mercoledì 4 agosto 2010

Padre Piccoli, una vita per la missione

Ci sono cose che non si fanno in tempo a fare e che si rimandano per farle dopo. Ma non sempre è possibile. Con padre Franco Piccoli, missionario piacentino in Brasile, avevamo un mezzo appuntamento per un'intervista sulla sua vita. Non abbiamo fatto in tempo. Stavolta il solito crudele male incurabile di questo millennio è arrivato prima. Per questo pubblichiamo gli articoli scritti dopo il funerale.

«Trovate un giovane che parta per il Brasile e mi sostituisca come missionario della Consolata. E se c’è una ragazza, pregate che si consacri e che prenda il posto di suor Leonella». L’ultimo desiderio ha voluto che venisse espresso anche il giorno del suo funerale. Padre Franco Piccoli, 75 anni, ha salutato così i piacentini nel giorno delle esequie con quelle parole affidate per lettera al parroco della Santissima Trinità, monsignor Riccardo Alessandrini, amico e celebrante, ieri, nella cripta della chiesa di viale Dante. Nonostante l’estate avanzata sono stati in tanti (un centinaio di persone) che hanno voluto salutare per l’ultima volta il missionario originario di Bettola con Piacenza e il Brasile nel cuore. In primis la sorella Anna, i nipoti e i pronipoti. A rappresentare il forte legame con la diocesi, il vicario generale monsignor Lino Ferrari, e una decina di sacerdoti che nella vita hanno conosciuto padre Piccoli. Da Torino ha accompagnato le spoglie mortali il provinciale dei Missionari della Consolata dopo che nel capoluogo piemontese, nella mattinata di ieri, si erano svolte le esequie ufficiali del missionario.
In bianco i paramenti dei sacerdoti, invece di quelli viola, come ha voluto lo stesso padre Piccoli. «Il suo funerale deve essere una Pasqua» dice monsignor Alessandrini che rivela come nelle ultime lettere il missionario chiedesse spesso di pregare per lui. «Il Signore - scriveva - mi ha chiamato per la gente e per i poveri, ad gentes e ad pauperes». Ancora, negli ultimi tempi, quando era in cura a Torino: «Spero, terminato il gran caldo, di venire a trovarvi, ma tu fai pregare e prega perché il Signore faccia arrivare nuove vocazioni missionarie alla Consolata... Trova un giovane che mi sostituisca e, se trovi una ragazza interessata, prega perchè si consacri e sostituisca suor Leonella (la piacentina suor Leonella Sgorbati, uccisa nel 2006 a Mogadiscio, ndr.). Piacenza deve continuare ad essere terra di missionari.
Dillo anche al mio funerale».
Federico Frighi

Da Libertà, 29 luglio 2010



L’ultima intervista padre Franco Piccoli l’aveva rilasciata al Cineclub Piacenza, nell’ambito di quell’opera magistrale che sta portando avanti Giuseppe Curallo: ovvero lasciare ai piacentini che verranno grandi e piccole testimonianze dei piacentini di oggi. Il colloquio con padre Franco è avvenuto la scorsa primavera, a Piacenza, in occasione di un intervallo di 15 giorni della terapia medica che il missionario stava seguendo all’ospedale di Torino. Di quel colloquio abbiamo scelto alcuni passaggi.

«Avevo iniziato il mio ministero nella formazione e nell’animazione, in Trentino, poi a Varallo Sesia e a Boario. Ma ero stanco di rimanere sempre qui in Italia e volevo dedicarmi completamente ai poveri del mondo. Fare come le campane che stanno ferme e dicono agli altri di andare in chiesa ma loro non si muovono mai, non era per me. Allora ho chiesto ai miei superiori di partire, di andare a fare un’esperienza più direttamente missionaria. In particolare avevo chiesto la possibilità di andare o in mezzo ai lebbrosi in Africa, o tra gli Indios in Amazzonia. Sono quindi stato inviato in Brasile nel territorio di Roraima, a Manaus.
Era il 1975. Ci sono rimasto cinque anni.
Poi avevano ancora bisogno di me in Italia così sono ritornato per otto anni. Ma sono riuscito a ritornare in missione al servizio direttamente dei poveri. Dodici anni con i baraccati di Manaus, in mezzo agli indios dell’Amazzonia, poi un salto di 5.100 chilometri a Rio de Janeiro, dove ho lavorato in mezzo ai favelados. Infine gli ultimi due anni a Salvador de Bahia con gli allagados, coloro che erano usciti dalle palafitte e che ora si trovavano a reintegrarsi nella società civile. I padri prima di me avevano fatto un ottimo lavoro ed erano riusciti a togliere da una situazione di vita orribile 13mila persone. Allora c’era il problema dell’integrazione nella società e nella Chiesa. Avevo cominciato questo nuovo lavoro quando, venendo in Italia, nel 2009 ho cominciato ad avere problemi di salute.
Speravo che le cose andassero a posto invece non è andata così. E’ cominciato un nuovo calvario e mi hanno detto che in Brasile non ci andrò più. A meno di un miracolo, naturalmente.
Gli aspetti della povertà sono molto diversi a seconda delle varie comunità in cui ho vissuto. A Manaus c’era un problema molto grave nelle baracche di legno, ma la povertà ricca di tanti valori. Ricordo quando queste donne presentavano i loro figli e dicevano di averne altri, bambini abbandonati da mamme che magari erano morte. Li avevano messi tutti insieme nella loro famiglia.
A Boavista invece era diverso.
La Chiesa aveva fatto la scelta preferenziale dei poveri e per noi i poveri erano gli Indios che, da padroni delle terre, erano diventati schiavi, completamente privati di ciò che era essenziale per la propria vita. Bisognava aiutare a trovare la loro identità di popolo. Dovevamo fare in modo che loro diventassero artefici del proprio destino.
A Rio de Janeiro, infine, avevo sette su settecento favelas. C’era tutto il problema del narcotraffico, della gioventù che si buttava nella droga e nella prostituzione. Ricordo che nel carcere sotto la mia parrocchia due fazioni si erano scontrate ed una aveva ucciso 68 persone dell’altra con una ferocia indicibile. La Chiesa qui deve condividere la sorte di questa gente e nello stesso tempo aiutare alla comprensione dei veri valori della vita, perchè non si cada nel gioco delle sette. Movimenti religiosi che dietro alla parola Gesù nascondo denaro e denaro. Diventano quasi multinazionali alterando la testa della gente, sulla teologia della prosperità: più dai più Dio ti darà.
A Salvator de Bahia i nuovi alagados. Qui hanno aiutato molto le adozioni a distanza. Sostegno economico che arriva a queste famiglie tramite i bambini che vengono adottati a distanza dall’Italia. Importante è anche l’opera del presidente Lula che ha stabilito un assegno mensile di 120 real alle famiglie povere a patto che mandassero i figli a scuola.
La cosa più bella della mia vita? Tutta la vita mia vita missionaria. Ne ho molta nostalgia. Non so come andrà a finire ma non mi faccio molte illusioni perché i medici non me ne danno. Cercherò comunque di aiutare i poveri anche da qui».

Da Libertà, 29 luglio 2010