sabato 30 aprile 2011

Vicini e lontani/ Il vescovo Antonio Lanfranchi racconta il suo Wojtyla

Domani in Vaticano sarà beatificato Giovanni Paolo II. Tra le tante testimonianze abbiamo scelto questa bella intervista apparsa oggi, 30 aprile 2011, sul sito della Gazzetta di Modena, in cui il vescovo piacentino Antonio Lanfranchi, oggi arcivescovo-abate di Modena-Nonantola, racconta il suo Wojtyla personale.

«Una volta mi si avvicinò e, mettendomi una mano sulle spalle, mi disse "Tu le hai buone, quelle che ci vogliono con i giovani". Di Giovanni Paolo II ho tanti ricordi, specie degli anni in cui, proprio con i giovani dell'Azione Cattolica, partecipai a tante udienze pubbliche e private». Monsignor Antonio Lanfranchi, vescovo di Modena racconta il "suo" Wojtyla e soprattutto l'incontro del 26 gennaio 2005, ultima udienza del Pontefice. «Accompagnavo in visita un gruppo della diocesi di Cesena-Sarsina. Festeggiavo il mio primo anno da vescovo e lo dissi al Santo Padre. Lui, già molto malato, non parlò. Ma ci volle con sè per una foto di gruppo e fece portare una poltrona per farmi sedere accanto a lui. Sembrava un padre contento di avere attorno la sua famiglia».

Anche Giovanni XXIII è beato, per Paolo VI è avviato il processo. Quali i punti di contatto e le differenze tra i tre pontefici?

«Credo che ci siano due i tratti fondamentali che li accomunano, il primo è la tensione alla santità, l'aver incarnato la vocazione di ogni cristiano. Il secondo è il grande desiderio di dialogo con l'uomo contemporaneo. Ricordo il discorso di Paolo VI al termine del Concilio: rivolgendosi ai cultori dell'umanesimo ateo sottolineò proprio questo interesse della Chiesa per l'uomo. Un passione che li ha uniti. Le differenze, invece, credo siano date dai tempi, dalle personalità, dalle culture. Lo Spirito, per chi legge cristianamente la storia, manda il Papa giusto al momento giusto. Con Giovanni XXIII c'è stata una nuova lettura della società; una sorta di rottura che Paolo VI ha ancorato nel cammino della Chiesa e che Wojtyla ha portato avanti. Ogni pontificato ha segnato la storia della Chiesa, dell'umanità e il loro rapporto».

Giovanni Paolo II è stato forse uno dei principali fautori della fine dell'egemonia comunista nell'Est. Più un grande Papa o un grande politico? O tutti e due insieme?

«Wojtyla è stato un grande uomo di fede e, intendendo la parola nella sua accezione più alta, anche un grande politico. Nell'enciclica "Redentor Hominis" è chiaro il concetto che la via della Chiesa sta nell'uomo. Per capire il suo messaggio bisogna unire antropologia e cristologia. C'è una visione dell'uomo mutuata da Cristo. Ricordiamo le sue parole "non abbiate paura di aprire le porte a Cristo". Per quello che riguarda la caduta del comunismo penso che Wojtyla sia stato non tanto contro, ma oltre il comunismo. Oltre tutto ciò che non rispetta la centralità dell'uomo. In questo senso sono due, secondo me, le idee guida del suo magistero: ancorare il presente di un popolo a tutta la sua tradizione e una visione immanenente dell'uomo. Credo che quello di Wojtyla non sia stato tanto un prendere di petto la politica ma piuttosto la fusione di questi due principi e la volontà di togliere alla Chiesa un complesso di sudditanza rispetto a certe culture».

Giovanni Paolo II è stato molto amato anche dai laici nonostante le posizioni forti e conservatrici su temi come aborto, omosessualità, eutanasia...

«La stima di cui godeva anche presso i non credenti era data dall'amore verso l'uomo che traspariva dal suo magistero. Non l'uomo in astratto, ma quello concreto che si incontra per strada. E a quest'uomo si rivolgeva con sincerità, franchezza e grande forza. Come non ricordare il suo grido in Sicilia contro la mafia!. Aveva la statura dell'uomo libero, proteso verso la sua verità».

È stato un grande trascinatore di giovani. Ma come vede oggi il loro rapporto con la Chiesa?

