evangelica; la loro presenza è un invito a continuare a camminare sulla via del dialogo e della comunione. Grazie a tutte le autorità civili e militari; la loro presenza ci fa sentire l’affetto e la partecipazione della città intera. Dio le benedica e doni loro di compiere con gioia ed efficacemente il loro servizio perchè, come dice san Paolo “possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità.” Non mi resta che abbracciarvi idealmente tutti quanti, uno per uno, con l’abbraccio del Signore. Da oggi “io provo per voi, per la Chiesa bresciana, una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo.” Mi doni il Signore un cuore puro, che sappia servire con gioia senza nessuna pretesa, che sappia parlare e donare per indirizzare a Cristo e poi ritirarsi con la libertà dell’amico dello sposo “perchè egli cresca e io, invece, diminuisca.”

Monari a Brescia, l'omelia di ingresso

Brescia 14 ottobre 2007

Omelia di monsignor Luciano Monari
per il suo ingresso a Brescia

Gesù guarisce dieci lebbrosi; ma di loro uno solo viene definito ‘salvato’. Perché? Dove sta la differenza? Dal punto di vista della guarigione fisica, non c’è nessuna differenza: erano lebbrosi, con gli arti deformi e la carne a brandelli; ora a tutti loro la carne è tornata ‘come la carne di un giovinetto’; sono guariti. Uno dei guariti – un Samaritano, nota Luca – riconosce la guarigione come un dono, torna indietro, loda Dio a gran voce e si getta ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Questo fa la differenza: la guarigione fisica diventa salvezza quando è riconosciuta come dono e produce nel cuore la gratitudine. Questo il messaggio chiarissimo del vangelo che vorrei assumere e fare mio.
Mi trovo a vivere senza averlo deciso, o voluto, o meritato. E debbo prendere posizione di fronte alla mia vita; come pensarla? Come un semplice dato o come un vero e proprio dono? Se la vita è solo un dato, le posso dare la forma che voglio. Se la vita è un dono, io sto di fronte a un donatore e la mia vita si sviluppa come una risposta; diventa, nel senso preciso della parola, un’esistenza ‘responsabile’. I doni sono gratuiti, certo; ma sono nello stesso tempo esigenti. Rifiutano uno scambio secondo equivalenza, ma richiedono una risposta di gratitudine. Naaman il Siro è stato guarito dalla lebbra attraverso il ministero del profeta Eliseo; ad Eliseo egli pensa di dare una ricompensa, vorrebbe in qualche modo ‘pagare’ la guarigione ricevuta. Ed Eliseo rifiuta energicamente: quella guarigione è un dono, non una prestazione medica; non può essere pagata come non si può mai pagare la bontà, la benevolenza, l’affetto, l’amore. Chi volesse comperare l’amore, dice il Cantico, mostrerebbe di non aver capito nulla e meriterebbe solo disprezzo. E allora Naaman trova una soluzione ingegnosa: carica due muli con un po’ della terra di Israele e se la porta dietro, quella terra, nella sua patria. Quando sarà il tempo della preghiera, potrà prostrarsi su quella terra e adorare il Dio di Israele dal quale ha ricevuto il dono della guarigione. Non pagherà la guarigione, ma vivrà con riconoscenza alla presenza di Dio.
Fratelli e sorelle carissimi, inizio oggi, nel nome del Signore, il mio servizio episcopale nella Chiesa di Brescia. A questo servizio mi ha chiamato il Papa e ho risposto volentieri, con gioia. Se il Signore mi darà fiato e salute, ho una decina d’anni prima di andare in pensione e vorrei spendere questi anni per il Signore, per Brescia. Chi, che cosa me lo fa fare? Non m’interessa diventare ricco: il Signore mi ha sempre dato il necessario e sono convinto che lo farà anche in futuro. Non m’interessa acquistare potere o fare carriera: sono incatenato a un Signore che è stato umiliato e che venero inchiodato su una croce. Vorrei piuttosto rendere il mio cuore saggio e buono, intessere relazioni umane sane e mature, donare senza pretese agli altri quello che di bello ho ricevuto dal Signore. E’ a questo che m’invita il vangelo di oggi: vivi un’esistenza riconoscente – mi dice – e intona l’inno di lode e di ringraziamento.
Mi chiedo, a volte, perchè questo messaggio della fede faccia così fatica a penetrare in profondità il cuore dell’uomo, nel mio stesso cuore. Perchè nove guariti su dieci non sono tornati indietro a lodare il Signore? Erano così ansiosi di gustare e sfruttare la salute da dimenticare colui che della salute aveva fatto dono? La fede arricchisce la vita perchè la interpreta e la fa vivere come segno dell’amore di un donatore. E non c’è dubbio che essere amati è un valore aggiunto che rende preziose tutte le cose anche quelle più umili. E allora perchè tanta resistenza? Sono forse motivazioni intellettuali quelle che bloccano? C’è forse una dimostrazione scientifica o filosofica che escluda il sì della fede? Non mi sembra: l’analisi, per quanto accurata, di come è fatto e come funziona un orologio non mi può dire se quell’orologio è solo un dato o anche un dono; e la riflessione filosofica può al massimo arrivare a dire che l’orologio può essere un dato se c’è proporzione tra quell’orologio e la mia abilità tecnica (sono così abile nell’arte orologiaria che mi sono fatto io stesso l’orologio) o tra quell’orologio e la mie possibilità economiche (sono ricco e mi sono comprato l’orologio con i miei soldi); e invece probabilmente l’orologio è un dono se non sono capace di farlo da me e non ho le risorse sufficienti per comprarlo. Ma la filosofia si ferma qui; e lascia il posto alla coscienza e alla libertà dell’uomo.
