venerdì 4 giugno 2010

Sacro Cuore/ Ambrosio ai preti: curiamo di più la santa messa

Carissimi confratelli,

abbiamo anticipato la nostra tradizionale “festa del Sacro Cuore” per poter partecipare alle celebrazioni conclusive dell’Anno sacerdotale che si terranno a Roma dal 9 all’11 giugno. Coloro che potranno partecipare a questo incontro mondiale dei sacerdoti, rappresenteranno tutto il nostro presbiterio, sia nella profonda comunione con il Santo Padre sia nella preghiera per tutti i sacerdoti e per la loro missione nella Chiesa e nella società contemporanea.

Lo scorso anno ci siamo soffermati sulla Missione popolare diocesana (MPD) e sull’Anno sacerdotale proclamato da Benedetto XVI in occasione dei 150 anni della morte del santo Curato d’Ars. Abbiamo iniziato la MPD il 10 gennaio 2010, nella festa del Battesimo del Signore: ringraziamo il Signore per la grazia di questo inizio e per il cammino fin qui compiuto. L’Anno sacerdotale che sta per concludersi ci ha aiutato a valorizzare la santità del sacerdozio e a “promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi” (Lettera di Benedetto XVI per l’indizione dell’anno sacerdotale). Ringraziamo per le molte preghiere, soprattutto da parte delle comunità femminili di vita consacrata della nostra diocesi, che ci hanno sostenuto ed incoraggiato nel nostro impegno di diventare immagine viva del Signore Gesù e di portare l’amore di Dio alle comunità a noi affidate. Sento il dovere di sottolineare ancora, come ho già fatto nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo, la generosità di tanti sacerdoti che portano sulle proprie spalle il pondus diei, la fatica di ogni giorno, animati dalla fede in Cristo risorto e dalla carità pastorale.

Quest’anno riflettiamo ancora su questi stessi punti, considerati in un’ottica particolare, quella riguardante più direttamente il nostro essere presbiteri in una Chiesa che vuole essere missionaria e che, per questo, vuole aprirsi al soffio dello Spirito Santo che “è il protagonista di tutta la missione ecclesiale” (Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 21). Focalizzo in particolare la riflessione sulla missione e sulla comunione: l’obiettivo di porre la missione al centro della nostra vita e del nostro ministero di presbiteri esige l’apertura alla comunione, da vivere tra noi e con gli uomini del nostro tempo.

Richiamo, come in esergo, due frasi molto belle e assai impegnative di Giovanni Paolo II. La prima la troviamo nell’enciclica Redemptoris missio (n.26): “Lo Spirito spinge il gruppo dei credenti a «fare comunità», a essere chiesa. Dopo il primo annunzio di Pietro il giorno di Pentecoste e le conversioni che ne seguirono, si forma la prima comunità (At 2,42; At 4,32). Uno degli scopi centrali della missione, infatti, è di riunire il popolo nell'ascolto del vangelo, nella comunione fraterna, nella preghiera e nell'eucaristia. Vivere la «comunione fraterna» (koinonìa) significa avere «un cuor solo e un'anima sola» (At 4,32), instaurando una comunione sotto tutti gli aspetti: umano, spirituale e materiale”.

La seconda frase la troviamo nell’enciclica Novo millennio ineunte: “Occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi ove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità” (n. 43).

Queste frasi, che meriterebbero una considerazione attenta, costituiscono lo sfondo della riflessione che propongo. Essa tende a valorizzare ciò che noi siamo per grazia di Dio: siamo discepoli, siamo fratelli e siamo annunciatori-testimoni. Questi sono i termini più frequenti che troviamo nel libro degli Atti degli Apostoli per delineare la figura del cristiano: sono termini che caratterizzano anche noi cristiani che abbiamo ricevuto la grazia del ministero ordinato per servire la Chiesa di Cristo. Solo nella fedeltà alla memoria di Gesù come suoi discepoli, solo come fratelli che vivono la comunione, solo come testimoni che annunciano con la vita il messaggio ricevuto, noi viviamo veramente il sacerdozio ministeriale, noi realizziamo la carità pastorale, noi continuiamo nella storia la missione stessa di Cristo, l’inviato del Padre.

