lunedì 9 novembre 2009

Conferenza Episcopale Italiana

Conferenza Episcopale Italiana
60a ASSEMBLEA GENERALE
Assisi, 9 - 12 novembre 2009

PROLUSIONE
DEL CARDINALE PRESIDENTE


La specificità di questo incontro mi induce a proporre una riflessione
di avvio che probabilmente non segue il ritmo consueto, per piegarsi
maggiormente ai temi che attendono il nostro esame. Spero con ciò di
rendermi utile a quel comune compito del discernimento cristiano che è
condizione per poter proficuamente affrontare le questioni inerenti
alla vita e alla missione della Chiesa pellegrina in Italia.

1. Una certa risonanza ha avuto nelle settimane scorse, ma assai di
più ne avrebbe meritato, l'annuncio choccante che sette nostri
fratelli cristiani sono stati orribilmente uccisi nel Sudan
meridionale in una macabra parodia della crocifissione. Erano giovani
dai quindici ai vent'anni, e sono stati strappati alle loro famiglie
mentre pregavano in chiesa, il che documenta una volta di più la
drammatica situazione di quella regione alle prese con una
recrudescenza di instabilità sociale nella quale si innestano i raid
condotti da ribelli armati provenienti da Paesi vicini. Il tipo di
supplizio non può non impressionare, a duemila anni di distanza da
quello impareggiabilmente patito dal Signore Gesù, vittima innocente
per i peccati del mondo. La notizia ha comprensibilmente impressionato
l'assemblea speciale del secondo Sinodo per l'Africa riunitasi in
Vaticano dal 4 al 25 ottobre scorso, e ha non poco contribuito a
collegare nei nostri pensieri quell'incontro all'epopea apostolica,
rafforzando il carattere di profezia che lo stesso incontro è andato
svelando agli occhi dell'intera comunità ecclesiale. Davvero anche
il nostro è tempo di martiri, per quanto ai popoli della libertà
talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile.
Sappiamo per altro che il sacrificio della vita è ogni anno richiesto
a un numero elevato di operai del Vangelo. Nel suo Messaggio per la
recente Giornata Missionaria mondiale, Benedetto XVI spiegava: «La
Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo,
perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni
della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza
filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa
umanità» (n. 4). Ed è per questo motivo che, guardando negli occhi
quanti incontra sul proprio cammino, la Chiesa sa di non agire «per
estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a
tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi – aggiungeva – non chiediamo
altro che metterci al servizio dell'umanità, specialmente di quella
più sofferente ed emarginata» (cfr ib., introduzione).
Non pochi insegnamenti ci sono pervenuti dalla cronache di quella
assise nei termini sia di una innegabile freschezza evangelica sia di
intraprendenza di strade nuove, in particolare su quella frontiera
della riconciliazione che era uno dei poli tematici del sinodo. Per
ragioni storiche come per i drammi politici recenti, l'Africa ha
bisogno di ritrovarsi attorno al focolare del perdono e del
rinnovamento, come condizione indispensabile di ogni dinamismo aperto
al futuro. E le testimonianze offerte all'assemblea sono state
effettivamente impressionanti: esse hanno, com'è noto, le migliori
interpreti nelle donne d'Africa, «spina dorsale» del continente su
cui maggiormente pesano i passi dell'esodo dai conflitti, come dalla
miseria di cui i conflitti sono portatori. Una riconciliazione che –
è stato detto da una testimone – «non consista tanto nel rimettere
insieme persone o gruppi, quanto nel rimettere tutti in contatto con
l'amore e lasciare che avvenga la guarigione interiore». Su questo
punto è avvenuta, pare a me, la saldatura più alta tra quelle
esistenze redente e l'annuncio del Vangelo che non è «una filosofia
[…] ma un modo di vivere, […] è carità, è amore. Solo così
diventiamo cristiani: se la fede si trasforma in carità, se è
carità» (Benedetto XVI, Meditazione all'Ora Terza, 5 ottobre 2009).

