venerdì 21 marzo 2008

Ambrosio per l'Ultima cena: è la grande ora della storia

Ecco l'omelia pronunciata dal vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio, in occasione della celebrazione del Giovedì Santo che ricorda l'ultima cena di Gesù e il rito della lavanda dei piedi.

Cari fratelli e sorelle,
facciamo memoria – nel senso pieno dell’espressione biblica ‑ dell’ora di Gesù, della sua ora di rivelazione e di passione: «Sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine». Gesù, curvo e inginocchiato nell’atteggiamento dello schiavo, lava i piedi dei suoi discepoli: il Figlio si fa servo, servo per amore, servo per manifestare l’amore del Padre, servo per donare la sua vita di amore ai discepoli. Nel fare memoria dell’’ora di Gesù’, noi la viviamo come dono fatto a noi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». La liturgia del Giovedì Santo – e in particolare questa Eucaristia in Cena Domini ‑ ci riporta al momento originario del culto cristiano, al suo significato più autentico, alla sua verità. Mentre tutte le religioni trovano la loro espressione di culto in un sacrificio che l'uomo offre a Dio, il culto cristiano è l'Eucaristia, rendimento di grazie al Padre che in Gesù si dona a noi, fino al sacrificio totale della sua vita. L'Eucaristia, istituita da Gesù nel contesto della ‘cena pasquale ebraica’, è il punto d'arrivo di tutta la manifestazione e l'azione di Dio nella storia della salvezza. Nella prima lettura dell’Esodo vengono ricordate le regole liturgiche dell’antica cena pasquale: al centro stava l’agnello come simbolo della liberazione dalla schiavitù in Egitto, la grande liberazione attuata da Dio stesso. Israele non poteva dimenticarsi di Dio, non doveva dimenticare che Dio aveva personalmente preso in mano la storia del suo popolo e che questa storia sarebbe sempre stata storia di libertà se continuamente basata sulla comunione con Dio. Sullo sfondo di questa cena pasquale, ecco la cena celebrata da Gesù con i suoi la sera prima della sua Passione.
È la nuova Pasqua che Egli ci ha donato nella santa Eucaristia, con l’inserimento della novità, del dono del suo corpo e del suo sangue. La celebrazione della Cena del Signore, nel segno del pane spezzato e donato e del vino versato, ha in se stessa tutta la verità di ciò che sta per compiersi nel Venerdì Santo e nella ‘notte pasquale’: l'Eucaristia è infatti il memoriale della morte e risurrezione del Signore nell'attesa del suo ritorno. «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga». Proprio questa novità è il punto di partenza per la vita del nuovo popolo di Dio. Il suo amore, quell’amore in cui Egli si dona liberamente per noi, è ciò che ci salva. Noi siamo nati qui, noi figli della “Nuova Alleanza nel suo sangue”, noi, come Chiesa, veniamo da qui, dall’Eucaristia, dalla cena del Signore, sullo sfondo dell’antica cena pasquale. Celebriamo l’ora di Gesù, ne facciamo memoria, ma questa ora di Gesù è anche la nostra ora, e quindi celebriamo la nostra nascita, il nostro essere ‘popolo sacerdotale’. Il principio della vita cristiana, l'origine della nuova vita, la vita dei figli, è qui: l'amore di Gesù per noi. Il suo corpo donato per noi è il pane capace di dare la vita a noi e al mondo intero. Per l’evangelista Giovanni, come abbiamo ascoltato nel brano del Vangelo che la liturgia odierna ci ha offerto, la Pasqua nuova di Gesù, che ha al suo centro la Croce, presenta una inaudita verità. Essa è espressa in modo estremamente eloquente nell’episodio della ‘lavanda dei piedi’. Prima di lasciare i suoi e «di passare da questo mondo al Padre», Gesù compie questo gesto: è un gesto che racchiude in sé il mistero della sua morte per noi, compimento del disegno di salvezza: la sua morte è la grande “ora” della storia, è l’ora dell’amore sino alla fine. Gesù offre la sua vita nella piena coscienza che «il Padre gli ha dato tutto nelle mani». E Gesù depone la sua veste ‑ la sua verità più intima, il suo essere Figlio, tutto ciò che il Padre aveva messo nelle sue mani ‑ per cingersi della veste o del grembiule del servo: «Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo [...]; umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce». Egli offre spontaneamente la sua vita: «Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo». Il Signore Gesù, nell’Eucaristia, resta sempre in mezzo a noi con la veste di servo, che è la sua gloria. Il suo servizio è il volto dell'amore di Dio, è la rivelazione definitiva e piena di Dio.
Simon Pietro non capisce: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Mi pare troppo semplice dire che Pietro ragiona in termini di prestigio o forse di rispettosa ammirazione e non di servizio. C'è qualcosa di più profondo da capire, da parte di Pietro e di tutti, c'è in gioco una logica diversa, una ragione del tutto nuova, del tutto inedita e alla fine sconcertante. Gesù gli risponde che se non si lascerà lavare i piedi, non avrà parte con lui. Solo chi accetta di lasciarsi trasformare da questo amore che dà la vita per noi, può essere associato al suo stesso servizio e potrà amare come è stato amato. Celebrare l'Eucaristia, prendere e mangiare il corpo di Gesù, vuole dire associarsi a lui e vivere di lui, che nella sua morte si è fatto nostro pane di vita. «Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi». Dall’Eucaristia viene la capacità di vivere come figli e come fratelli: è l'amore ricevuto dal Padre attraverso Gesù nostro fratello, che ci rende capaci di amarci come fratelli nel servizio reciproco, l’amore vicendevole. L'ora di Gesù sia la nostra ora: l'Eucaristia diventi davvero “la sorgente e il culmine” della nostra vita, la vita dei discepoli di Gesù. Così sia.