«Per i giovani aveva un fascino particolare forse perchè, con i suoi 25 anni di pontificato, è stato il Papa di un'intera generazione. Ricordo, durante una visita, che una ragazza desiderosa di avvicinarlo sfuggì al servizio d'ordine che reagì immediatamente. Bene lui redarguì le guardie del corpo ed abbracciò quella ragazza. Era una figura autorevole, paterna, sapeva andare al cuore offrendo la via per vivere i principi che trasmetteva. Poi ebbe l'intuizione straordinaria delle Giornate Mondiali della Gioventù. Per Benedetto XVI è stata una successione difficile, ma credo che Ratzinger non abbia deluso. È andato incontro ai giovani con la sua forza che è la parola».

Papa Wojtyla e Padre Pio: due grandi personalità acclamate a furor di popolo.

«Wojtyla adorava Padre Pio, erano persone di preghiera. Quello che li accomunava era l'unione di momenti di privatissima intensità spirituale e momenti di totale comunione con gli altri. Anche in questo entrambi erano "abitati" da Dio, suoi strumenti: San Pio con la Confessione, Giovanni Paolo con la Misericordia».

Che eredità lascia alla Chiesa e al mondo?

«Resta tutto un mondo, anche di fedi diverse, segnato dalla sua presenza. E resta una generazione di giovani che spero voglia trasmettere l'entusiasmo generato da lui ai propri figli. Fare incontrare insomma memoria e novità e consevare il patrimonio di fede che ci ha donato»

martedì 26 aprile 2011

Visite guidate a palazzo vescovile

L’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Piacenza–Bobbio, in collaborazione con la Soprintendenza ai Beni Storici Artistici e Etnoantropologici di Parma e Piacenza, propone, in appendice alle manifestazioni inerenti la XIII Settimana della Cultura, giovedì 28 aprile alle ore 17, una visita guidata ad alcune sale del Palazzo vescovile.

A seguire, dalle ore 17.30, nella Sala delle Colonne di Palazzo Vescovile, si terrà una conversazione sulla pittura del Seicento piacentino con approfondimenti sulla committenza vescovile, su alcuni protagonisti della pittura sacra nella Piacenza del XVII secolo, sull’iconografia dell’Immacolata Concezione di Carlo Cignani (1681), che sarà possibile ammirare nella Cappella Vescovile, e sulle figure di Cignani e Sebastiano Ricci e la loro attività nel ducato farnesiano.

Programma

ore 17

Visita guidata ad alcuni ambienti del Palazzo, a cura di Daniela Costa.

ore 17. 30

Sala delle Colonne di Palazzo Vescovile

Convegno: “Niente avvi di più grazioso…”: Carlo Cignani e la pittura del Seicento a Piacenza.

Intervengono:

Don Giuseppe Lusignani, Vescovi e committenti: Piacenza nel XVII secolo.

Susanna Pighi, Pittura sacra del Seicento a Piacenza: alcuni protagonisti.

Davide Gasparotto, L'Immacolata di Carlo Cignani a Piacenza: storia e iconografia".

Angelo Mazza, Carlo Cignani e Sebastiano Ricci nel ducato farnesiano di Parma e Piacenza.

La Pasqua, notizia più grande della storia umana

Omelia nella Messa di Pasqua

Cattedrale di Piacenza (ore 11)

Carissimi fratelli e carissime sorelle

1. Risuona il grande annuncio della Pasqua: “Cristo Signore è risorto!”. Accogliamo questo annuncio nella sua sorprendente novità: è il cuore della fede cristiana, è la proclamazione centrale del mistero cristiano. Lo accogliamo con la mente disponibile e con il cuore aperto: è la notizia più grande della storia umana. Con la risurrezione di Cristo è entrata nella storia dell'umanità una novità insuperabile. È un nuovo inizio per la nostra storia umana: colui che ha donato la sua vita per noi, è risorto e chiama tutti noi a risorgere a vita nuova nella speranza e nell’amore. Ci lasciamo condurre nel mistero della Pasqua dalla testimonianza dell’apostolo Pietro e dall’esperienza di Maria di Magdala e del discepolo amato.