1. L’amicizia: con Gesù e tra di noi

1.1. Desidero iniziare la riflessione ringraziandovi per la vostra presenza a questa festa della fraternità sacerdotale nella nostra diocesi di Piacenza-Bobbio. Siamo qui per condividere l’amicizia tra noi, come fratelli che vivono nell’unico presbiterio. E soprattutto siamo qui a condividere l’amicizia con il Signore Gesù. Perché la fraternità del presbiterio è in stretta connessione con la nostra identità di presbiteri, che si fonda sul nostro essere discepoli, sulla relazione di amicizia con Gesù, sul rimanere nel suo amore (Gv 15,9). Per Benedetto XVI questo costituisce il cuore dell’identità del presbitero: “Non vi chiamo più servi, ma amici: in queste parole si potrebbe addirittura vedere l’istituzione del sacerdozio. Il Signore ci vede suoi amici: ci affida tutto; ci affida se stesso, così che possiamo parlare con il suo Io – in persona Christi capitis. Che fiducia! […] Non vi chiamo più servi ma amici. E’ questo il significato profondo dell’essere sacerdote: diventare amico di Gesù Cristo. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni giorno di nuovo. […] Non vi chiamo più servi, ma amici. Il nucleo del sacerdozio è l’essere amici di Gesù Cristo” (Benedetto XVI, Giovedì Santo, 13 aprile 2006).

Proprio a partire da questa amicizia, possiamo vivere gioiosamente la comunione, innanzi tutto nel presbiterio e poi nell’intera comunità ecclesiale. Abbiamo in comune la vocazione, il sacramento del battesimo e dell’ordine, la stessa missione. Abbiamo in comune lo Spirito Santo effuso nei nostri cuori e il comandamento di Gesù. Se facciamo interagire i diversi livelli della fraternità, come rapporto amicale, come impegno collaborativo, come sostegno spirituale, la nostra fraternità cresce e matura sul piano umano, sul piano evangelico e sul piano pastorale.

Quest’anno la nostra festa della fraternità sacerdotale coincide, almeno per la nostra Cattedrale, con la solennità del Corpus Domini: questa sera vi sarà la processione eucaristica per le vie della nostra città di Piacenza. È una coincidenza che ci aiuta a ricordare che proprio l’Eucaristia, come ben sappiamo, dà forma alla nostra vita di discepoli, di presbiteri, di pastori. L’Eucaristia è la memoria viva di Gesù, delle sue parole ed opere, della sua obbedienza al Padre e dell’amore per noi, della sua morte e risurrezione. L’amore di Cristo per noi, accolto nella fede, suscita la nostra risposta all’invito di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 13,34). L’amore ricevuto nell’Eucaristia diventa amore fraterno: “Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio perché come vi ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,14-15). E l’amore fraterno dei discepoli rende visibile la presenza di Gesù in mezzo a noi.

1.2. Desidero ringraziarvi perché, sia pur nella fatica e con tutti i nostri limiti, ci è data la grazia di vivere la comunione fraterna. La sperimentiamo in diversi modi questa comunione, su cui non è il caso di soffermarci, ben sapendo che il modo migliore per esprimere la gratitudine per questa comunione è condividerla e celebrarla nella sua sorgente originaria e permanente. Desidero solo citare l’incontro comunitario che abbiamo avuto nella parrocchia di Santa Franca, il giorno successivo al mercoledì delle Ceneri. Abbiamo così iniziato insieme la grande scuola della Quaresima in stile penitenziale e accostandoci al sacramento della penitenza in cui è all’opera Dio “dives in misericordia” (Ef 2,4).

