lunedì 28 settembre 2009

Ambrosio alla Festa Granda degli alpini ricorda i militari uccisi a Kabul

Carissimi alpini, carissime fratelli e sorelle,
il brano del vangelo di questa domenica ci presenta il secondo annuncio della passione di Gesù. Anche questa volta i discepoli non comprendono la parola di Gesù. Non è una parola facile, certo. È pur vero che si tratta dell’annuncio Pasquale, dell’unico mistero pasquale costituito dalla morte e dalla risurrezione. Ma per i discepoli risulta difficile integrare i due aspetti, apparentemente opposti, del mistero pasquale: nella loro mente prevale il buio della sofferenza e della morte.
Sembra pure che i discepoli non vogliano neppure sentire quell’annuncio: si tratta di lasciare la Galilea, dove Gesù ha annunciato il Vangelo e compiuto miracoli, per salire a Gerusalemme ove Gesù sarà consegnato nelle mani degli uomini.
Gesù insiste nell’annuncio della Passione: questa è la seconda volta, ne seguirà una terza. È pienamente consapevole di ciò che lo aspetta a Gerusalemme, sa che la sua missione comporta il dono della sua vita, il battesimo di sangue (cf Lc 12, 50). Così vuole che anche i suoi amici comprendano il senso del dono della sua vita, il senso della salita che conduce a Gerusalemme ove si consegnerà nelle mani degli uomini, senza alcuna difesa, senza alcuna resistenza.

Sono queste le parole con cui Gesù comunica ai discepoli la sua Passione: «Il Figlio del’'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno» (Mc 9, 31).
Gesù ricorre all'espressione “Figlio dell’uomo”. Un titolo solenne che esprime gloria, potenza e vittoria. Gesù, il Figlio dell’uomo che ha affidato la sua vita a Dio, si consegna nelle mani dei figli degli uomini: egli è il “giusto” che viene ingiustamente messo alla prova dagli empi “con violenze e tormenti”, e condannato “a una morte infamante”. Sono le parole del libro della Sapienza, che abbiamo ascoltato come prima lettura, parole che ci introducono nel mistero del male, o meglio, nel cuore dei malvagi, la cui cattiveria sembra essere vincente.
Gesù, il Figlio dell’uomo, intende percorrere la strada del ‘messia sofferente’: è la strada del servo che dona la vita per gli uomini. Si consegna nelle loro mani, nelle mani di Giuda, di Pilato, dei soldati, nelle mani di tutti gli uomini, per essere servo di tutti e per donare a tutti la salvezza. E associa a sé tutti i profeti, tutti i giusti, tutti coloro che lottano per il bene, tutti i martiri della storia.

Se possiamo comprendere la difficoltà dei discepoli di accettare che il “Figlio dell'uomo” venga consegnato nelle mani degli uomini, restiamo tuttavia stupiti del loro comportamento. Quando Gesù annuncia il mistero pasquale, i discepoli, dice il vangelo, «avevano timore di interrogarlo» (v. 32): non osano chiedere spiegazioni, scelgono la strada del silenzio.
Un silenzio imbarazzante. Tanto più imbarazzante se pensiamo che subito dopo l’annuncio della passione, mentre sono per la strada verso Cafarnao, i discepoli si mettono a parlare tra di loro fino discutere per sapere chi fosse il più grande. Anche se sappiamo che questo genere di discussioni era molto in uso negli ambienti religiosi del tempo, troppo vistosa e troppo stridente è la distanza tra l’annuncio della passione di Gesù e la discussione degli apostoli. Una distanza sconcertante, abissale: l’evangelista Marco lo sottolinea con chiarezza, senza timore di screditare il gruppo dei discepoli.

Come reagisce Gesù? Riprendendo da capo l’insegnamento: «Sedutosi, chiamò i dodici […], preso un bambino, lo pose in mezzo a loro» (v. 35.36). Gesù non respinge i dodici, ma li invita a superare la mentalità piccola e ristretta per aprirsi il cuore e la mente alla logica nuova del Regno di Dio. Così, rovesciando il modo umano – troppo umano – di pensare, ci si apre al dono di sé. Non conta l’affermazione di sé, conta il servizio: si diventa così discepoli del Messia che si è fatto servo fino al dono della sua vita . Allora la vera grandezza dell’uomo consiste nel porsi al servizio degli altri: così si va incontro ai fratelli e si va incontro a Dio.

Ecco allora la scena davvero emblematica che conclude il brano evangelico. Gesù pone al centro un bambino, e cioè, secondo la mentalità giudaica, un soggetto che dipende da altri, e quindi, anche giuridicamente, un soggetto che non può essere collocato al centro. Gesù, dice il vangelo, lo «pose in mezzo a loro, abbracciandolo». Così, abbracciando quel bambino e collocandolo al centro dell’attenzione, Gesù manifesta visibilmente il senso concreto del suo essere Messia che si fa servo per abbracciare tutti, in particolare coloro che sono ultimi e non hanno alcun titolo di rilievo, se non quello del bisogno. Con loro infatti si è identificato Gesù, come dimostrano le parole con cui spiega e commenta il suo gesto: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (v. 37).

Carissimi fratelli e sorelle, siamo qui radunati attorno all’altare su cui Cristo, nel sacramento dell’Eucaristia, continua ad immolarsi per la salvezza nostra e del mondo intero. Riconoscendo che siamo noi i primi ad essere bisognosi dell’amore di Cristo che si è fatto servo e ha donato la vita per noi, preghiamo perché la nostra comunità sia davvero cristiana, capace cioè di seguire fedelmente il suo Maestro e Signore sulla strada che porta alla passione, morte e risurrezione, capace di scegliere l’ultimo posto e di accogliere e di abbracciare i più ‘piccoli’. Preghiamo poi perché tutti gli uomini arrivino a comprendere la bellezza del servizio e a vivere la logica nuova dell’amore, pur in mezzo alle tante rivalità e alle lotte della storia.
Non possiamo dimenticare i nostri fratelli che, inviati in missione di pace, sono stati tragicamente uccisi in questi giorni a Kabul. La speranza cristiana non solo ci sostiene davanti al dramma del male, ma ci convince che la morte innocente di questi giovani in missione di pace è un rinnovato appello per vincere la violenza e favorire il bene dei più deboli e indifesi. Con questo sentimenti, partecipiamo alla sofferenza delle famiglie di questi nostri soldati e a quella dei loro commilitoni. Innalziamo la nostra preghiera di suffragio al Signore per questi giovani come per tutti gli alpini che ‘sono andati avanti’, come si usa dire nel gergo degli alpini.
Non posso non ricordare, in questa grande festa degli alpini, il beato don Secondo Pollo, prete vercellese, cappellano degli alpini, che il 26 dicembre 1941, nella battaglia di Dragali in Montenegro, accorre per portare conforto ad un alpino ferito. Viene colpito da una pallottola che gli recide l’arteria femorale e muore dissanguato, come uno che ha donato tutto, fino all’ultima goccia di sangue. Lo ricordiamo con affetto, ne invochiamo l’intercessione per camminare anche noi sulla strada del dono di sé e della santità. Amen.

† Mons. Gianni Ambrosio,
Vescovo Piacenza-Bobbio

Si ringrazia Vittorio Ciani per la gentile collaborazione