2. Per i cittadini e i Paesi del Nord del mondo, il recente Sinodo
sull'Africa doveva essere l'occasione propizia per una
disinteressata disamina delle proprie responsabilità. Così ci saremmo
potuti scuotere dall'apatia con cui generalmente si guarda a quel
grande Continente che a troppi fa comodo mantenere in una indegna
subalternità. Chi non sente oggi il desiderio di uscire finalmente dai
luoghi comuni infarciti di stucchevole pietismo? Parole forti infatti
sono state pronunciate sui «tossici rifiuti spirituali» che le
regioni ricche della terra scaricano sulle povere, sui conflitti
armati dovuti, più che al tribalismo, all'ingordigia delle
multinazionali protese ad uno sfruttamento in esclusiva delle risorse
strategiche, e su certo colonialismo «finito sul piano politico» ma
«mai del tutto terminato» sul piano culturale ed economico. Parole
forti, dicevo, che forse hanno avuto un ascolto debole, anche per il
rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a
questo appuntamento. Che andava e va tuttavia accostato con
l'atteggiamento di simpatia di cui si è fatto ad esempio interprete
il Papa quando, all'avvio dei lavori, ha parlato dell'Africa come
della terra «depositaria di un tesoro inestimabile per il mondo
intero: il suo profondo senso di Dio». Un tesoro da preservare
rispetto al materialismo pratico che, combinato con il pensiero
relativista e nichilista, costituisce la pericolosa patologia di cui è
prodigo l'Occidente. Certo, l'Africa rappresenta un «polmone
spirituale» per «un'umanità in crisi di fede e di speranza». La
forza straordinaria della mentalità africana è di essere, con la sua
prorompente spiritualità popolare, la sua istintiva fede nel Dio
creatore, la sua sbalorditiva attitudine religiosa, una costante
provocazione per tutti i sazi e i distratti del mondo cosiddetto
sviluppato. E se sugli africani pesa il compito – sono parole di Papa
Benedetto – di «razionalizzare la fede» cercando di far emergere
una riflessione culturale molto spesso sommersa e sopita, c'è da
augurarsi che essi stessi arricchiscano la loro coscienza critica,
indispensabile per uscire dalle situazioni di corruzione e di degrado
che una spesso esosa classe dirigente, magari alleata con le potenze
straniere, sta loro infliggendo.
La mancanza di cibo continua ad essere il flagello principale
dell'Africa, mentre raggiungere la sicurezza alimentare resta
l'obiettivo primario, specialmente in tempi di crisi economica. «La
Chiesa si impegna – ha affermato il Papa al momento del congedo dei
Padri sinodali – anche ad operare, con ogni mezzo disponibile,
perché a nessun africano manchi il pane quotidiano» (Omelia per la
Conclusione della II Assemblea speciale per l'Africa, 25 ottobre
2009). Non è un caso che proprio quello della sicurezza alimentare sia
il tema della Giornata mondiale dell'Alimentazione in calendario per
il prossimo 16 novembre, giorno in cui Benedetto XVI si recherà a far
visita alla sede della FAO, in Roma, dove inaugurerà un vertice
mondiale dei capi di Stato e di governo, e dove si è fatto precedere
da un Messaggio in cui avverte che l'«accesso al cibo», prima di
essere un «bisogno elementare», è «diritto fondamentale delle
persone e dei popoli». Citando la Caritas in veritate, il Santo Padre
segnala come il dramma della fame potrà essere superato solo
«eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo
sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in
infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in
organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche
agricole appropriate, capaci di utilizzare al meglio le risorse umane,
naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello
locale» (n. 27). Dal punto di vista scientifico ormai è assodato che
il fenomeno della fame non dipende tanto dalla scarsità materiale
delle risorse quanto da fattori sociali e istituzionali, ai quali
occorre volersi applicare senza ulteriori esitazioni. Nell'arco di
alcuni decenni bisognerà saper procurare il 70 per cento di cibo in
più se si vuole non far trovare la credenza vuota quando la
popolazione mondiale sfiorerà – a metà del secolo – i nove
miliardi di persone. Ricordiamo con il Papa che «la via solidaristica
allo sviluppo dei popoli» è di per sé non una complicazione ma «un
progetto di soluzione della crisi globale in atto» (ib.), dunque un
traguardo perseguibile dalla volontà politica dei cittadini e dei
governi. «La globalizzazione – ha aggiunto Benedetto XVI domenica 25
ottobre – è una realtà umana e come tale è modificabile secondo
l'una o l'altra impostazione culturale» (Omelia cit.). Dunque, non
è eticamente autorizzato alcun atteggiamento fatalista.
Il nostro Paese, con la sua esposizione geografica, quasi a ponte tra
Nord e Sud del mondo, è chiamato a rinvigorire la propria tradizionale
apertura ai popoli africani, aiutandoli anzitutto a promuovere il loro
sviluppo interno, e trovando le formule più adeguate per un
partenariato in grado di onorare la nostra e altrui dignità. Dal punto
di vista etico-culturale desideriamo che i nostri cristiani si sentano
cittadini del mondo, corresponsabili della sorte degli altri. In
questo senso, ai media che hanno vita dalle nostre comunità è chiesto
di continuare a svolgere un importante ruolo di informazione e quando
serve di contro-informazione. A livello ecclesiale, il dinamismo ad
gentes resterà un dato qualificante l'intera nostra pastorale, una
visione di Chiesa che si traguarda sempre con gli altri, e mai senza
di loro. Quella che ci attende insomma è una missionarietà realmente
più consapevole. Tale peraltro è l'ansia genuina che sentiamo
premere nel cuore (cfr Benedetto XVI, Saluto all'Angelus, 18 ottobre
2009), un'ansia che scaturisce non da insoddisfazione ma dalla gioia:
«Essa – anche senza volerlo – possiede una forza missionaria.
Suscita infatti negli uomini la domanda se non si trovi forse
veramente qui la via, se questa gioia non guidi forse effettivamente
sulle tracce di Dio stesso» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione
Eucaristica con il circolo degli ex-alunni del Santo Padre, Castel
Gandolfo, 30 agosto 2009).