La nostra comunione è un segno di Dio-agape, di Dio-comunione (cf 1Gv 1,3; 4,8), un segno certamente piccolo, eppure significativo, di quella “intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, n.1), che è la missione del popolo della Nuova Alleanza. Una missione che coinvolge ed interpella in particolare i Dodici, i loro successori e quanti sono associati a loro mediante il sacramento dell’Ordine, con l’imposizione della mani e l’invocazione dello Spirito (cf 2 Tm 1,6). Il nostro sacerdozio ha in Cristo la sua origine e la sua configurazione essenziale. È riferito al Corpo di Cristo, che è insieme Corpo eucaristico e Corpo ecclesiale. Attraverso l’ordinazione ogni sacerdote viene inserito in un presbiterio concreto attorno al Vescovo. Si tratta non solo di una determinazione giuridica, ma anche di una dimensione teologica e spirituale della nostra identità di preti e della nostra corresponsabilità nell’unica missione. Il rapporto preti-presbiterio-vescovo-chiesa rimanda ultimamente al Vangelo: la Chiesa è per il servizio del Vangelo nella storia degli uomini. Da questa diakonìa la Chiesa riceve la sua forma in modo che sia adatta a suscitare la fede e a dare forma alla vita secondo la fede ecclesiale.

Possiamo allora rendere grazie al Signore per il dono di poter esercitare il nostro ministero come “un’opera collettiva”, come precisa la Pastores dabo vobis (n. 17), operando in modo ecclesiale, in comunione con il Vescovo e con i confratelli. Rendo grazie al Signore e esprimo la mia gratitudine a voi sacerdoti per la dedizione con la quale svolgete il vostro ministero pastorale, invitandovi a sentirvi sempre più parte viva dell’unico presbiterio diocesano, condividendo la missione affidata dal Signore Gesù ai suoi apostoli. Proprio nella Lettera per l’indizione dell’Anno sacerdotale, Benedetto XVI ha scritto che “il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo”. Credo che questa testimonianza di comunione debba davvero confortarci. Essa poi ci stimola a crescere in un atteggiamento di maggiore attenzione e di ascolto reciproci. Anche per aiutarci a comprendere meglio e ad approfondire il significato di alcune scelte pastorali diocesane che intendono rinnovare il nostro slancio missionario: si tratta di ricercare insieme questa slancio dinamico, che non può che essere frutto della corresponsabilità ecclesiale, di una corresponsabilità che è di tutti, secondo doni e compiti diversi e complementari.

2. Apertura a Dio e collaborazione tra noi

2.1. Mentre rendiamo grazie a Dio per il dono della comunione che viviamo nell’amicizia condivisa nel nostro presbiterio, siamo stimolati a rendere missionario sia il nostro cuore sia la nostra comunità, aprendoci alla comunione e vivendola come dono grande ma esigente, che richiede un rinnovamento del nostro stile personale ed ecclesiale.

Missione e comunione procedono insieme. Perché dobbiamo aprirci insieme all’avvento di Dio e alla sua accoglienza nella nostra vita. Perché dobbiamo vivere di fede insieme: l’avvento di Dio, in Gesù, avviene tra gli uomini, si attua dentro la nostra storia di uomini.

Lo Spirito Santo, che è all’opera in noi e nelle nostre comunità, ci aiuta a renderci conto che la Chiesa è, per sua natura, missionaria, come afferma il Concilio (Ad Gentes 2). Più noi riflettiamo sul mistero della Chiesa, più ci rendiamo conto che la Chiesa è missionaria. Essa non esiste per sé, ma per gli altri: per la gloria di Dio e per la salvezza del mondo. Non si può essere Chiesa senza essere missionari, senza aprirci al progetto di Dio e diventando collaboratori e ministri di questo suo progetto.

Questo vale per l’insieme della Chiesa, come comunità dei battezzati sparsi in ogni parte della terra. Questo vale per le nostre comunità locali: in esse, anche se piccole e anche se disperse sui monti, è presente Cristo. Questo vale per ciascuno di noi: “il prete non è prete per sé, lo è per voi”, affermava il Curato d’Ars (citato da Benedetto XVI nella Lettera per l’indizione).

Dobbiamo diventare tutti più consapevoli di questo nesso tra missione e comunione per sentirci mandati, per rievangelizzare persone ed ambienti diventati insensibili o refrattari all’annuncio del Vangelo. Dobbiamo avvertire che solo la consapevolezza dell’invio dà consistenza al volto missionario della Chiesa e al volto di ciascuno di noi.

