domenica 10 aprile 2011

Vicini e lontani/ A Brescia la lettera del vescovo Luciano Monari sui migranti

L’immigrazione in Italia è uno dei fenomeni più rilevanti
degli ultimi anni, un fenomeno che è destinato a segnare
in modo significativo il futuro del nostro paese come,
d’altra parte, il futuro dell’intera Europa occidentale.
Come è inevitabile, questo fenomeno produce una serie di
problemi che è compito della politica affrontare e risolvere
nel modo migliore. Ma il problema non è solo politico;
è anzitutto un problema umano, quello dell’incontro, del
confronto e dell’interazione di persone che provengono
da paesi diversi, parlano lingue diverse e sono portatrici di
culture diverse. Non mi è naturalmente possibile affrontare
i numerosi e complessi problemi che questo fenomeno
pone e che vanno ben al di là delle mie competenze. Ma
come vescovo non posso non interrogarmi sul significato
del fenomeno e sulla risposta che la comunità cristiana è
chiamata a dare. Provo allora a dire quello che mi sembra
sia l’essenziale.
1. Il fenomeno dell’immigrazione. La prima domanda
riguarda le comunità cristiane: diocesi, parrocchie,
gruppi ecclesiali; come debbono interpretare il fenomeno
dell’immigrazione? e quale atteggiamento debbono tenere
nei confronti degli immigrati? Non è difficile capire che il
fenomeno delle migrazioni, degli spostamenti dell’uomo
da una terra all’altra è antico quanto l’uomo stesso. Le condizioni
di vita variano da un posto all’altro, si modificano
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col passare del tempo e l’uomo tende naturalmente a cercare
quelle condizioni di vita che offrano opportunità più
grandi e permettano un benessere maggiore. C’è una radicale
inquietudine nell’uomo, che non gli permette mai
di accontentarsi di quanto conosce e possiede e lo spinge
a una conoscenza sempre più ampia, a una crescita incessante
dal punto di vista economico, culturale, relazionale.
Proprio per questo la storia dell’uomo è affascinante e tragica
nello stesso tempo: è stata, ed è, un’immensa avventura
che ha accresciuto nell’uomo la coscienza di sé e la consapevolezza
delle sue possibilità; che ha portato a una conoscenza
e a un controllo maggiore sull’ambiente di vita fino
a trasformarlo e a renderlo adatto alla vita dell’uomo. Basta
pensare a quella straordinaria realizzazione che sono le città
moderne con la loro ricchezza e complessità che permette
di soddisfare un numero impensabile di bisogni e di desideri.
Tutto questo, però, pagando un prezzo a volte elevato
di sofferenze, paure, insuccessi.
C redo che si debba vedere l’immigrazione all’interno
di questo fenomeno più ampio e tipicamente umano: la
ricerca di condizioni di vita sempre migliori, l’impulso ad
allargare gli interessi e le relazioni fino a comprendere, al
limite, tutte le persone. D’altra parte, la storia della salvezza
inizia con una migrazione, quando il Signore disse ad
Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, dalla
casa di tuo padre verso la terra che io ti mostrerò. Io ti be6
nedirò…” Spinto da questa parola, Abramo è vissuto come
(semi)nomade, ha percorso tutto il margine della mezzaluna
fertile per giungere nella terra di Canaan dove ha abitato
come straniero e ospite. E quando la terra di Canaan
fu colpita dalla carestia, Abramo e i suoi discendenti cercarono
altre terre dove poter sopravvivere e migrarono in
Egitto. Diverso è il motivo della migrazione opposta, quella
che dall’Egitto condusse i figli di Giacobbe verso la terra
di Canaan al tempo di Mosè: fu la politica di sterminio
da parte di Faraone a muovere Dio perché salvasse il suo
popolo conducendolo verso un’altra terra. Ma proprio la
storia dell’esodo ci dice il paradosso presente nel fenomeno
della migrazione: gli Israeliti, minacciati di sterminio,
migrarono verso la terra di Canaan; ma questa terra era già
occupata e l’insediamento non poteva avvenire senza contrasti,
guerre, sofferenze.