2. Nella prima lettura ci viene presentato l’annuncio della Pasqua che l’apostolo Pietro rivolge al primo pagano convertito, il centurione romano Cornelio. È il primo discorso pubblico fatto a coloro che non sono giudei. Pietro ripercorre l’intera vicenda terrena di Gesù di Nazaret, affermando che “Dio era con lui”. Gesù è consacrato da Dio in Spirito Santo e svolge la sua missione di liberazione dal male e di guarigione. Però i giudei “lo uccisero appendendolo a una croce”. Ma l’uccisione di Gesù non è la fine della sua vita e della sua missione. Qui ha inizio l’inaudita novità della storia umana: “Ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno”.

Pietro continua il racconto: Dio “volle che si manifestasse (…) a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti”. Insieme agli altri apostoli, Pietro è dunque testimone di quanto accaduto e riceve da Gesù stesso la missione “di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”.

La testimonianza di Pietro è rivolta a tutti gli uomini. Siamo tutti coinvolti nel fatto che Gesù è stato risuscitato da Dio: colui che è stato uomo come noi, è morto appeso alla croce ed è stato sepolto, è risorto dai morti, primizia di noi tutti (cf 1Cor 15,20; Col 1,18), chiamati in lui alla vita eterna. “Dio era con lui”, dice Pietro, e Dio non ha abbandonato il suo Figlio che è passato “beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo”. Colui che si è consegnato ed è venuto a portare agli uomini la luce e la salvezza, non è rimasto prigioniero dell’oscurità del sepolcro e della morte: il Padre non l’ha abbandonato al potere della morte ma lo ha risuscitato. Questo evento di grazia apre a noi la strada della vita, da percorrere qui sulla terra e poi nell’aldilà della morte, verso la vita eterna dischiusa a tutti gli uomini.

3. Anche l’esperienza di Maria di Magdala e del discepolo amato è illuminante. Maria di Magdala non lo sa ancora, ma nel suo recarsi al sepolcro prende avvio “il nuovo inizio”. L’evangelista Giovanni annota che si trattava del “primo giorno della settimana”, richiamando il primo giorno della creazione: la risurrezione di Gesù è la nuova creazione, è l’inizio del giorno senza tramonto. Maria si reca al sepolcro “di mattino, quando era ancora buio”: Anche nel suo cuore c’è ancora buio e tristezza. Ma ciò non le impedisce di recarsi al sepolcro. Quando arriva, “vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro”. Allora, meravigliata e forse spaventata, Maria corre da Pietro per annunciare che la tomba vuota: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro”.

Anche Pietro e Giovanni, il discepolo amato, corrono al sepolcro ed entrano nella tomba vuota. Ma sarà il discepolo amato a vedere e a credere: “vide e credette”. Non si limita a vedere i segni ma, a partire da una tomba vuota e dalla Parola di Dio contenuta nelle Scritture, comincia ad aprirsi alla luce della fede e a fare spazio nel suo cuore alla realtà ancora misteriosa della risurrezione.

4. Carissimi fedeli, con l’annuncio pasquale accogliamo l’invito dell’apostolo Paolo: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù”. La fede in Cristo risorto trasforma la nostra vita: siamo anche noi risorti con lui, strettamente uniti a lui nel battesimo. Il nostro sguardo non può più limitarsi alle cose di tutti i giorni, ma si apre sull’orizzonte di Dio. La luce della Pasqua illumina il nostro cammino, infonde speranza nei nostri cuori: in Cristo la vita ha vinto la morte. La forza rinnovatrice della Pasqua orienti la vita della nostra città e della società intera verso ciò che è grande e bello, degno dell’uomo chiamato alla pienezza della vita in Cristo risorto. Tutti abbiamo bisogno di accogliere l’annuncio pasquale e di viverlo nelle parole di vita, nella fiducia, nell’amicizia, nella vita donata, nell’impegno di pace. Preghiamo perché la fede pasquale cambi il cuore e la mente di tutti e faccia rifiorire la vita, la speranza e l’amore. Amen.

+Gianni Ambrosio

Vescovo di Piacenza-Bobbio

La notte che ricongiunge la terra al cielo

Omelia nella Veglia Pasquale

Cattedrale di Piacenza

Carissimi fratelli e sorelle

1. In questa solenne Veglia accogliamo l’annuncio pasquale: è annuncio di luce e di vita, è annuncio che riempie di gioia il cuore. Celebriamo nello stupore questo grande mistero, proclamiamo la verità di Gesù risorto e vivo e gustiamo la grazia della novità di vita e della salvezza per tutti coloro che si affidano a Lui nella fede.