Credo che siamo invitati a superare quella visione ristretta che ci rinchiude nel “qui e ora” e nel nostro orto: questo non è lo sguardo illuminato e liberato che proviene dal Vangelo, questo è uno sguardo che poco si addice a chi ha la speranza nel cuore e sente di doverla donare ai fratelli. La missione esige un orizzonte ampio.

2.2. Penso che alcune questioni concrete, come il numero delle Messe da celebrare o l’aiuto tra comunità situate in montagna ed altre situate in pianura, potrebbero essere meglio illuminate e meglio affrontate se collocate nel dinamismo della missione e della comunione. Come sappiamo, la pastorale della Chiesa non è un ricettario, ma è una traditio viva che ci coinvolge nella nostra libertà e responsabilità e che si fonda sulla nostra dedizione per la causa del Signore e per il bene del popolo che ci è affidato. In quest’ottica sarà pure importante riflettere insieme sul numero delle Messe, ma ancor più importante sarà ricordare che la missione è iscritta nel cuore dell’Eucaristia, che lo stile missionario non è fuori dalla celebrazione ma è dentro: così si diventa annunciatori del grande evento di grazia che viene celebrato.

Se curiamo la qualità celebrativa dell’Eucaristia, allora la stessa celebrazione appare in tutta la sua bellezza e svolge secondo la sua verità la piena espressività dell’Eucaristia. Lo stile missionario comporta il rilancio della vita liturgica delle nostre comunità, soprattutto là dove è subentrata una certa stanchezza e dove le azioni liturgiche hanno perso agli occhi di molti il loro fascino. La MPD è un’occasione propizia per ripensare la vita liturgica come cuore vivo dell'azione pastorale, destinata a far sì che tutta la vita sia illuminata dalla fede e sia arricchita dalla carità.

Così pure siamo invitati a perseguire con determinazione un cammino che favorisca un dialogo sempre più vivo tra le comunità in vista di una più stretta collaborazione. Siamo incoraggiati a compiere passi concreti per consolidare e dare continuità alla pastorale di insieme tra le comunità cristiane delle Unità pastorali. Non possiamo affrontare gli interrogativi circa la sostenibilità dell’ attuale pratica pastorale nel futuro ormai prossimo se non nell’ottica della pastorale d’insieme.

Inserisco qui la visita che sto facendo a voi, sacerdoti: sarà terminata, credo, entro il mese di agosto. Una visita, come ho detto, che è prima di tutto di amicizia e di conoscenza di voi, sacerdoti, nel contesto in cui operate. Poiché la nostra Chiesa si è impegnata nella MPD – è questa la nostra priorità pastorale, una priorità che rende non attuabile la visita pastorale –, ho pensato che fosse mio dovere incontrarvi nelle parrocchie in cui risiedete e nell’Unità pastorale, anche per poter operare un discernimento più attento in vista dei necessari cambiamenti, richiesti dalle esigenze delle parrocchie, ma che non possono non tener conto delle esigenze dei presbiteri.

2.3. Non credo poi di dire nulla di nuovo sottolineando la necessità di una crescita nella consapevolezza del valore della partecipazione e della corresponsabilità. Gli organismi di partecipazione (Consiglio Pastorale, Consiglio per gli Affari Economici) possono diventare luoghi per un’autentica esperienza di comunione, in cui, senza la confusione di ruoli o funzioni, tutti aprono la mente e il cuore per mettersi insieme in ascolto dello Spirito e insieme cercare le risposte alle esigenze delle nostre comunità.