† Mons. Gianni Ambrosio,
Vescovo Piacenza-Bobbio

Si ringrazia Vittorio Ciani per la collaborazione.

Ambrosio per la messa del crisma: teniamo aperti occhi, cuore e mani

Carissimi sacerdoti e diaconi, carissimi religiosi e religiose, carissimi fedeli laici di questa santa Chiesa di Piacenza-Bobbio:
a tutti rivolgo il mio cordiale saluto.
In particolare un saluto davvero affettuoso lo rivolgo ai cresimandi qui presenti e che rappresentano tutti coloro che in questo anno riceveranno il sacramento della Confermazione. Nella comunione fraterna del presbiterio vogliamo ricordare i preti ammalati che sentiamo profondamente vicini e riconosciamo attivamente partecipi, con la loro preghiera e con la loro sofferenza, della comunione sacramentale. Ricordiamo poi i nostri missionari sparsi in diverse parti del mondo, soprattutto in Africa e in Brasile: sono il segno prezioso della missionarietà e dell’apertura al mondo della nostra Chiesa piacentina-bobbiese. Ricordiamo infine i sacerdoti che celebrano gli anniversari di ordinazione. Comincio dai due sacerdoti che hanno 60 anni di ordinazione, mons. Bracchi Pietro e don Pagliughi Giovanni. Anche i sacerdoti che compiono 50 anni di ordinazione sono due, don Marenzi Cesare e don Valla Gian Matteo. Ancora due sono i sacerdoti che compiono il 25º anniversario di ordinazione, don Guarnieri Gianmarco e don Plessi Giancarlo. Infine ricordo quelli che sono al 10º anniversario di ordinazione, don Arrisi Fausto, don Campisi Andrea, don Cattivelli Franco, don Cavalli Silvio, don Cavanna Angelo, don Pascariello Domenico, don Lazzarini Luigi, don Tiengo Luciano. Assicuriamo a questi sacerdoti una preghiera particolare, un ringraziamento sincero e un augurio cordiale.
Carissimi sacerdoti e diaconi, carissimi fedeli, presiedo per la prima volta la concelebrazione della Messa del crisma. La mia commozione è forte, perché grande è il mistero di questo giorno in cui il Signore diede ai Dodici il compito sacerdotale di celebrare, nel pane e nel vino, il sacramento del suo corpo e del suo sangue fino al suo ritorno. Il Signore ha posto così le sue mani su di noi e ci ha fatto partecipi di se stesso, della sua vita, del suo sacerdozio: ha voluto e vuole esercitare il suo sacerdozio per nostro tramite. Cari confratelli, in questo sacramento noi siamo una cosa sola. Una cosa sola con Lui, il Signore Gesù, che ci ha attirati a sé e noi, colmati del suo dono, siamo diventati suoi. Una cosa sola tra noi, in quanto abbiamo ricevuto lo stesso dono dallo stesso Signore Gesù e viviamo dello stesso vincolo sacramentale che il Signore ha offerto a noi. Questo mistero di comunione ci coinvolge e si offre a noi come grazia rinnovata ogni volta che noi celebriamo il sacramento. Ma l’abitudine, la quotidianità, la disattenzione possono in qualche modo sciupare – lo sappiamo – ciò che è grande e bello. Sia allora davvero benedetta quest’ora in cui ricordiamo – nel senso pieno del ‘fare memoria’ – quell’’ora’ in cui il Signore ha posto le sue mani su di noi e ci ha fatto partecipi di questo mistero. Per me quest’ora è particolarmente intensa. Sì, lo è per me, e mi sia consentito di ricordarlo. Ma è intensa e commovente per tutti noi, perché siamo tutti partecipi dello stesso vincolo sacramentale. Per tutti è grazia vivere insieme la Celebrazione della messa crismale che ravviva in un modo particolarmente vivo e forte quel vincolo, richiamando la derivazione