domenica 17 gennaio 2010

La tragedia del Pendolino 13 anni dopo

Martedì 12 gennaio alla stazione di Piacenza si è tenuta la tredicesima commemorazione della tragedia del Pendolino. E' passato qualche giorno ma pensiamo sia utile riproporre su Sacricorridoi la bella omelia con cui don Giuseppe Basini, parroco di Sant'Antonino, ha voluto ricordare quel giorno. Eccola qui di seguito:

Domenica 12 gennaio 1997. Sono trascorsi tredici anni da quella terribile giornata che ha aperto una ferita profonda, difficilmente rimarginabile, nel cuore di tutti i familiari delle vittime e di molte altre persone che hanno partecipato con intensità e verità al loro dolore. Personalmente, porto ancora nel cuore lo sconcerto sperimentato in quella triste e fredda giornata. Certamente sono stato tra i primi ad essere informato dell’accaduto perché in quel periodo svolgevo l’incarico di segretario particolare del vescovo di Piacenza monsignor Luciano Monari. Quel giorno, pur non conoscendo personalmente nessuna delle persone coinvolte nell’incidente, da subito mi è venuto spontaneo invocare l’aiuto di Dio per i familiari che, improvvisamente, erano stati chiamati a portare il gravoso peso dell’assenza di una persona cara e familiare. Umanamente la morte è una sentenza senza appello; è possibile scalfirla unicamente facendo memoria della persona amata. Vorrei quindi che in questo momento tutti noi potessimo rivolgere un pensiero grato e carico di affetto a Pasquale Sorbo, Lidio De Santis, Francesco Ardito, Gaetano Morgese, Cinzia Assetta, Lorella Santone, Carmela Landi e Agatina Carbonaro. E’ doveroso e motivo di fecondità spirituale, civile e religiosa, fare memoria delle loro persone e, per chi ha avuto la grazia di conoscerli e di amarli, della loro testimonianza. Perché senza memoria non c’è futuro e possibilità di costruire un mondo migliore, più umano e più giusto.
Come disse il vescovo Luciano durante la celebrazione eucaristica un anno dopo l’incidente, “occasioni dolorose come questa, non possono che richiedere parole di speranza. Ne abbiamo bisogno, perché senza il sostegno della speranza non si riesce a vivere, non si possono affrontare le sfide difficili del tempo. Ma le parole di speranza, pur belle, rischiano di rimanere soltanto parole; possono esprimere una sincera solidarietà umana, la vicinanza del cuore e dei sentimenti, ma sembrano destinate a infrangersi contro il muro impenetrabile della morte. Ecco perché è importante che le parole umane, necessarie ma deboli, si appoggino sulla parola di Dio, potente nella sua misericordia”. Abbiamo bisogno della Parola di Dio che ci può aiutare a interpretare nella direzione giusta il lutto che tredici anni fa ha colpito otto famiglie e l’intera città di Piacenza.
Punto di partenza è il riconoscimento della nativa fragilità della condizione umana. L’uomo è grande nella sua intelligenza creativa, nella sua forza morale, nella sua capacità di amore e di sacrificio. Ma tutta questa ricchezza, è contenuta in un involucro debole e fragile. Basta un microscopico virus a bloccare la nostra esistenza; basta poco per porre fine all’avventura umana di una persona. E allora? Diremo che l’esistenza umana è uno scherzo dal momento che basta così poco per vincerla? O ci abbandoneremo alla disperazione o al fatalismo, dal momento che non riusiamo a proteggerla sempre dai rischi?
Questo significherebbe cedere alla potenza della morte. Ma il vangelo ci chiede piuttosto di affermare la nostra fede nella vita nonostante tutto e contro tutto. Dice Gesù: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati voi che ora piangete, perché riderete”. Queste parole, non vogliono essere una facile e illusoria consolazione. Come diceva il poeta francese Paul Claudel: “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza”. Le spiegazioni filosofiche della realtà del dolore sono spesso sterili. Cristo non è venuto a giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema di pensiero convincente. Egli è venuto a condividere il nostro limite, assumendolo in sé. L’amore di Dio non ci protegge da ogni sofferenza, ma ci sostiene in ogni sofferenza. L’esperienza del dolore può essere disperante e angosciante, anche perché è come essere in una prigione che ci stringe e ci soffoca. L’ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: egli non elimina la nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta e ci prende per mano, per condurci oltre quel carcere, cioè oltre la sofferenza e la morte. La fede ha il compito di svelarci ciò che attende il nostro soffrire e morire: non è il gorgo oscuro del nulla e del non senso, ma la liberazione definitiva verso quella pienezza cantata dall’Apocalisse: nella città di Dio “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).
Tutti noi abbiamo perduto persone care alle quali la nostra vita era attaccata con un filo di affetto solido e consolante; e tutti noi – seppure in modi diversi – abbiamo dovuto misurare la nostra debolezza di fronte alla morte. Io prego perché il ricordo delle persone care, del loro volto, del loro sorriso, delle loro parole, non diventi motivo di tristezza infinita ma produca un amore ancora più grande e più maturo per la vita. È il modo giusto, credo, per onorare i nostri cari e dare valore al loro stesso sacrificio. Non vorrei che in noi venisse meno la capacità di reagire e di sperare. Per questo prego il Dio della vita per me e per voi.