Così si cresce insieme in quella coscienza di essere tutti membri del Popolo di Dio, sia pur con ministeri molto diversi, chiaramente espressa dai Padri conciliari nella Lumen gentium (n. 10). Desidero in proposito citare una riflessione del Santo Padre Benedetto XVI fatta in apertura di un Convegno della diocesi di Roma (maggio 2009) in cui ha evidenziato la necessità di “migliorare l’impostazione pastorale così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell’insieme di tutti i membri del Popolo di Dio. Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli “collaboratori” del clero a riconoscerli realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato. Questa coscienza comune di tutti i battezzati di essere Chiesa non diminuisce la responsabilità dei parroci. Tocca proprio a voi, cari parroci, promuovere la crescita spirituale e apostolica di quanti sono già assidui e impegnati nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità che farà da fermento per gli altri”.

Come vedete, per il santo Padre il riconoscimento concreto del ruolo dei laici fa crescere “la coscienza comune di tutti i battezzati di essere Chiesa”. Questo risponde alle istanze del Concilio, e risponde pure a quell’idea, anch’essa conciliare, di ampliare gli spazi della missione della Chiesa. Questo è quanto mai importante anche per la stessa vita dei sacerdoti che rischiano ritmi di lavoro difficili da sostenere. Vi invito ad una intelligente valorizzazione della ‘ministerialità’ laicale (uso il termine ministerialità tra virgolette, in senso molto ampio). Proprio il coinvolgimento delle persone e delle famiglie più disponibili e capaci di offrire una viva e concreta testimonianza cristiana può dare nuovo impulso all’attività pastorale all’insegna della missione. Siamo chiamati a dedicare un’attenzione particolare agli animatori, che in questa prima fase della MPD hanno svolto con entusiasmo il loro servizio: vogliamo continuare a coinvolgerli nel loro compito di animazione e di coordinamento. Ma non dimentichiamo che la Missione è popolare e dunque tutti sono invitati a diventare missionari, a mettersi in gioco sulla strada della collaborazione e della corresponsabilità.

3. Per il secondo anno della MPD: fiducia ed entusiasmo, ascolto e invito

3.1. Con una rinnovata convinzione del nostro essere discepoli di Gesù e con una più avvertita e consapevole comunione, siamo più disponibili e più preparati per il secondo anno della MPD.

Innanzi tutto l’orizzonte ampio della missione ci aiuta anche ad avere più fiducia e a generare più fiducia. Perché la fiducia fa parte di quella vita nuova che deriva dallo Spirito Santo, dato a ogni credente: essa fa parte dell’agape, dell’amore che proviene da Dio, quell’amore che il Crocifisso ha vissuto e reso visibile nella storia e che come Risorto continua a riversare sull’umanità nel dono del suo Spirito. Questo dono penetra nel cuore e spinge alla comunione fraterna: “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17, 21). Nella comunione ecclesiale si fa esperienza della fiducia, accolta e donata. Nella lettera ai Galati (5, 22), Paolo presenta il comportamento cristiano come “frutto dello Spiritoe nomina per primo l’agape seguito dalla gioia. Nell’elenco seguono altre manifestazioni dell’agape, dell’amore, della comunione fraterna, della buona relazionalità, della fiducia reciproca: la pace, la longanimità, la bontà, la benevolenza, la fedeltà.

Credo che sia stato positivo – e motivo di fiducia – il primo tempo degli esercizi spirituali popolari nelle Unità pastorali. Al centro dell’esperienza vi è stata la gioia di condividere, insieme ai fedeli laici, l’ascolto orante del Vangelo di Luca, con la possibilità del silenzio e la fecondità dello scambio. Entro gennaio si terranno gli altri due ritiri già predisposti. So che in ogni Unità pastorale si continua a proporre, nella quotidianità, la lettura del Vangelo di Luca attraverso la meditazione personale, gli incontri comunitari, i gruppi di Vangelo nelle case. Nel tempo di Quaresima abbiamo anche vissuto, con larga partecipazione di sacerdoti, religiosi e religiose e fedeli laici, la lectio divina in Cattedrale.

Se i primi cristiani hanno offerto al mondo ciò che essi hanno incontrato, e cioè Gesù Cristo, così anche noi, come comunità cristiane e come persone credenti in Gesù Cristo, siamo invitati a lasciarci affascinare dalla novità dell’evento di Gesù Cristo. Solo se assaporiamo con gioia tutta la grazia di vivere in Cristo una vita nuova, evitiamo di chiuderci in noi stessi, ma trasformiamo questa esperienza in annuncio e testimonianza di Gesù e in nuova fraternità (cf At 2, 42-47; Mt 18; Gv 13, 34-35).