3. La chiave missionaria mi pare la più indicata anche per comprendere
l'iniziativa che nelle ultime settimane ha preso configurazione nei
riguardi dei fratelli – chierici e fedeli – anglicani che da tempo
chiedevano di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica.
Allorché si era trattato di impostare correttamente la questione del
reintegro nella comunione ecclesiale dei vescovi lefebvriani, il Papa
precisò: «Il vero problema, in questo momento della storia, è che
Dio sparisce dall'orizzonte degli uomini e con lo spegnersi della
luce proveniente da Dio l'umanità viene colta dalla mancanza di
orientamenti, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di
più» (Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica, 10
marzo 2009). Ebbene, per le modalità in cui è maturata ed è stata
anche annunciata l'iniziativa oggi riguardante gli anglicani, e per
la sapienza che complessivamente la ispira, non possiamo non vedervi
riflessa l'impronta dell'attuale Pontefice, indomito e dolce,
coraggioso e illuminato. L'aver disposto, con innovazione anche
canonica, che siano istituiti degli appositi Ordinariati personali
così che quanti entrano nella piena comunione cattolica, accettando
dunque anche il ministero petrino come elemento voluto da Cristo,
conservino nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale
e liturgico, appare effettivamente una scelta «ragionevole» per
andare incontro «in modo unitario ed equo», cioè equilibrato, alle
richieste pervenute. Vediamo qui applicato il principio paolino: «Un
solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5), chiariva il
cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede; la nostra comunione lungi dall'essere minacciata, viene
come «rafforzata da simili diversità legittime, e siamo pertanto
felici che questi uomini e donne offrano il loro contributo
particolare alla nostra comune vita di fede». In questo senso si
inquadrano le novità connesse a tale decisione che, è già stato
autorevolmente affermato e tutto lascia prevedere, non comprometterà
il prosieguo del dialogo interconfessionale. Tutt'altro, dunque, che
una decisione scaturita da un indebolimento, ma piuttosto la felice
applicazione di quanto Papa Benedetto chiedeva nella citata Lettera ai
Vescovi cattolici: perché mai «non dovrebbe la grande Chiesa
permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo
respiro che possiede?». Diciamo che, nella circostanza data, c'è
qualcosa di illuminante circa l'effettiva volontà («impegno
primario») della Sede Apostolica – volontà su cui taluno
ciclicamente dubita – di operare nel senso della «purificazione
della memoria», lavorando «senza risparmio di energie alla
ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di
Cristo» (Benedetto XVI, Primo Messaggio ai Cardinali elettori in
Cappella Sistina, 20 aprile 2005). Non ci resta dunque che ringraziare
il Santo Padre per l'iniziativa intrapresa, che – ne siamo certi
– non mancherà di produrre frutti positivi.
E grazie vogliamo dirgli per la visita che proprio ieri ha compiuto a
Brescia, terra natale di Paolo VI, e in particolare per la visione di
Chiesa, «povera e libera» che ha voluto offrirci. D'altra parte,
non si condensa forse nell'amore alla Chiesa l'eredità più
significativa del grande Pontefice bresciano? «Come non vedere –
chiosava Benedetto XVI – che la questione della Chiesa, della sua
necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo,
rimane anche oggi assolutamente centrale?» (Omelia in Piazza Paolo VI,
Brescia, 8 novembre 2009).

4. La stessa ermeneutica della missione ci aiuta a collocare nella
prospettiva più consona l'Anno Sacerdotale che ormai ferve nelle
nostre Chiese. Il sacerdote di questo inizio del terzo millennio
cristiano è, nella sua identità più profonda, uguale al sacerdote di
sempre, quello scaturito dal Cenacolo, ossia la ripresentazione
sacramentale di Gesù sacerdote, il segno visibile che Cristo ha
lasciato di se stesso come capo e come buon pastore, che dà la vita
per le sue pecore (cfr Gv 10, 11). La meditazione sulla figura del
Santo Curato d'Ars ci fornisce gli elementi per capire che essa è
intagliata nella sostanza viva del sacerdozio cattolico, quella che
non passa mai di moda, non deperisce né sbiadisce, non invecchia
perché previene i tempi, appartenendo a tutti i tempi. E tuttavia ogni
epoca ha in qualche modo il diritto di caricare la figura del prete di
attese specifiche. E allora diremo che, nella società contemporanea,
il sacerdote è chiamato ad essere, più di sempre, uomo dello spirito,
ossia l'uomo che si affida anzitutto non alla ricerca di forme
pastorali meglio adeguate, o a qualche raffinata scienza accademica, o
ad un'organizzazione efficiente del tempo, ma ad uno scavo, ad un
approfondimento inesausto, ad un'adesione interiore e amata
all'essenziale della propria missione: se dovesse mancare, anche le
metodiche più raffinate resterebbero inefficaci. Il sacerdote deve
trovare la sorgente della santità nell'oggetto del suo sacerdozio,
nella carità pastorale di cui la sua missione è come impregnata.
Allora non cercherà evasioni, né cercherà compensazioni, ma sarà
pago della missione che incombe sulla sua anima, e la farà fiorire
nella sua personalità. E in questo processo di identificazione tra
l'evento interiore e i modi esteriori, egli diventa l'uomo dello
spirito, che vince sulle costrizioni della materia. «La grande
sventura di noi parroci – diceva Giovanni Maria Vianney – è che
l'anima si intorpidisce». Ogni vero prete non si tira indietro
rispetto alla missione, e questo – a ben guardare – è tipico della
figura sacerdotale che nei secoli ha preso forma nel nostro Paese. Sia
che stiano nel tempio, sia che visitino le famiglie – specialmente
nella benedizione annuale - sia che animino le attività pastorali, i
nostri sono sacerdoti che si sentono mandati a tutti, destinati a
tutti, anche ai non frequentanti, anche a coloro che sono tiepidi o
freddi rispetto all'appartenenza religiosa, e per questo loro slancio
devono sapere di essere da noi Vescovi ringraziati, sostenuti,
ammirati. Nel testo indirizzato ad ogni sacerdote all'inizio di
questo anno speciale, Benedetto XVI ricorda come il Santo Curato
d'Ars, che pure si poteva intendere in un certo qual senso trasferito
di abitazione nella sua chiesa, era però capace di «abitare
attivamente tutto il territorio della sua parrocchia» (Lettera per
l'Anno sacerdotale, 16 giugno 2009). Direi che qui c'è un tratto
caratteristico del modello – se l'espressione può passare – del
sacerdozio pastorale, del prete cioè che considera propria una
missione coestesa a tutto il territorio a lui affidato. Non è l'uomo
consacrato che semplicemente custodisce la sacralità del tempio, e
colà attende che il popolo arrivi secondo rigidi orari, pur se proprio
lì esercita un ruolo unico e indispensabile; egli è l'uomo
conquistato da Dio per accompagnare e magari sorprendere gli abitanti
del suo territorio là dove vivono, per andarli a trovare, a cercare, a
scovare. In questo è, ad un titolo speciale, immagine di quel Padre
che non si dà pace finché non fa sentire ciascuno dei suoi figli
amati e desiderati, amati e rincorsi, amati e infine ritrovati. Essere
prete è la vocazione di chi sta accanto alla propria gente come
testimone di misericordia. Senza la percezione della divina
misericordia, infatti, gli uomini di oggi non sopportano la verità.
Per questo Cristo vuole la Chiesa maestra e madre! In un mondo
dell'efficienza e privo di misericordia, ciascuno tende ad auto-
giustificarsi e magari ad accusare gli altri. Fino a quando non scopre
di essere già raccolto nel palmo della mano di Dio, e tenuto stretto
al suo cuore divino. Già, il sacerdote è l'uomo del cuore, ne
conosce gli abissi, e così diventa lo specialista di Dio. Sa cioè
coltivare «quella "scienza dell'amore" che si apprende solo nel
"cuore a cuore" con Cristo. […] Proprio per questo noi sacerdoti
non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell'amore che è il suo
Cuore trafitto sulla croce. E solo così saremo in grado di cooperare
efficacemente al misterioso "disegno del Padre" che consiste nel
"fare di Cristo il cuore del mondo"» (Benedetto XVI, Omelia per
l'apertura dell'Anno Sacerdotale, 19 giugno 2009).