I riti svolti e le molte letture proclamate chiamano tutto e tutti – dalla natura alla vicenda umana alla storia del popolo di Israele – a partecipare e a gioire del fatto straordinario accaduto in questa notte santa: “questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte risorge dal sepolcro”, questa è “la notte veramente gloriosa che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore”.

Fin dall’inizio, tutto converge verso un unico punto centrale: Gesù Cristo, morto e risorto. E da punto centrale tutto riparte: Cristo risorto è vivo e operante nella storia dell’umanità e in ogni cuore umano che si apre a questa novità unica e insuperabile. Questo evento dell’umanità di Cristo che è resa partecipe della stessa vita divina interessa non solo i testimoni di allora e il popolo di Israele, ma l’intera umanità. Tutti noi siamo interpellati e coinvolti in termini profondi e radicali: da questa evento accaduto a Cristo è scaturita per tutta l’umanità la salvezza. Anche a noi, uniti a Cristo risorto, è data la possibilità di partecipare della santità stessa di Dio e della sua vita eterna.

2. La grazia della vita nuova ci è presentata e donata attraverso i grandi simboli della luce, dell’acqua, del pane.

All’inizio della Veglia è stato benedetto il fuoco nuovo, da cui è stato acceso il grande cero pasquale. Poi dal cero pasquale la luce si è diffusa in tutta l’assemblea. Siamo passati dalle tenebre alla luce e abbiamo pregato dicendo: “Signore, questo cero, offerto in onore del tuo nome per illuminare l’oscurità di questa notte, risplenda di luce che mai si spegne”. È Cristo questa luce che mai si spegne, è “Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai morti fa risplendere sugli uomini la sua luce serena”.

La luce che splende nel Signore risorto brilla anche sui nostri volti e nelle nostre persone. Seguendo Cristo, luce del mondo, “non camminiamo nelle tenebre, ma abbiamo la luce della vita” (cf Gv 8, 12) e diventiamo “figli della luce e figli del giorno” (1Tess 4, 5): il frutto della luce consiste “in ogni bontà, giustizia e verità” (cf Ef 5, 9).

L’altro grande simbolo che ci aiuta ad entrare nel mistero di questa notte è l’acqua: dalle acque delle origini al passaggio delle acque del Mar Rosso, che consentì la libertà del popolo dell’antica alleanza. La potenza di quest’acqua è offerta a noi dal fonte battesimale da cui nasce il nuovo popolo di Dio. Si compie l’annuncio profetico di Ezechiele: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; (…) vi darò un cuore nuovo (…) voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (Ez 36, 25-28).

In questa notte santa undici nostri fratelli e sorelle saranno generati da quest’acqua e dallo Spirito Santo ed entreranno a far parte del popolo dei credenti che loda e serve il Signore. Ci rallegriamo vivamente con loro, ricordando il nostro battesimo. Le parole dell’apostolo Paolo richiamano il legame tra il battesimo e la risurrezione di Cristo: “come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre”, così colui è battezzato in Cristo può “camminare in una vita nuova” (Rom 6, 4).

Il terzo simbolo è quello del pane e il vino. Cristo, nostra Pasqua, si è immolato per noi ed ora, risorto, è vivo e presente in mezzo a noi. In particolare Cristo è presente con il suo Corpo offerto e con il suo Sangue versato mediante i segni eucaristici del pane e del vino. È presente con la sua morte salvifica, come fonte inesauribile di vita nuova ed eterna.

L’eucaristia è la mensa a cui ogni battezzato è invitato ogni ‘domenica’, giorno del Signore risorto, “pasqua settimanale”. Partecipare a questa mensa significa vivere il cuore stesso della nostra fede in Gesù Cristo che si è immolato come “nostra Pasqua”: “è lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, è lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita” (Prefazio).

3. Cari fratelli e sorelle, con i sacramenti pasquali del battesimo e dell’eucaristia siamo introdotti nella nuova storia che ha al suo centro Cristo, luce del mondo, acqua che purifica e dà la vita, pane di vita eterna. La luce e la gioia di questa notte siano sempre presenti in noi, per confessare con la vita che Cristo è risorto ed è il salvatore che ci libera dalla morte e dalla schiavitù del male. Questa luce e questa gioia si diffondano nella Chiesa, nella nostra famiglia, nella società. Senza Cristo risorto, la storia umana è senza luce e senza speranza, prigioniera delle più diverse forme di paura, di egoismo, di odio, di disprezzo dei diritti dei singoli e dei popoli.