Dunque: il mondo e la vita sono solo un dato o sono anche un dono? Probabilmente inclinerà a riconoscere il dono chi nella sua infanzia ha sperimentato l’amore degli altri (dei genitori, degli amici); e farà più fatica a riconoscere il dono chi avrà avuto esperienze dolorose di solitudine e di abbandono. Ma il cuore dell’uomo è creativo, originale, libero; le esperienze passate lo inclinano ma non lo determinano; a volte, il cuore umano sa generare gioia anche in mezzo alle tribolazioni e sa custodire speranza anche tra le delusioni. Quando il cuore passa dall’apprezzamento della vita al ringraziamento passa dalla salute alla salvezza. Il vangelo vuol farci percorrere questo itinerario a partire dalla conoscenza delle parole e delle opere di Gesù. È come se Dio avesse pensato così: “Ho dato all’uomo il mondo come segno del mio amore; ma so anche che questo mondo non è facile da decifrare e che il maligno farà di tutto perchè l’uomo si appropri delle cose e le viva non come doni di cui essere riconoscenti ma come patrimoni da sfruttare. Debbo dargli un segno inequivocabile, scritto nella storia a caratteri cubitali perché l’uomo lo possa leggere, nonostante tutte le sue miopie.” Per questo ci è stato donato Gesù, perchè tutti i possibili dubbi sull’amore di Dio cedessero di fronte alla rivelazione di colui che ci ama e ha dato la vita per noi. Gesù è passato in mezzo a noi facendo del bene e sanando tutti quelli che stavano sotto il potere del male. Ha amato e ha continuato ad amare anche quando ha incontrato dolorosamente la cattiveria e l’ingiustizia. Un uomo così non lo abbiamo fatto noi; non lo ha prodotto l’evoluzione della specie, non lo ha educato la riflessione filosofica. Un uomo così viene da Dio ed è segno di Dio. Lo ha capito benissimo il Samaritano che, guarito dalla lebbra, torna: ringrazia Gesù e loda Dio a gran voce.
L’inganno che blocca la nostra gratitudine è il timore che il dono leghi il donatario, mentre di fronte al puro dato rimarrei più libero. In superficie le cose stanno così; ma, se andiamo alla radice dell’esperienza umana, ci accorgiamo che è vero esattamente il contrario: vivere al cospetto di Dio donatore libera dalla paura della solitudine, dal bisogno di affermare se stesso, dai ricatti del mondo che dice di essere tutto per me e pretende che io sia tutto per lui. Qui forse tocchiamo quel centro nel quale è interpellata la nostra coscienza. Se vivo di riconoscenza debbo rinunciare a ogni pretesa, debbo donare con libertà, contento anche solo di poter esprimere in questo modo la gioia di essere stato creato, sanato. Ci riuscirò? Inizio il mio ministero a Brescia: se accetto la logica del vangelo, debbo farlo senza pretese: nessuna pretesa verso i preti, nessuna pretesa verso i laici, nessuna pretesa verso le autorità, nessuna pretesa verso i mezzi di comunicazione... puntini di sospensione perchè qui il discorso si allarga all’infinito. Naturalmente, questo non significa che non chiederò nulla a nessuno: dovrò farlo, anche quando mi costerà, proprio per il mio servizio di vescovo. Ma non dovrò avere pretese per me, non dovrò dare spazio ai miei risentimenti, dovrò essere mosso solo dall’amore per le persone e dall’amore per la Chiesa bresciana. Riuscirò? Quando guardo i miei difetti, mi verrebbe da dubitarne; ma confesso che uno stile di vita come questo mi affascina; so che mi renderebbe davvero più uomo, più degno di quella misteriosa parola: a immagine e somiglianza di Dio. E allora, con tutta umiltà lo chiedo al Signore e lo chiedo a voi perchè mi aiutiate, perchè ci aiutiamo a vicenda a vivere una vita senza pretesa alcuna, ripetendo con gioia la parola che abbiamo ascoltato con stupore due domeniche fa: “Siamo servi inutili; abbiamo fatto semplicemente quello che dovevamo fare.”
Da bambini abbiamo imparato le preghiere del mattino. Quando apri gli occhi, ci è stato insegnato, per prima cosa rivolgi il pensiero a Dio che ti ha creato e ringrazia: “Ti adoro, mio Dio, ti amo con tutto il cuore, ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte.” Piccola cosa, questa preghiera, ma preziosa. Preziosa perchè ridimensiona le paure e si affida a un amore più grande. Probabilmente Dio non ha bisogno della nostra lode; ma noi sì. Quando ringraziamo non siamo più soli nella fredda immensità dell’universo, abbiamo un po’ meno paura del futuro, accettiamo la vita come responsabilità, abbiamo un motivo per vivere, ci ricordiamo che il culmine della nostra vita è l’amore e che chi ama ha adempiuto la legge; è tutto.