5. Una delle situazioni nelle quali un sacerdote in cura d'anime
maggiormente vive l'afflato missionario è quella che riguarda la
morte di qualche componente la comunità cristiana, evento ricorrente
nella dinamica di una vita parrocchiale. Non a caso noi Vescovi stiamo
sottolineando la circostanza della nuova edizione italiana del Rito
delle Esequie con l'intendimento di volerne esplicitare le
virtualità di annuncio rispetto alla novità portata da Cristo Gesù
dinanzi al mistero della morte (cfr Gv 11,23-26). Questo mese di
novembre, poi, è contrassegnato proprio dalla memoria per i fedeli
defunti. L'Ottavario dei Morti, connesso con la Commemorazione dei
Fedeli defunti, in calendario per il giorno 2 novembre, all'indomani
cioè della Solennità di Tutti i Santi, resiste come formula
tutt'altro che superata non solo per una preghiera più intensa, ma
anche per una catechesi meglio centrata sull'esito finale della vita
umana. Mi pare infatti che oggi sia diffusa la consapevolezza
dell'urgenza di aiutare i nostri fratelli a pensare in maniera meno
evasiva alla prospettiva dell'appuntamento con la morte come di una
tappa non estirpabile dall'orizzonte concreto, comunque incombente
sulla vita di ciascuno. E come la frequentazione di ambienti
ospedalieri potrebbe talora rivelarsi quanto di più educativo per
interiorizzare la fragilità connessa alla vita, così la capacità di
vivere l'appuntamento con «sorella morte», allorché essa si
materializza di fianco a noi, è un segno di intelligenza e un modo
prezioso per imparare a vivere davvero. Capita sovente di trovarci a
riflettere sulla tendenza a considerare privatisticamente anche
l'esperienza della morte. L'individualismo, che è cifra marcata di
questa post-modernità, raggiunge ai limiti della vita una delle sue
esasperazioni più impressionanti. Anche quando la maschera della morte
scende sul volto dei propri cari, dunque si fa più prossima e meno
facilmente evitabile, anche allora non di rado si tende a rimuovere
l'evento, a scantonarlo, a scongiurare ogni coinvolgimento. Il
fenomeno determina la pratica sparizione dell'esperienza della morte
e di ogni suo simulacro dalla scena della vita. Va da sé che la
comunità cristiana non possa avallare una tale cultura così irreale:
nascondere la morte e dimenticare l'anima non rende più allegra la
vita, in genere la rende solo più superficiale. Contribuire, per la
nostra parte, a mimetizzare la morte, affinché il suo pensiero non
turbi, significa favorire anche pastoralmente un approccio scandito
per lo più dalla fretta e dal formalismo. Invece, una perdita
drammatica può essere l'occasione per lasciar emergere
interrogativi, per costringere i protagonisti ad addentrarsi nei
meandri scomodi del mistero, a sperimentare la crisi delle proprie
certezze e delle proprie esuberanze, a meditare sulla possibilità di
dare un'impronta diversa al resto della propria esistenza. Certo,
occorre la prontezza e l'abilità di saper porre rimedio alle
immagini imprecise con cui talora viene immaginato Dio, di raddrizzare
le imputazioni di cui lo si carica a spiegazione dell'imponderabile.
Sono i momenti nei quali ci si rende conto di una certa insufficienza
catechistica, e anche dell'influenza di talune visioni spurie o
paganeggianti. L'annuncio del Dio vero, amante della vita, che non fa
scherzi macabri, il richiamo che con la morte la vita non è tolta ma
trasformata, e che chi è vocato all'altra sponda non ci viene
sottratto ma resta a noi più vicino di prima e ci attende: ecco ciò
di cui c'è bisogno, in una cultura che progressivamente sembra
slittare verso forme post-cristiane: «Dio non ha creato la morte e non
gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per
l'esistenza: le creature del mondo sono sane, in esse non c'è il
veleno della morte» (Sap 1,13). Ma questo implica pure che nella
pastorale ordinaria noi riusciamo a far passare l'idea che
comportarsi bene non è di per sé una garanzia contro il dolore e la
morte. Gesù ha imparato «l'obbedienza dalle cose che patì e, reso
perfetto» (Eb 5,8-9) ha attuato un'opera di redenzione in forza
della quale ogni sofferenza riceve luce. Infatti, per stare in mezzo
ai figli dell'uomo, il Dio cristiano ha scelto la via del Figlio
prediletto che si incarna nella povertà e muore in croce, lui il
Giusto per gli ingiusti: questo è il paradigma che spiega e salva.
«Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità, lo ha fatto
immagine della propria natura. Ma per l'invidia del diavolo la morte
è entrata nel mondo» (Sap 2, 23-24); questi infatti è «omicida fin
dall'inizio» (Gv 8,44). A partire da qui, con l'aiuto
indispensabile della Parola e dei Sacramenti, noi abbiamo la
possibilità di veder trasformati il lutto e la sofferenza in una
visione più realistica e autentica dell'esistenza, fino ad
intravedere la paternità di Dio e la sua misteriosa provvidenza, a
sperimentare mediante un itinerario anche accelerato – quale la morte
talora induce a compiere – la grazia nella disgrazia. Ma per questo
ci vogliono pastori pronti e non evasivi, comunità cristiane vive,
reattive, affettivamente coinvolgenti, che non tacciono
sull'interezza del disegno che Dio va dispiegando. Morte, giudizio,
inferno e paradiso sono termini non ignoti, non silenziati, non
spiegati secondo categorie falsamente buoniste o erroneamente crudeli.
Rappresentano invece il traguardo da lumeggiare con la Parola
risanatrice di Dio, senza fatalismi o sotterfugi scaramantici. Sono
tappe di una vita che va oltre la morte (cfr 2Cor 4,14) e sfocia nella
vita eterna. Ciò che saremo non sappiamo descriverlo, ma esiste.
«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono
in cuore d'uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1Cor
2,9). Ecco l'annuncio sconvolgente: «Dov'è o morte il tuo
pungiglione?» (1Cor 15,55; anche Is 25,8 e Os 13,14); e soprattutto:
«Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Ogni dolore nasconde il
mistero di un dono, di una medicazione benefica, di una risurrezione.
L'idea che la vita sia solo capriccio, solo giovinezza, solo sciupio
di salute e di risorse, solo benessere gaio e spensierato, è falsa e
assurda anzitutto nell'ottica della storia e della scienza. Dobbiamo
bonificare l'immagine della vita per imparare a godere realmente
della stessa. Dobbiamo imparare ad invecchiare, per saper contare i
giorni e apprezzare i doni, e per non sprecare né gli uni né gli
altri (cfr Sal 90,12). Dobbiamo includere anche il camposanto tra i
luoghi cari alla famiglia e alla comunità. Saper visitare il cimitero
– il luogo dei "dormienti" in attesa della resurrezione finale
− e lì pregare, è un modo per bandire il macabro e per esorcizzare
il troppo demonismo della nostra cultura. Le nostre parrocchie abbiano
sempre il cimitero nel perimetro della loro pastorale ordinaria, in
modo che questo non sia un'area separata e ghettizzata, cui
rivolgersi una volta l'anno, ma spazio della vita così concretamente
trascendente da non affievolirsi mai, santuario della memoria che ci
fa vivamente umani, ponte che unisce la comunità cristiana con la
comunione dei suoi Santi già presso Dio. Una realtà −
quest'ultima − «che infonde una dimensione diversa a tutta la
nostra vita» (Benedetto XVI, Saluto all'Angelus, 1 novembre 2009).