Le parole che l’evangelista pone in bocca all’angelo siano accolte da tutti noi e siano comunicate ai fratelli e alle sorelle: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto” (Mt 28, 5-6).

+Gianni Ambrosio

Vescovo di Piacenza-Bobbio

Preti, approdi sicuri in un mare in tempesta

I sacerdoti come un faro di riferimento in un mare in tempesta, consapevoli che sulla barca che beccheggia ci siamo tutti, che occorre ascoltare non la voce del vento bensì quella di Gesù. Lo ricorda il vescovo Gianni Ambrosio nella messa crismale in apertura del Giovedì Santo. E' una delle due occasioni ufficiali dell'anno liturgico in cui il clero si riunisce attorno al suo vescovo (l'altra è la festa del Sacro Cuore) in occasione della benedizione dell'olio degli infermi, dei catecumeni e del crisma. Tra navata centrale e presbiterio sono poco più di 150, tra curati, parroci, monsignori, vicari episcopali, vescovo compreso. Tutti coloro che sono riusciti ad intervenire. Oltre a monsignor Ambrosio c'è il vescovo piacentino Giorgio Corbellini (presta il suo servizio in Vaticano). Per la prima volta nel Giovedì Santo, alla sinistra di Ambrosio, il nuovo vicario generale, monsignor Giuseppe Illica.
«Cari confratelli - esordisce Ambrosio - anche noi, come tutti coloro che erano nella sinagoga, fissiamo il nostro sguardo su Gesù e rendiamo grazie dal profondo del nostro cuore mentre facciamo memoria del dies natalis del nostro sacerdozio. Siamo stati chiamati a entrare in una comunione radicale con Cristo, a partecipare alla sua stessa missione. Anche su di noi è sceso lo Spirito: lodiamo e ringraziamo perché, grazie allo Spirito, Dio ha compiuto in noi grandi cose». Ma anche il sacerdote non è immune dal mondo: «Ma subito, cari confratelli, dobbiamo tendere la mano a Gesù Cristo e con l'apostolo Pietro gridare: "Signore, salvami" (Mt 14, 30). Anche per noi la traversata del mare è spesso difficile. Anche per noi è comodo e spontaneo prestare più ascolto alla forza del vento che non alla voce di Gesù che ci chiama dicendo: "Vieni" (Mt 14, 29) ». «L'icona evangelica del nostro secondo anno della Missione Popolare - evidenzia il presule -interpella intimamente tutti noi sacerdoti: in quella barca sballottata dal vento, siamo tutti noi, nessuno escluso, c'è tutto il nostro presbiterio. Lì, nell'avventura della traversata, sta l'appassionante missione della Chiesa che continua la singolare missione di Gesù. È straordinaria la grazia ricevuta, ma noi sappiamo pure che le nostre mani sono deboli e la nostra fede è sempre poca». «Fissiamo gli occhi su Cristo - esorta Ambrosio - e tendiamo a lui la nostra mano. E soprattutto aggrappiamoci alla sua mano. Abbiamo tutti bisogno di sentirci dire: "Coraggio, sono io, non abbiate paura" (Mt 14, 27). Solo così viviamo la chiamata e la consacrazione». «Solo così - esordisce - siamo veramente presbiteri, uomini animati dalla sapienza di Dio, uomini di unità e di comunione in mezzo alle tante divisioni, uomini di speranza in un contesto triste e rassegnato».
Come «promessa e speranza» del clero piacentino ieri i seminaristi, Paolo Capra, Matteo di Paola, Fabio Galeazzi, Roberto Ponzini sono stati ufficialmente ammessi tra i candidati al presbiterato.
Federico Frighi


22/04/2011 libertà


mercoledì 20 aprile 2011

Migrante per diventare suora

Immigrati, profughi, extracomunitari, chiamiamoli come vogliamo ma in un periodo di arrivi importanti come in questi mesi ecco una storia di una giovane donna che dall'Africa è giunta in Italia, oggi a Piacenza, spinta dalla vocazione e desiderosa di diventare suora.