Nuovo vescovo, l'annuncio a fine ottobre

Imminente la lettera della nunziatura,
forse giovedì 25 in contemporanea con Parma.
Ancora segreto il nome
Nuovo vescovo, l'annuncio a fine ottobre
E Monari oggi entra a Brescia accompagnato da 300 piacentini


Il nome del nuovo vescovo di Piacenza-Bobbio, successore di monsignor Luciano Monari, potrebbe essere annunciato ufficialmente il prossimo 25 ottobre. La notizia trapela sia da ambienti della curia piacentina sia da quelli della Santa Sede. La certezza, in questi casi, non c’è mai fino all’ultimo, però è innegabile come qualche cosa, in Vaticano, si stia muovendo. Il nome in cima alla lista e quello di Gianni Ambrosio, 65 anni, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Intanto, questo pomeriggio, il vescovo Monari prenderà ufficialmente possesso della diocesi di Brescia con una solenne cerimonia nella cattedrale lombarda. Da Piacenza lo accompagneranno in trecento, tra sacerdoti, religiosi, diaconi e laici. Non è l’addio ufficiale alla diocesi di Piacenza-Bobbio, quello si farà domenica 21 ottobre in duomo.
La data del 25 ottobre come giorno dell’annuncio del nuovo vescovo viene ritenuta credibile alla luce di alcuni fatti. Primo: dal Vaticano sono arrivate rassicurazioni ai vertici della curia di Piacenza-Bobbio sul fatto che l’entrata del nuovo “pastore” avverrà entro Natale. Secondo: ci sono dei tempi tecnici. L’annuncio, a Piacenza, viene dato il giovedì alle ore 12, anche per permettere al settimanale diocesano, il Nuovo Giornale, di uscire il giorno dopo con la notizia. Così è avvenuto con l’annuncio del trasferimento di Monari a Brescia (lo scorso 19 luglio era un giovedì). Il giovedì successivo al 25 ottobre coincide con il giorno dei Morti, ragion per cui non possibile l’annuncio in quella data. Dopo ci sarebbe l’8 novembre ma potrebbe risultare troppo avanti per un’entrata in diocesi prima di Natale. Soprattutto se il nuovo vescovo non sarà già vescovo. È il caso di monsignor Gianni Ambrosio, 65 anni, di origini vercellesi (come il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone); l’altra sera, a Milano, nella cappella dell’Università Cattolica il monsignore ha celebrato la messa in latino secondo il rito pre-conciliare al quale Benedetto XVI ha dato il via libera. La Cattolica gode di “extraterritorialità” rispetto alla diocesi Milano dove il cardinale Dionigi Tettamanzi ha stoppato il “Motu proprio” papale. Altro milanese in corsa per Piacenza dovrebbe essere il vescovo monsignor Erminio De Scalzi, abate di Sant’Ambrogio, mentre il terzo nome è quello del vescovo bresciano Domenico Sigalini - oggi guida la diocesi di Palestrina - papabile anche per la diocesi di Parma. La nomina del successore di Monari dovrebbe essere data in contemporanea con quella del successore di monsignor Cesare Bonicelli a Parma. Per entrambe le diocesi i giochi sono già stati fatti; il segreto pontificio al momento rimane inviolato. Se ne saprà di più nelle prossime ore. A Brescia, questo pomeriggio, per l’entrata del vescovo Luciano Monari, oltre ad almeno cinquemila fedeli, in cattedrale ci sarà una sorta di piccolo “concilio” con alti prelati provenienti da tutta la Lombardia, dall’Emilia Romagna e dal Vaticano. Due cardinali, Camillo Ruini e Giovanni Battista Re, l’arcivescovo “piacentino” presidente dei Congressi Eucaristici Piero Marini, l’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo, i vescovi ausiliari di Milano Carlo Maria Redaelli e Franco Giulio Brambilla, l’emerito di Brescia Bruno Foresti, il segretario della Cei Giovanni Betori.
Federico Frighi