6. Altro argomento di cui ci interesseremo nel corso dei nostri lavori
assembleari è l'immagine della Chiesa nella sua proiezione
mediatica, su cui naturalmente io non intendo ora fare anticipazioni,
salvo che per segnalare che questo tema, se vogliamo, entra nello
spettro della estroversione missionaria propria della comunità
cristiana. Ed è il motivo per cui la Chiesa, sulla rotta indicata dal
Concilio, sceglie di entrare in dialogo con i media e di dotarsi essa
stessa di strumenti che la coadiuvino nella sua missione. Ma qui si
annidano anche alcuni motivi di sofferenza, ed è proprio la chiave
della missione a rilevarli nella loro potenziale consistenza. Non di
rado infatti c'è − da una parte − una sottovalutazione del
concreto-essenziale nella vita della Chiesa, di ciò che le consente di
essere nonostante tutte le resistenze e le avversità, e −
dall'altra − la tendenza a far figurare preponderante ciò che non
lo è. Quando si trascura o si ignora il quadro delle priorità nel
quale si collocano i singoli eventi o pronunciamenti – vuoi del
Pontefice, vuoi dell'Episcopato – diventa difficile evitare
rappresentazioni parziali o fuorvianti, critiche ideologiche e
finanche preconcette, letture volte ad attribuire intenzioni o parole
che non hanno motivo di esserci in quei termini. In ogni singola
circostanza, alla Chiesa preme, in nome del Vangelo, partecipare alla
vita del Paese, e portare il proprio contributo nel libero dibattito
culturale e sociale (cfr. Benedetto XVI, Discorso al nuovo
Ambasciatore dei Paesi Bassi, 2 ottobre 2009), lieta e grata di essere
raccontata dai media per gli argomenti che ella attinge dalla fede
come dalla ragione.
Nel prossimo mese di dicembre, e precisamente nei giorni dal 10 al 12,
si svolgerà, sotto l'egida della nostra Conferenza episcopale, un
convegno internazionale su «Dio oggi», che fin d'ora si presenta
come un evento di prima grandezza. Non si parlerà di Dio in modo
generico o convenzionale ma, storicizzando la riflessione maturata a
partire dalla seconda metà del secolo scorso, si tratterà del Dio
personale che in Gesù Cristo è venuto incontro agli uomini,
interpellandoli nella loro intelligenza e libertà. Non tuttavia un
appuntamento soltanto teologico, bensì interdisciplinare, e che oltre
alla filosofia interpellerà la problematica cosmologica e quella
antropologica, per lambire il linguaggio dell'arte, della musica,
della poesia fino al cinema e alla televisione, ossia le varie
espressioni in cui è concretamente rilevabile per l'uomo d'oggi
l'accoglienza di Dio, per ciò che significa nella sua vita e nella
sua visione del mondo. Si spiega così il sottotitolo assai prezioso:
«Con lui o senza di lui, tutto cambia». Siamo grati al Comitato per
il Progetto culturale, e al suo Presidente, per questa iniziativa che
fin d'ora, ne siamo certi, arricchirà tutti, immettendo input nuovi
nei circuiti del pensare colto non solo italiano. Se a questo si
collega il rapporto-proposta che su «La sfida educativa» è stato di
recente pubblicato, e che è ora in via di presentazione nelle singole
regioni, si ha un quadro decisamente confortante del lavoro in corso
su un crinale decisivo della nostra missione nel Paese.