Il Tar di Parma le dà ragione: potrà rimanere in Italia con un permesso di soggiorno per motivi religiosi. Protagonista, suo malgrado, della vicenda giudiziaria una giovane aspirante suora proveniente da un paese africano, già in Italia da diverso tempo, oggi approdata a Piacenza dove, se il Signore vorrà, potrà finalmente prendere i voti. Omettiamo nomi e congregazioni per espressa richiesta degli interessati e trattandosi di una vicenda che tocca aspetti estremamente personali. Tali sono le motivazioni vocazionali che hanno portato la consorella africana a lasciare la congregazione d'origine e a passare in un'altra, quella piacentina, dove è stata accolta a braccia aperte e dove, nei prossimi mesi, dovrebbe prendere i voti. Tutto nasce nel 2009 quando l'aspirante religiosa decide di lasciare la sua congregazione. Le responsabili del convento segnalavano il fatto alla questura di competenza la quale revocava il permesso di soggiorno per motivi religiosi per essersi allontanata arbitrariamente dal monastero e per essere quindi venute a mancare le condizioni che hanno determinato il rilascio del permesso.
In realtà la giovane africana aveva semplicemente espresso il desiderio di lasciare il monastero per entrare in una congregazione religiosa, quella piacentina appunto, più congeniale alle sue aspirazioni vocazionali.
La questura di Piacenza, a quel punto, dichiarava inammissibile la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno presentata dalle autorità ecclesiastiche locali in quanto relativa ad un permesso già revocato da una questura precedente. Un procedimento dovuto per legge in presenza di una denuncia, quella della congregazione d'origine dell'aspirante suora, che non è mai stata ritirata.
Da qui è partito il ricorso al Tribunale amministrativo regionale di Parma che, con sentenza decisa lo scorso 23 marzo, accoglieva il ricorso ed annullava gli effetti degli atti impugnati.
Tutto è bene quel che finisce bene? Sembra di sì anche se le suore della congregazione piacentina ci vanno caute. «Prima aspettiamo che arrivi il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi religiosi - dicono - poi saremo tranquille e potremo raccontare questa storia sperando che possa diventare un precedente». Casi come questi, con il calo drastico delle vocazioni europee, pare siano numerosi nelle congregazioni italiane dove le suore, per chi le ha, rappresentano una risorsa preziosa e insostituibile.
Federico Frighi


09/04/2011 Libertà

lunedì 18 aprile 2011

Il campanile, coordinate di una comunità

E' stata recentemente completata l'opera di restauro del campanile di San Pietro. In occasione del convegno sui lavori, l'architetto Marcello Spigaroli tenne una relazione sul significato dei campanili. La riproponiamo per l'occasione - simbolo della Pasqua sono, tra l'altro, le campane a festa - ringraziando l'autore per avercela messa a disposizione.

La campana come strumento di richiamo per funzioni, particolari ricorrenze od eventi riguardanti la comunità viene introdotta in Europa dall'Impero romano d'Oriente poco prima dell'VIII-IX secolo d.C. Praticamente contemporanea è la concezione della particolare struttura a sviluppo verticale, associata all’edificio religioso, che chiamiamo torre campanaria o campanile.

Le sue radici storiche del campanile sono facilmente individuate. Dalla torre di difesa e di avvistamento, attraverso la torre scalare paleocristiana (che si prolungherà nelle torri scalari cistercensi), alla torre campanaria vera e propria: i primi esempi sono a base circolare con copertura conica; successivamente, prenderà il sopravvento in tutta Europa la torre a base quadrata con copertura piramidale.

Campanile e spazio urbano

La cultura cristiana medievale, erede della cultura classica, comprende perfettamente che il possesso dello spazio urbano è fondamentale per il governo della comunità cittadina e che tale possesso passa necessariamente attraverso edifici ad alta valenza funzionale e simbolica nei punti nevralgici dell’organismo-città (nei nodi della struttura urbana). Questi nodi sono le piazze, le porte e i punti d’intersezione dei percorsi principali all’interno e all’esterno delle mura. Gli spazi pubblici in genere.