del nostro sacerdozio dal Signore Gesù, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza (cfr. Eb 13, 20). Avete poi partecipato numerosi – e vi ringrazio ancora ‑ alla Celebrazione della mia ordinazione episcopale in questo Cattedrale gremita e festante. Anche quella grande partecipazione di popolo radunato qui attorno alla mensa dell’altare del Signore e al nuovo pastore di questa Chiesa piacentina-bobbiese, fa sì che quest’ora sia per tutti noi intensa, in quanto conferma e rinnova il vincolo di comunione che lega il Vescovo ai suoi presbiteri e i presbiteri tra loro nell’unico presbiterio della nostra Chiesa. È passato appena un mese da quel giorno in cui il Signore, attraverso l’imposizione delle mani dei Vescovi in comunione con il Santo Padre, ha posto le sue mani su di me e mi ha inviato a questa Chiesa come pastore e padre. Sono invece passati quarant’anni da quel giorno in cui il Signore mi ha imposto le mani concedendomi la grazia del presbiterato attraverso il gesto sacramentale dell'imposizione delle mani da parte del mio Vescovo. È sempre lui, il Signore Gesù, che ci attira verso di sé, che impone su di noi la sue mani, che ci chiede di donargli le nostre mani perché siano unte con l’olio che è il segno dello Spirito Santo e della sua forza.
Cari confratelli nel sacerdozio, sentiamo vivo e forte in noi il bisogno di dire la nostra gratitudine per la grazia del presbiterato ricevuto. E sentiamo pure risuonare nell’intimo della coscienza di ciascuno di noi l’ammonimento di Paolo al discepolo Timoteo: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani» (2 Tim 1, 6). Con le parole dell’esortazione Pastores dabo vobis, possiamo dare un contenuto preciso a questo invito di “ravvivare il dono di Dio che è in noi”: “non è solo il risultato di un impegno della memoria e della volontà (di Timoteo, di ciascuno di noi), è (anche e soprattutto) l’effetto di un dinamismo di grazia intrinseco al dono di Dio: è Dio stesso, dunque, a ravvivare il suo stesso dono, meglio, a sprigionare tutta la straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità che in esso è racchiusa” . La parola del Signore di questa divina liturgia insiste su questo dono. In modo semplice e immediato questa verità traspare dal Salmo responsoriale «Ho trovato Davide, mio servo, dice il Signore, con il mio santo olio l’ho consacrato». “Ho trovato Davide”: è il Signore che cerca e trova. La sua scelta è gratuita, la sua elezione è immeritata: “la mano del Signore ‑ prosegue il Salmo 89, 22 ‑ è il sostegno di Davide, il braccio del Signore è la forza di Davide”. La consacrazione di Davide prefigura la consacrazione del Figlio Unigenito del Padre. «Lo spirito del Signore è su di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione». Di questo dono, di questa grazia, di questa unzione dello Spirito Santo ciascuno di noi è divenuto partecipe. Noi oggi celebriamo, con più forte intensità, la misericordia del Padre che ha costituito sommo ed eterno sacerdote il suo Verbo, inviato «per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista».