7. Sono vent'anni che l'Europa, in seguito alla caduta del muro di
Berlino, ha ripreso a respirare con entrambi i suoi polmoni, per usare
l'immagine cara a Giovanni Paolo II, e a percorrere con nuova
parresia tutte le strade dell'Europa ormai libera. Cambiamenti
vorticosi si sono succeduti, e difficoltà inedite sono affiorate ad
Ovest come ad Est, dove l'elemento della secolarizzazione ha finito
con l'imporsi quale denominatore comune più rapidamente di quanto si
sia radicato il costume democratico. Sappiamo che alla base del
cammino europeo non vi possono essere solo strategie politiche o
strutture burocratiche, perché le une e le altre – pur necessarie
– non sono sufficienti per scaldare i cuori dei singoli e dei popoli
in ordine a quel senso di cordiale appartenenza che è indispensabile
per sentirsi comunità. L'idea di un'Europa unita si è fatta largo
nella mente e nel cuore dei Padri fondatori congiuntamente alla
constatazione di quanto il Vangelo aveva lungo i secoli inciso e
scavato nella civiltà del vecchio continente. Al punto che di recente
il Papa poteva affermare che: «l'Unione Europea non si è dotata di
questi valori ma sono stati piuttosto questi valori condivisi a farla
nascere e ad essere forza di gravità che ha attirato verso il nucleo
di Paesi fondatori le diverse nazioni che hanno successivamente
aderito a essa, nel corso del tempo» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo
Capo Delegazione della Commissione Comunità Europea, 19 ottobre 2009).
Questa annotazione non mira certo a riconoscimenti o condizioni di
privilegio. Lo diciamo anche a fronte della sentenza alquanto surreale
emessa dalla Corte di Strasburgo, a proposito della presenza dei
crocifissi nelle aule scolastiche italiane, nei confronti della quale
bene ha fatto il Governo ad annunciare ricorso. Lungi infatti dal
minacciare le responsabilità educative della famiglia e quelle laiche
di ogni Stato moderno, il crocifisso nella molteplicità dei suoi
significati può suggerire solo valori positivi di inclusione, di
comprensione reciproca, in ultima istanza di amore vicendevole. Ora, a
parte ogni altra valutazione circa il fermo e inalienabile diritto di
ciascun popolo alla propria identità culturale (cfr Benedetto XVI,
Discorso al nuovo Ambasciatore di Bulgaria, 31 ottobre 2009), e dunque
al vincolante rispetto del principio di sussidiarietà che deve
sovrintendere alla dinamica europea, il sorprendente pronunciamento
deve fare riflettere su una certa ideologia che non rinuncia a fare
capolino nelle circostanze più delicate della vita continentale,
quella di un laicismo per cui la neutralità coinciderebbe con
l'assenza di valori, mentre la religione sarebbe necessariamente di
parte. Ma una simile posizione, oltre ad essere un'impostura, non è
mai stata espressa dalla storia e neppure dalla volontà politica degli
europei. C'è piuttosto l'obbligo di registrare qui il tentativo di
rivalsa che esigue minoranze culturali, servendosi del volto
apparentemente impersonale della burocrazia comunitaria, perseguono
sulle libere determinazioni dei popoli. Ma per questa strada si mette
fuori gioco se stessi e l'Europa – necessaria a se stessa e al
mondo - si allontana sempre di più dalla gente. Di qui la perorazione
del Papa: «L'Europa non permetta che il suo modello di civiltà si
sfaldi» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione cit.), e
insieme un interrogativo: «Cosa potrà accadere se, nell'ansia di
una secolarizzazione radicale, finisse per separarsi dalle radici che
le danno vita?». Con un'aggiunta lungimirante: «Le nostre società
non diventeranno più ragionevoli o tolleranti, ma saranno piuttosto
più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per
riconoscere quello che è vero, nobile e buono» (Benedetto XVI,
Discorso con il Corpo Diplomatico, Praga, 27 settembre 2009).
Sradicando l'istanza di verità, si crede di liberare la ragione e
invece «essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia,
quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio,
oppure sotto l'apparenza di certezza, quando impone la resa alle
richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore
praticamente a tutto» (ib). Si ambienta qui l'autocritica che lo
stesso Pontefice aveva già proposto in un indimenticato passaggio
dell'enciclica Spe Salvi, quello che invoca una reciproca
«autocritica dell'età moderna» e del «cristianesimo moderno»,
particolarmente riguardo alla speranza che essi possono offrire
all'umanità (cfr n. 22; cfr anche Benedetto XVI, Discorso Ecumenico,
Praga, 27 settembre 2009). E di qui la rinnovata decisione riguardo al
ruolo insostituibile delle comunità di fede nella vita pubblica del
Continente, come ha con forza richiamato la plenaria del Consiglio
delle Conferenze episcopali d'Europa nel corso dei suoi due ultimi
incontri, di Budapest nel 2008 e di Parigi agli inizi dello scorso
mese di ottobre.