Abbiamo sicuramente ancora vivo il gioioso ricordo della giornata di apertura della Missione popolare dei ragazzi di domenica 18 aprile. I ragazzi, insieme ai giovani ed agli adulti, sono infatti missionari, soggetti e non solo destinatari della Missione. Anzi, sono una risorsa per la comunità, perché aiutano tutti a dire con freschezza e con semplicità la perenne novità del Vangelo.

Nella Veglia di Pentecoste di sabato 22 maggio, ci siamo riuniti in Cattedrale per invocare insieme lo Spirito Santo sul cammino della Missione popolare. Naturalmente lo Spirito Santo lo invochiamo sempre, ben sapendo che è lo Spirito Santo a continuare nella storia la missione di Gesù. Nel lungo discorso di addio che l’evangelista Giovanni ci presenta, Gesù, per ben cinque volte, assicura i suoi discepoli con la promessa del dono dello Spirito (Gv 14, 16-17; 14, 26; 15, 26; 16, 7-11; 16,13-15). È lo Spirito che insegna ogni cosa, è lo Spirito che fa ricordare. È ancora lo Spirito che opera per mezzo degli Apostoli, come ricorda spesso il libro degli Atti degli Apostoli. E nello stesso tempo è sempre lo Spirito che opera anche negli uditori, perché abbiano la vita eterna e conoscano l’unico vero Dio e colui che ha mandato, Gesù Cristo (cf Gv 17,3).

La missione non si fonda sulle capacità umane, ma sul dinamismo e sulla forza dello Spirito. La sua venuta trasforma gli Apostoli in testimoni, infondendo in loro l’audacia che li spinge a trasmettere agli altri la loro esperienza di Gesù e la speranza che li anima. Lo Spirito dà loro la capacità di dire e di testimoniare a tutti che Gesù è il Cristo. E questo con ‘franchezza’, ma anche con entusiasmo e con vigore: il termine greco ‘parresia’ suggerisce anche questi significati, come evidenziava Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio (n. 24), nella consapevolezza che, senza l’entusiasmo, la missione scade. Invochiamo allora lo Spirito Santo e lasciamolo agire in noi, per avere anche in noi quell’entusiasmo che è necessario per la nostra MPD. Sarà bene ricordare ancora che la MPD mira a dare nuova energia ed entusiasmo evangelico alla vita ordinaria delle nostre comunità attraverso la riscoperta e rivitalizzazione delle esperienze fondamentali e costitutive della vita cristiana.

3.2. Nel Consiglio Pastorale diocesano del 20 marzo e nel Consiglio presbiterale si sono raccolti i primi suggerimenti in vista del secondo anno della MPD. I diversi organismi pastorali continuano ad elaborare insieme contenuti, forme e iniziative del cammino del secondo anno. Ma tutti siamo davvero invitati a collaborare e a suggerire.

Nei mesi di settembre-ottobre dedicheremo alcuni momenti di formazione sulle proposte del secondo anno. Come ben sapete, abbiamo immaginato la MPD come un cantiere aperto. Non è stata scelta la strada di una progettazione che fissa sin dall’inizio tutti i passaggi, ma abbiamo scelto di offrire alcuni orientamenti di fondo in base ai quali costruire assieme le tappe del cammino.

Nel primo anno l’intenzione è stata quella di andare alle radici evangeliche della vita cristiana. La dinamica del secondo anno potrebbe essere quella dell’ascolto, dell’apertura, dell’invito: la MPD esige sensibilità e apertura verso tutti.