Sarebbe ingenuo cercare nella Bibbia la soluzione ai
problemi attuali dell’immigrazione; ma nell’esperienza di
Israele possiamo intravedere la profondità del fenomeno,
la sua complessità e anche le tensioni che inevitabilmente
porta con sé. Sognare un mondo dove ciascun popolo abbia
una sua terra, viva entro confini ben determinati e non
abbia contrasti con altri popoli ed altre terre è illusione; e
le illusioni servono solo a preparare risvegli più amari. Vale
la pena prendere atto della situazione per imparare a controllarla
e dirigerla al meglio; come?
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2. Comunità cristiana e immigrati. È giusto anzitutto
chiederci che cosa ci domanda il Signore attraverso questo
imponente fenomeno. Giungono nella nostra terra persone
che provengono da altre Chiese: cattolici provenienti dall’America
Latina, ortodossi che vengono dall’Europa orientale,
cristiani cattolici e protestanti che vengono dall’Africa
e dall’Asia. Come comportarci? Ogni comunità cristiana è
una realizzazione particolare dell’unica Chiesa santa, cattolica
e apostolica. Ogni comunità cristiana è quindi chiamata
ad accogliere i credenti battezzati da qualunque parte essi
provengano: sono a pieno titolo membri delle nostre stesse
comunità – come noi e non meno di noi. Questo richiede
una sensibilità attenta sia da parte di chi arriva sia da parte
di chi accoglie. Un cattolico che viene dall’America Latina
arriva in una comunità cristiana organizzata, che ha una sua
identità e una sua storia. Proprio perché identità e storia della
Chiesa bresciana sono ricchissime è molto facile che chi
viene da fuori si senta estraneo e abbia, all’inizio, l’impressione
di essere respinto dalla nuova comunità: quanto più
una comunità è ‘strutturata’, tanto più alta appare la soglia
di ingresso. È necessario impegnarsi attivamente per offrire
un’accoglienza calda; ci vogliono persone che prendano l’iniziativa
di andare incontro ai nuovi arrivati, di interessarsi
di loro, di introdurli poco alla volta nei diversi luoghi e alle
diverse iniziative della parrocchia. Si tenga presente che una
rete pastorale così fitta come quella presente a Brescia è
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abbastanza rara nel mondo e che quindi un certo senso di
disorientamento diventa molto facile. Per questo non possiamo
lasciare all’iniziativa degli immigrati tutta la fatica di
inserirsi nella comunità; deve essere anche la comunità che
se ne fa carico in modo esplicito. Anche nel caso più felice,
però, i nuovi arrivati non potranno integrarsi immediatamente;
hanno alle spalle tradizioni proprie, soprattutto
pensano e parlano spontaneamente in una lingua propria.
Anche se apprendono l’italiano, sarà difficile che riescano
davvero a ‘pensare italiano’. Per questo la diocesi ha eretto
una missio cum cura animarum, con il suo centro alla Stocchetta,
che opera in vari luoghi del territorio diocesano grazie
all’apporto di missionari di varie etnie. Alla Stocchetta
viene celebrata regolarmente l’eucaristia nelle principali lingue
(inglese, polacco e spagnolo); in altre chiese vengono
celebrate Messe in francese, inglese (per gli Africani e per i
Filippini), cingalese, ucraino. Partecipare a queste eucaristie
celebrate nella lingua nativa permette ai cristiani immigrati
di sentirsi a proprio agio, di comunicare con connazionali,
di pregare secondo forme loro usuali. Sono convinto che
per la prima generazione di immigrati questo servizio sia
indispensabile; pur con le poche forze di cui disponiamo,
dobbiamo cercare di garantirlo. Tutto questo non significa
che le parrocchie di residenza possano disinteressarsi degli
immigrati cattolici delegando tutto alla ‘Migrantes’. Anzitutto
perché non tutte le domeniche sarà possibile per gli
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immigrati raggiungere questi centri etnici; ma soprattutto
perché è importante che i nuovi arrivati si integrino nel
territorio in cui risiedono. Ciò richiede che si creino legami
di conoscenza e di stima con i cristiani residenti; che
si vivano momenti di preghiera comune, di festa comune.