La visibilità di presenze monumentali strategicamente collocate (parliamo essenzialmente di chiese, che appartengono a enti religiosi differenti, con le loro pertinenze: mercati, magazzini, xenodochi, dimore e servizi annessi) diviene un valore fondamentale ai fini della riconoscibilità dei luoghi stessi, tanto più in una città – quella medievale – nella quale la rete dei percorsi si fonda non più su assi rettilinei, come nella città antica, bensì su tracciati ad andamento naturale, curviforme; non più paralleli o ortogonali, ma irregolarmente radiali o concentrici.

La collocazione dei campanili lungo il fianco della chiesa (o sull’edificio stesso) è perciò in funzione della sua visibilità dai percorsi convergenti sulla chiesa stessa. Dunque il presidio del nodo di strade da parte del complesso ecclesiastico è sancito dal campanile, che occupa il punto d’intersezione dei traguardi visivi, incardinandolo mediante l’asse verticale di congiunzione cielo-terra. Per l’esattezza, cielo-terra-mondo sotterraneo. (Nel caso di copertura piramidale, inoltre, se la chiesa è orientata, le quattro facce della piramide coincidono con le direzioni cardinali: da qui anche la possibilità di stabilire la direzione dei venti … eccetera)

Insomma, a queste condizioni lo spazio davvero può farsi luogo e l’edificio sacro, strutturato sulle forme ideali e perfette della geometria, può divenire momento ordinatore del contesto insediativo che ad esso fa riferimento. L’architettura sacra genera la metamorfosi dello spazio, non soltanto per come è strutturata al proprio interno o per il disegno in sé delle sue forme esteriori, ma anche per il modo in cui queste si pongono nella dimensione urbana e territoriale, producendo ordine in essa. L’architettura dello spazio sacro è il logos che cosmizza lo spazio dell’insediamento umano.

E questa è la prima, formidabile implicazione simbolica del campanile – considerato alla scala urbana – che, nel momento in cui si dà come polo ordinatore di un comparto insediativo (tale è il borgo medievale), diviene axis mundi di questo microcosmo.

Al ruolo coordinata spaziale va peraltro associato anche quello del campanile che, attraverso il suono delle campane che associa le fasi del giorno e dell’anno alle funzioni liturgiche, diviene strumento misuratore dei tempi di territorio e città:

- i ritmi di quella che Braudel ha definito “storia dei tempi lunghi” (i tempi dell’universo agricolo extraurbano) del procedere ciclico e immutabile.

- i tempi della storia lineare urbana, con i suoi eventi ordinari e straordinari.

In definitiva, il campanile è di fatto lo strumento attraverso il quale il cristianesimo medievale (e quindi il potere ecclesiastico che lo rappresenta) governa materialmente – e strategicamente - le coordinate di spazio e tempo della comunità.

Architettura del campanile

Ragioniamo adesso della sua architettura. Partiamo dall’edificio-chiesa nel suo insieme. L’edificio sacro e le sue parti si fanno immagine di significati nei quali non è esagerato affermare che si concentra, ogni volta, una visio mundi, una concezione dell’universo, tradotta nelle forme dello spazio pensato e costruito.

La sua architettura si viene a comporre di tante architetture, organicamente connesse tra loro (facciata, transetti, volumi absidali tiburio, tamburo e cupola, campanile …) e ognuna di esse, a sua volta, si articola in una combinazione di elementi architettonicamente definiti: pensiamo alla facciata, che applica alla struttura basilicale la columnatio dei frontescena del teatro antico coniugata con l’idea di domus, dove ritroviamo la tripartizione classica basamento-elevazione-coronamento. Ogni parte con una sua precisa compiutezza architettonica; ma a questa, altre architetture minori possono aggiungersi: protiri, portali, il nartece …

Questo è il modo in cui la cultura medievale porta l’edificio religioso a divenire paradigma architettonico, silloge delle più significative forme costruite e punto di riferimento per tutto ciò che ha attinenza con lo spazio progettato. E ciò, sia sotto il profilo strettamente edilizio che sotto quello relativo alla scala urbana.

Se il controllo della forma urbis si ottiene presidiandone i nodi, la sua tenuta si garantisce attraverso la forza espressiva che l’edificio monumentale possiede.