Noi oggi rendiamo grazie, con più viva gratitudine, a «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti» . Noi oggi siamo consapevoli, con maggior evidenza, di essere partecipi della stessa unzione sacerdotale del Verbo incarnato e di essere inseriti dentro all’atto redentivo di Cristo, in quanti ministri e servi della sua redenzione, del suo essere Redemptor hominis, redentore di ogni uomo, redentore di tutti gli uomini. La celebrazione della misericordia del Padre, il rendimento di grazie a “Colui che ci ama e ci ha liberati dai peccati”, la nostra collocazione nel mistero della redenzione definiscono la nostra identità, segnano il nostro essere, caratterizzano il nostro agire. Come Davide, anche noi siamo stati trovati, anzi, in Cristo, siamo stati pensati e voluti dal Padre per essere consacrati con lo stesso Spirito che ha consacrato Cristo, per essere mandati a servire il popolo di Dio che è la Chiesa. È dunque nel nostro essere riferiti a Cristo – in lui, con lui e per lui – che troviamo il senso della nostra vita, la sorgente della nostra gioia, la passione del nostro essere ministri della sua redenzione. E nel riferimento fondamentale e radicale a Cristo Signore, ecco spalancato davanti a noi l’orizzonte dell’uomo. Perché Cristo è per l’uomo: “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo” (propter nos homines et propter nostram salutem), affermiamo nel Credo. Il nostro riferimento a Cristo diventa riferimento all’uomo, il nostro “essere in Cristo” indica il nostro essere rivolti all’uomo. Tutta l’opera del Verbo incarnato si trova racchiusa in quel suo essere Crucifixus pro nobis (Credo), nel suo donarsi all’uomo per la sua pienezza di vita nella comunione dell’amore trinitario. E la nostra partecipazione sacramentale al suo sacerdozio ha nella stessa finalità la sua motivazione: rendere presente Lui e il suo amore in mezzo agli uomini. Soffermiamoci ancora sui segni nei quali ci è donato il sacramento. I segni essenziali dell'ordinazione sacerdotale sono tutti manifestazioni di quella Parola che chiama e che invia, di quell’Amore che sceglie e rende capaci di vita nuova coloro che sono stati scelti: l'imposizione delle mani, la consegna della Parola che Egli affida a noi, la consegna della patena e del calice. In particolare l’antico gesto dell'imposizione delle mani non solo esprime il fatto consolante di essere sotto la protezione delle mani del Signore ma dice pure la nostra appartenenza al Signore, il nostro essere assunti in servizio, il nostro stare a sua disposizione. Per questo le nostre mani sono state unte con l'olio. Nella forza dello Spirito Santo, queste mani umane, benedette con il santo olio, sono rese capaci di mettersi al servizio dell’amore del Signore per trasformare e per rinnovare nell’amore questo nostro mondo. Anche di questo dono facciamo memoria, ravvivando così il dono di Dio che è in noi vivendo per Colui in vista del quale il mondo è stato creato. Le nostre mani sono oggi nuovamente messe al servizio del Signore, mentre gli rinnoviamo la preghiera umile e confidente perché Egli ci prenda per mano e ci guidi, al di là dell’insufficienza delle nostre povere persone, al di là dei timori per la grandezza del compito, al di là della paura per le difficoltà di vario genere che incontriamo nel nostro percorso esistenziale e nella nostra attività pastorale. Sì, non ci nascondiamo le difficoltà, non facciamo finta di non vedere i limiti, le debolezze, le fragilità, le contraddizioni, il peccato. Gli occhi devono restare sempre aperti. Ma aperto deve soprattutto restare il nostro cuore per risentire quella voce amica che dice: “Coraggio, non temere”. Aperta deve restare la nostra mano per essere afferrati dalla sua mano, quella di Gesù che solleva Pietro