Se un immigrato si sente cercato e accolto, si integrerà più
facilmente nel territorio; e soprattutto avrà chiara la percezione
che la fede crea tra tutti i battezzati un legame saldissimo,
maggiore di quello che nasce dalla medesima cultura.
Non sto esagerando. A chi gli annuncia: “Ecco tua madre
e i tuoi fratelli ti cercano”, Gesù risponde: “Chi è mia madre
e chi sono i miei fratelli?... Chiunque fa la volontà del
Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e
madre.” Gesù vuole dire che la condivisione della medesima
fede crea tra le persone un legame più forte dello stesso
legame di sangue, di parentela. Davvero la Parola di Dio ci
rigenera; davvero a motivo di questa parola siamo figli di
Dio; davvero l’essere figli di Dio fa di noi dei fratelli e delle
sorelle in senso reale. Questo legame di fraternità manifesta
tutta la sua forza proprio nel rapporto con persone che
non abbiamo mai visto né conosciuto prima e che tuttavia
riconosciamo vicine a motivo del medesimo battesimo che
ci unisce realmente a Cristo, del medesimo Spirito che anima
i nostri sentimenti. In questa linea vanno valorizzate
tutte le occasioni per introdurre i cristiani immigrati nella
vita della comunità: feste, incontri di caseggiato, gruppi
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di ascolto della Parola di Dio, devozione mariana; e vanno
colte le occasioni di incontro e di aiuto reciproco.
Un ragionamento analogo andrà fatto per i cristiani ortodossi
e per i protestanti o evangelici. A livello della carità,
della comunione della collaborazione e dell’aiuto reciproco
non ci sono limiti; a livello dell’espressione della fede (cioè
per la partecipazione ai sacramenti) bisogna che tutto sia
fatto con chiarezza e senza ambiguità; la confusione non
giova a nessuno. Per i particolari rimando ai diversi documenti
della Santa Sede nonché al prezioso “Vademecum
per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali
non cattolici” pubblicato dalla Cei.
Un problema nuovo e complesso riguarda i movimenti,
le sette, le molteplici comunità religiose che, nate in Africa
e in America Latina, si stanno impiantando anche in mezzo
a noi e attirano numerosi seguaci. Da una parte, questi
movimenti sono il segno del forte bisogno religioso che è
presente nella nostra società; dall’altra parte, però, si tratta
di esperienze radicalmente lontane dalla fede cattolica.
Alla loro origine non sta la rivelazione concreta, storica di
Dio in Gesù di Nazaret, ma la soddisfazione di un bisogno
psicologico soggettivo.
P er questo è necessaria una grande cautela. Bisogna che
i nostri fedeli siano avvertiti del pericolo che questi movimenti
rappresentano per la fede; e bisogna che la nostra
prassi pastorale sia chiara, non ambigua. Non deve passare
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l’idea che si possa essere cristiani mettendo insieme esperienze
religiose contraddittorie. È per questo motivo che
non si debbono offrire (o affittare) gli ambienti parrocchiali
per incontri di questi movimenti o per pratiche psicologiche
che sconfinano nel religioso.
3. Il dialogo con credenti di altre religioni. Naturalmente
i problemi più difficili si presentano nel rapporto
tra la comunità cristiana e immigrati di altre religioni:
musulmani, induisti, buddisti… Con tutti questi non c’è
evidentemente una comunione di fede. Possiamo allora disinteressarcene?
Naturalmente no. Dobbiamo partire dalla
convinzione che tutti gli uomini formano una famiglia unica,
voluta e creata da Dio. C’è dunque un amore eterno
e generoso di Dio che si rivolge verso ogni creatura umana;
e se Dio ama ciascun uomo, lo stesso amore aperto a
tutti è chiesto a ciascuno di noi. Non possiamo disprezzare
nessuno, non possiamo essere indifferenti all’esperienza
di nessuno; siamo chiamati ad amare tutti e cioè a volere
e difendere la vita di tutti. Su questo non ci sono dubbi o
incertezze.