8. Quando si parla di valori noi comprendiamo la preoccupazione di chi
scorge il rischio sempre insorgente di una certa unilateralità.
Rispetto alla quale tuttavia, l'unico antidoto efficace è
riconoscere la visione trascendente della persona e la pari dignità di
tutti gli esseri umani. Se questo avviene, se cioè tale principio si
rivela realmente come il criterio fecondante ogni risorsa e ogni
progetto, ecco che si perverrà ad un «giusto e delicato equilibrio
fra l'efficienza economica e le esigenze sociali, della salvaguardia
dell'ambiente, e soprattutto dell'indispensabile e necessario
sostegno alla vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, e
alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una
donna» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione cit.). È
questo un modo con cui il Papa ribadisce quelli che sono i valori
profondamente radicati nella struttura dell'essere umano e che già
prima dell'elezione al soglio pontificio aveva chiamato «i principi
etici che per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita
sociale non sono "negoziabili"» (Congregazione per la Dottrina
della Fede, Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti
l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, II.
3). E sui quali in seguito sarebbe tornato con una certa insistenza
(cfr Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 25 dicembre 2005, nn.
230-232; Discorso ai Partecipanti al Convegno del Partito Popolare
Europeo, 30 marzo 2006; Discorso al IV Convegno ecclesiale della
Chiesa in Italia, Roma, 19 ottobre 2006). Proprio parlando per la
prima volta da Papa all'episcopato italiano, egli precisò che la
luce della fede ci fa comprendere in profondità un modello di uomo non
astratto o utopico, ma concreto e storico, che di per sé la stessa
ragione umana può conoscere; e quando la Chiesa lo ricorda non lavora
«per l'interesse cattolico, ma sempre per l'uomo creatura di
Dio» (Discorso all'Assemblea Generale della Cei, 30 maggio 2005).
Nello sviluppo del discorso antropologico avviato dal suo
Predecessore, Benedetto XVI è giunto ora ad identificare il
ragionevole «collegamento tra etica della vita ed etica sociale nella
consapevolezza che non può avere basi solide una società che –
mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e
la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più
diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto
se debole ed emarginata» (Caritas in veritate, n. 15). Proprio su
questo nesso ci soffermeremo nel corso della nostra assemblea, per
cogliere le nuove evidenze scaturenti dal magistero pontificio. Con
ciò, ci sentiamo in piena sintonia con il cammino che la Chiesa in
Italia è andata compiendo nel dopo Concilio, e in particolare nei suoi
grandi Convegni ecclesiali, ogni volta avvalorati dalla parola di
Pietro. C'è una consolante continuità tra gli stessi, e ognuno di
essi contiene il meglio dell'eredità dei convegni precedenti.
Attestarsi sulle consapevolezze emerse in quegli appuntamenti non
significa introdurre elementi di rigidità o di intolleranza nel
dibattito pubblico. Osserviamo ad esempio che i cosiddetti «principi
non negoziabili» sono non l'opposto della flessibilità, ma la
condizione di essa. Si può essere flessibili su tutto ciò che chiede
una mediazione, da perseguirsi all'occorrenza fino allo spasimo, solo
se si sa tenere integro quello che più conta, ciò che è condizione
perché il resto avvenga. Forse ogni società non riconosce degli «a
priori» che le consentono di affermare se stessa lungo il tempo, di
avere un passato, un presente e un futuro? Anche Giovanni Paolo II,
parlando al Convegno ecclesiale di Loreto, esortò la nostra Chiesa ad
operare in una società diventata ormai pluralista «con umile coraggio
e piena fiducia nel Signore» recuperando «un'efficacia trainante,
nel cammino verso il futuro» (Giovanni Paolo II, Discorso al II
Convegno ecclesiale della Chiesa in Italia, 11 aprile 1985). Indicava
già allora una meta certo ardimentosa ma sicuramente non inappropriata
o stonata, se si tiene a mente che ogni società ha bisogno di idee-
guida etico-culturali per crescere senza perdersi, mantenendosi salda
in se stessa. Questa spinta storico-concreta tuttavia può scaturire e
verificarsi solo se c'è un'alimentazione continua
dell'interiorità, dunque un lavoro assiduo sulla via lunga
dell'evangelizzazione e della formazione delle coscienze. La nostra
Chiesa non presume di sé, punta solo ad essere fedele: per questo si
affida al suo Signore, impegnandosi in una conversione continua, e
così risultare – come il Vangelo esige − lievito e luce per la
società.
In questa prospettiva, sia consentito esprimere qualche riserva su due
problemi. Il primo riguarda il via libera concesso dall'Aifa, infine
e nonostante tutto, alla pillola Ru486. Per nessuno la nostra radicale
riserva vuol suonare come una mancanza di rispetto o di stima, e
tuttavia non possiamo non dire che l'intera operazione volta a
rendere fruibile la controversa pillola non ci ha convinto né come
cittadini né come pastori. A questo punto, ciascuno naturalmente si fa
carico delle proprie responsabilità circa gli effetti concreti sulla
salute delle persone che vi ricorreranno ed il rispetto delle
condizioni minime che sono state a fatica riconosciute come
indispensabili per la sua assunzione. Nello stesso tempo non si potrà
non riconoscere, come già fa la legge 194, la possibilità
dell'obiezione di coscienza agli operatori sanitari, compresi i
farmacisti e i farmacisti ospedalieri, che non intendono collaborare
direttamente o indirettamente ad un atto grave. In queste nostre
osservazioni non c'è alcuna sottovalutazione del dramma in cui può
trovarsi la donna, in particolare quando il pensiero di interrompere
la gravidanza dovesse presentarsi per motivi legati alla condizione
economica. Chiediamo anzi a ciascuno, uomo o donna, di accettare di
farsi carico responsabilmente dei propri atti, specie quando questi
coinvolgono esseri innocenti. La seconda questione riguarda la
ventilata ipotesi dell'ora di religione islamica. Non è in
discussione, come pure si è detto da qualche parte, la libertà
religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue
specifiche finalità che − in uno Stato positivamente laico − sono
di ordine culturale ed educativo. Infatti, l'insegnamento di
religione cattolica, com'è noto, non è un'ora di catechismo,
bensì un'occasione di conoscenza che si vuole «assicurare» circa
quei «principi del cattolicesimo» che «fanno parte del patrimonio
storico del popolo italiano» (Accordo di revisione del Concordato
Lateranense, art. 9). Conoscenza che è indispensabile in ordine ad una
convivenza più consapevole e matura.
Un auspicio sia consentito esprimere per quanto riguarda i fondi
destinati al sistema dell'istruzione non statale, cioè alla scuola
libera: ci si augura infatti che le cifre inizialmente previste con
decurtazioni consistenti, possano essere prontamente reintegrate in
modo da consentire agli enti erogatori dei servizi di mantenere gli
impegni già assunti.