che sta per affondare. Dobbiamo, certo, essere vigili: il tesoro è in vasi fragili. Lo sappiamo bene. Ma più che fermarci a fissare lo sguardo sulla fragilità, è assai meglio fissare lo sguardo sul tesoro. Lo sguardo di fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, è il mezzo grazie al quale conserviamo l’amicizia con Lui e in questa amicizia ‘conosciamo’ tutto ciò che è necessario ‘conoscere’: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi». Sarebbe triste se, a forza di guardare ai vasi fragili, a forza di puntare il dito accusatore, non ci si rendesse più conto della straordinaria fiducia che genera questa ‘conoscenza’ che deriva dall’amicizia con Lui, e che si alimenta e cresce nella preghiera, nella lettura spirituale della Scrittura santa, nella comunanza di atteggiamenti, di stile di vita, di pensieri, di azioni. La fiducia nel Signore che ha posto la sua mano su di noi è anche fiducia nell’uomo, così come il nostro essere in Cristo è anche un rivolgersi all’uomo, all’uomo di oggi che ha bisogno di questo Dio che in Gesù Cristo che si è fatto carne e sangue, amandoci fino a morire per noi. Credo di poter affermare, alla luce di questa fiducia che poggia sull’amicizia con il Signore, che è possibile scorgere molti segni davvero positivi e promettenti di questa Chiesa piacentina-bobbiese, come pure di questa nostra realtà civile e sociale. Lo affermo, questo, con sincera convinzione, e soprattutto lo affermo per rendere grazie al Signore buono e misericordioso e anche per rendere grazie a voi, sacerdoti e fedeli laici, che, con la vostra dedizione, con il vostro impegno e con la vostra testimonianza, avete coltivato bene questa vigna del Signore.
Cari confratelli nel sacerdozio, celebriamo nella gioia il dies natalis del nostro sacerdozio, rendendo grazie per il dono sorprendente del nostro inserimento sacramentale nel sacerdozio di Cristo. Così il sacrifico di sé che Cristo ha compiuto è reso presente in ogni luogo e in ogni tempo, perché sia dato ad ogni uomo la grazia di parteciparvi. Esso è reso presente nel sacramento dell’Eucaristia: sacramentum sacrificii Christi, come dice S. Tommaso. Proprio dentro a questo grande mistero, il mysterium fidei che è l’Eucaristia, noi scopriamo e viviamo la profonda verità del nostro sacerdozio intimamente collegato all’Eucaristia. La teologia cattolica ha coniato una formulazione di questo mistero che dà le vertigini e che riguarda il nostro essere e il nostro agire in persona Christi. Questa formulazione non significa “a nome di Cristo” o tanto meno “nelle veci di Cristo”; ma significa l’identificazione sacramentale con l’unico ed eterno sacerdote, soprattutto – e in modo del tutto eminente ‑ quando celebriamo l’Eucaristia, principio e fondamento della nostra esistenza sacerdotale. È dunque l’Eucaristia la verità del nostro essere sacerdotale. Nell’Eucaristia che stiamo celebrando in questo Giovedì santo rendiamo grazie a Dio per il dono grande della nostra configurazione a Cristo in forza della quale in Lui e con Lui ciascuno di noi può dire in verità: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio». Amen.
† Mons. Gianni Ambrosio,
Vescovo Piacenza-Bobbio

Si ringrazia Vittorio Ciani per la collaborazione.

Giovedì Santo, la messa crismale nel duomo di Piacenza

Alcune immagini della messa crismale del giovedì santo nella cattedrale di Piacenza-Bobbio celebrata dal vescovo Gianni Ambrosio.