Sottolineo in particolare l’ascolto. Solo nell’ascolto del fratello possiamo entrare nella sua vita e, se disponibile, accompagnarlo verso la fede perché possa dare forma alla sua vita. Ascoltare è un verbo che ricorre insistentemente nelle Sante Scritture. Innanzi tutto l’ascolto è la condizione per incontrare il Signore, è la strada per avvicinarsi a Lui. Ma è anche il luogo di attenzione per diventare ‘prossimi’. Quindi l’ascolto dei fratelli è una scelta esigente che deriva dalla fedeltà al Vangelo: solo ascoltando, possiamo testimoniare la fedeltà al Vangelo. Se l’amore di Dio comincia nell’ascolto della sua Parola, così l’amore per il fratello comincia dall’ascoltarlo, dall’imparare ad ascoltarlo. È il primo servizio che si deve al prossimo, per accoglierlo e per condividere in tratto di strada. È un serio impegno missionario quello dell’ascolto, perché ridà all’altro la dignità, lo responsabilizza, lo accompagna, lo aiuta, gli fa spazio per inserirlo nella comunità, gli offre motivi di speranza. Questo vale per ogni persona, soprattutto quando versa nel bisogno. Credo che in varie forme la nostra Chiesa sappia venire incontro alle persone in difficoltà offrendo risposte concrete alle diverse forme di povertà, non solo materiale. Un bene enorme, spesso nascosto, di cui solo Dio conosce fino in fondo tutta la ricchezza. Ma l’attenzione all’ascolto vale per tutte le persone. Vale in particolare per i giovani: desideriamo ascoltarli nei loro bisogni più profondi per accogliergli, per incoraggiarli, per sostenerli nella loro ricerca. Vale per la vita nelle sue espressioni più significative. Siamo invitati a mettere sempre in circolo l’ascolto della Parola e l’ascolto della vita. Come ha evidenziato Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (n. 6), “la ‘città dell'uomo’ non è promossa solo da rapporti di diritti e doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione”: questi relazioni sorgono là dove ci si ascolta e ci si accoglie.

Sottolineo poi, insieme all’ascolto, l’importanza dell’invito. Sì, desideriamo invitare ed ospitare: per dialogare, per condividere un’esperienza di vita, per esercitare insieme l’intelligenza aperta alla verità, per ridare senso alla cultura nell’orizzonte del Vangelo. Siamo consapevoli di avere nel Vangelo un dono prezioso, una risorsa insostituibile per la vita buona del mondo e di ogni persona, per donare luce all’esperienza umana del nascere, dell’amare, del soffrire, del morire. Il Vangelo è la notizia sempre nuova della bontà di Dio che si china su di noi per aiutarci a vivere come figli. Per questo la Chiesa ascolta, invita, accoglie, si fa ospitale: ha un dono grande da condividere, un dono che non le appartiene perché è destinato a tutti.

Non siamo estranei all’odierno travaglio culturale, anche perché ci interpella e ci coinvolge. Così risuonano per noi le parole di Paolo VI nell'enciclica Ecclesiam suam: “La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (n. 67). Desideriamo cercare insieme nuove vie di dialogo e nuove forme di invito e di ospitalità, aprendo le nostre comunità ecclesiali e sforzandoci di incontrare gli uomini dove vivono e operano, dove soffrono e gioiscono. Potrebbe essere molto utile, a questo proposito, recuperare gli ambiti del Convegno ecclesiale di Verona, che invitano a condividere il Vangelo (accolto, annunciato e pregato) come Parola buona sulla fragilità (felicità e sofferenza / sofferenza e fragilità), sulle relazioni (vita affettiva), sul modo di vivere il tempo (festa, lavoro), sulla cittadinanza.

Concludo con una frase della Nota pastorale dell’Episcopato italiano Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004): “Nella vita delle nostre comunità deve esserci un solo desiderio: che tutti conoscano Cristo, che lo scoprano per la prima volta o lo riscoprano se ne hanno perduto la memoria; per fare esperienza del suo amore nella fraternità dei suoi discepoli» (n. 1). Naturalmente questo solo desiderio che tutti conoscano Cristo, auspicato per le nostre comunità, deve essere ben presente nel cuore di tutti noi presbiteri, discepoli, fratelli e annunciatori-testimoni.

+ Gianni Ambrosio

Vescovo di Piacenza-Bobbio