E in tutto questo, il campanile? Si potrebbe pensare che la funzione del campanile sia subordinata a quella della facciata. In realtà non è così. Segno verticale per eccellenza, la torre campanaria non è solo una componente ausiliare della chiesa. Facciata e campanile si alternano e si integrano nel gioco sapiente volto al governo dello spazio urbano attraverso il presidio dei suoi nodi. Ma nella città del medioevo è soprattutto il campanile a svolgere il ruolo di traguardo prospettico.

E allora vediamo questa costruzione evolvere rispetto agli essenziali volumi originari, e acquisire, al pari della facciata, una precisa articolazione nella quale ritroviamo - in successione verticale – la torre basamentale, che porta la cella campanaria, sulla quale s’imposta l’elemento sommitale di vertice. Il coronamento.

Del quale c’interessa particolarmente ragionare perché….

tutto ciò che si va a porre sopra la cella campanaria va oltre l’esigenza funzionale di portare le campane e di sopraelevarle perché il suono si diffonda.

Appartiene semmai alla necessità di emergere visivamente; ma una serie di costanti dimostra che questa necessità non è disgiunta da un’altra: quella di protendersi verso l’alto – verso il cielo – utilizzando assieme piramide, cono e ottagono, in alternanza o in combinazione tra loro

Piramide

Cono - copricapo a punta

Con l’affermarsi del cristianesimo, la religione si separa dalla magia, alla quale vengono legate le scienze astronomico/astrologiche. Il copricapo a punta viene cosi ad assumere valori sia positivi che negativi:

-Positivi se legati alle funzioni rituali delle autorità religiose.

-Negativi se attribuito a persone e figure che si identificano con religioni non cristiane (l’ebreo dell’iconografia medievale), con l’eresia, con la magia.

Il campanile, come “axis mundi”, è di per sé congiunzione fra terra e cielo.

Ad esso è affidata la funzione di connettersi con l’insieme dei fenomeni celesti, sia visibili (fulmini, venti, moto degli astri), sia invisibili perché soprannaturali.

La copertura conica protesa verso l’alto è un vero è proprio “cappello a punta”, copricapo magico rituale che rimanda alla dimensione astronomico/astrologica.

Ottagono

Nell’ottica mistica, l’ottagono (ottenuto mediante la rotazione del quadrato) e le forme solide che ne derivano sono di per sé figure di mediazione tra cerchio e quadrato e pertanto di connessione tra cielo e terra. Nel punto in cui si collocano si stabilisce il passaggio dell’axis mundi e la congiunzione tra micro e macrocosmo.

Questa è la ragione per cui molto spesso, nelle architetture religiose, laddove è presente l’ottagono (tiburio, torre sull’asse centrale, lanterna sopra la cupola) può non esserlo il campanile. Per garantire la visibilità, s’interviene sul piano dimensionale e della scelta dei materiali quanto su quello formale e simbolico.

Nel suo libro La fine del mondo, il grande antropologo e meridionalista Ernesto de Martino racconta di una volta in Calabria quando, cercando una strada, egli e i suoi collaboratori fecero salire in auto un anziano pastore, perché indicasse loro la giusta direzione da seguire, promettendogli di riportarlo poi al posto di partenza. L'uomo salì in auto pieno di diffidenza, che si trasformò via via in una vera e propria angoscia, non appena dalla visuale del finestrino sparì alla vista il campanile di Marcellinara, il suo paese. Il campanile rappresentava per l'uomo il punto di riferimento del suo circoscritto spazio domestico, senza il quale egli si sentiva realmente spaesato. Quando lo riportarono indietro in fretta l'uomo stava penosamente sporto fuori dal finestrino, scrutando l'orizzonte per veder riapparire il campanile. Solo quando lo rivide, il suo viso finalmente si riappacifica.

“Che cos’è, in fondo, il “campanile di Marcellinara” di demartiniana memoria se non un “luogo comune”, baluardo contro le apocalissi del singolo così come contro quelle della comunità, sparito il quale dall’orizzonte la pena del “non esserci” prevale sulla presenza condannando all’angoscia irrelata? Che cos’è quel campanile se non, in ultima istanza, una rappresentazione, un’icona del gruppo, del luogo e dello stesso sé, “axis mundi” attorno al quale organizzare lo spazio e il tempo, gestire la propria e l’altrui esistenza, decidere chi è forestiero e chi non lo è?” (Letizia Bindi, Bandiere, antenne, campanili. Comunità immaginate nello specchio dei media, Melteni ed., Roma, 2005).