9. Un'ultima parola vorrei riservarla al clima politico e mediatico
in cui si trova, per la verità non da oggi, il nostro Paese. Si
registra infatti un'aria di sistematica e pregiudiziale
contrapposizione, che talora induce a ipotizzare quasi degli
atteggiamenti di odio: se così fosse, sarebbe oltremodo ingiusto in
sé e pericoloso per la Nazione. In ogni caso, si impone una decisa e
radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti,
diversamente verrebbe prima o poi ad inquinarsi il sentire comune, con
conseguenze inevitabili in termini di sfiducia e disaffezione verso la
cosa pubblica, e un progressivo ritiro dei cittadini nel proprio
particolare. La gente, con i suoi problemi, ha il diritto di cogliersi
al primo posto rispetto alle preoccupazioni rimbalzanti dal dibattito
sia pubblico che privato. È necessario e urgente svelenire il clima
generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con
ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito ad un confronto leale
per il bene dei cittadini e del Paese intero. Davvero ci piacerebbe
che, nel riconoscimento di una sana − per quanto vivace −
dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una
sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la
più inconcludente. Ci rendiamo conto che il compito esige sì da parte
di ciascuno un supplemento di buona volontà come di onestà
intellettuale, ma anche il superamento di matrici ideologiche che
sembrano talora rigurgitare da un passato che non vuole realmente
passare.
Le tragedie per cause naturali che ciclicamente colpiscono il
territorio nazionale – come non andare ancora una volta col nostro
pensiero all'Abruzzo e a Messina? − invocano una disponibilità da
parte di tutte le forze politiche a scelte risolutive sulle annose
questioni che rendono debole il sistema-Italia, sistema che invece
oggi come non mai dovrebbe rivelarsi scattante per cogliere al balzo i
cenni di uscita dalla crisi e potenziarli, così da accorciare le
sofferenze che la situazione dell'economia mondiale ha finito per
scaricare sulle categorie più deboli, specialmente sul fronte del
posto del lavoro. Il Paese deve tornare a crescere, perché questa è
la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le
condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle
famiglie monoreddito. Il nostro popolo, che tanti sacrifici ha
affrontato e affronta, gradirebbe davvero uno scatto in avanti nel
segno della risolutezza e del superamento delle campagne denigratorie
come delle polemiche strumentali. Ciascuno, ripeto, è chiamato in
causa in quest'opera d'amore verso l'Italia: è una
responsabilità grave che ricade su tutti, in primo luogo sui molti
soggetti che hanno doveri politico-amministrativi, economico-
finanziari, sociali, culturali, informativi. La Chiesa è presente con
la parola del Vangelo che da un capo all'altro del Paese risuona come
un continuo richiamo e un lieto annuncio. Una creatività operosa, una
collaudata professionalità, una generosità solidale qualificano
solitamente l'apporto italiano ovunque si esplichi nel mondo, ben
oltre gli stereotipi ingenerosi. Dobbiamo essere fieri e grati per
quanto le generazioni precedenti la nostra hanno fatto con ammirevole
spirito di sacrificio e senso di grande responsabilità, avendo nel
cuore non solamente il miglioramento delle loro condizioni di vita, ma
anche il desiderio di consegnare ai propri figli un futuro più
vivibile e degno, impostato sul benessere come su valori morali
autentici e solidi. Sono questi, infatti, che formano l'anima di un
popolo, la sua identità profonda. Che inducono a quel senso di
appartenenza che agisce sull'intelligenza e sul cuore, creando dunque
cultura e storia. E consentendo a ciascuno di sentirsi parte di un
«noi». A cominciare da qui si genera una coscienza comune in grado di
superare gli interessi particolaristici, e si sprigionano energie
insospettate insieme a slanci di generosità e dedizione che
arricchiscono le persone prima ancora che la comunità. Questo
patrimonio, senza il quale non esiste popolo ma solo un incrocio di
destini individuali talora anche confliggenti, non può essere sciupato
né progressivamente eroso per ragioni solo apparenti e magari
speciose. La nostra Chiesa non si riconosce in una «religione civile»
a servizio di qualche potere, ma si identifica nella missione che le è
stata affidata, quella di annunciare a tutti il mistero di Cristo con
le implicazioni che ne conseguono sul piano antropologico, etico,
cosmologico e sociale. A questo titolo partecipa alla costruzione
della città terrena, testimoniando la fede che salva ed eleva
l'umano in tutte le sue potenzialità. Come credenti, anche pagando
di persona, non cesseremo di gettare ponti a superamento
dell'intolleranza e dell'incomunicabilità, senza mai stancarci di
riannodare, a partire da ogni territorio, relazioni fondate sulla
riconciliazione e sulla fraternità (cfr Benedetto XVI, Discorso
all'Udienza del Mercoledì, 14 ottobre 2009).

Grazie, Confratelli cari, del Vostro paziente ascolto e ora dei Vostri
attesi contributi. Ci affidiamo alla preghiera e all'amicizia
dell'uno verso l'altro, per rispondere insieme alla richiesta di
amore che ci viene in vari modi rivolta. Chiediamo allo Spirito di
illuminare i nostri pensieri e guidare le nostre deliberazioni. Maria
Santissima, nostra dolce Madre, San Francesco d'Assisi e Santa
Chiara, i Santi patroni delle nostre Chiese intercedano per noi e per
queste nostre giornate.

Card. Angelo Bagnascor


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San Silvestro


Il vescovo Gianni Ambrosio ha conferito a Carlo Musajo Somma di Galesano l'Ordine di San Silvestro.

Posted by ShoZu