N aturalmente questo non significa essere relativisti e
cioè pensare che tutte le religioni siano uguali e che tutte
le appartenenze religiose si equivalgano. Può confondere le
religioni in una miscela indistinta solo chi non le conosce
o chi ritiene che nell’ambito della religione non ci sia que12
stione di vero e falso, ma solo di preferenze personali. Non
è certo questo la concezione cristiana della religione. Noi
siamo convinti che Dio si è rivelato in pienezza nella vita,
nella morte e nella risurrezione di Gesù di Nazaret; siamo
quindi convinti che la rivelazione dell’amore di Dio che ci
è data in Gesù e che il comandamento dell’amore fraterno
siano ‘veri’ e cioè comandino la sottomissione della nostra
intelligenza, l’obbedienza della nostra vita. Ma questo non
ci porta a disprezzare le altre religioni e gli altri credenti.
Anzitutto perché tutte le religioni conoscono e proclamano
alcuni aspetti veri di Dio e dell’uomo e possono favorire
la crescita della convivenza umana nel rispetto reciproco.
In secondo luogo perché la persona umana è un soggetto
cosciente di sé, libero e responsabile; è un dovere etico
rispettare il cammino di libertà responsabile che ciascuno
riesce a percorrere.
L’unico atteggiamento personale davvero disprezzabile
è quello inautentico, cioè quello che non si lascia guidare
dalla verità conosciuta, ma che ‘bara al gioco’ e cioè rifiuta
per interesse o per capriccio quello che pure sa essere vero;
insomma, quello che non è pulito nella coscienza. Ma
il giudizio sulla coscienza delle persone solo Dio è in grado
di darlo. Noi possiamo solo vedere l’esterno, ipotizzare
i processi che stanno dietro ai comportamenti, ma senza
dare giudizi definitivi. Per questo è doveroso verso tutti
quell’amore che accetta cordialmente l’esistenza dell’altro,
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considera questa esistenza una ricchezza per il mondo e per
se stessi, prende posizione a favore della vita dell’altro in
modo da proteggerla, per quanto è possibile. Con tutti gli
uomini i cristiani condividono l’esistenza, con tutti sono
destinatari dell’amore di Dio; di conseguenza sono chiamati
a collaborare insieme con tutti nelle cose che favoriscono il
bene sociale: si pensi all’attività economica, alla vita politica,
al volontariato, alle diverse iniziative che possono essere
prese a favore della pace, della concordia tra i popoli, della
difesa dell’ambiente e così via.
Spesso accade che bambini e ragazzi di altre religioni
partecipino alla vita degli oratori e costruiscano nell’oratorio
rapporti sinceri di conoscenza, di rispetto e di amicizia.
Sono esperienze da incoraggiare perché creano fiducia e
contribuiscono a migliorare il clima stesso della convivenza
sociale. L’unica avvertenza è che la presenza di ragazzi
di altre religioni non affievolisca l’impegno di fede, di maturazione
ecclesiale dei gruppi di ragazzi. L’oratorio è luogo
aperto a tutti, ma con una proposta forte di impegno
umano ed ecclesiale.
È positivo che la comunità cristiana organizzi o partecipi
a momenti di dialogo, confronto, festa insieme con tutti.
Questi momenti, se sono compiuti correttamente, favoriscono
l’incontro tra le persone, sciolgono alcuni sospetti e
timori istintivi, creano ponti di collegamento che superano
l’isolamento e diminuiscono la paura. Certo, bisogna avere
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coscienza delle diversità culturali, dei modi diversi nei quali
le singole culture si esprimono, dei valori che vengono
messi in gioco. Non è con il cosiddetto ‘buonismo’ che si
matura; col termine ‘buonismo’ intendo l’atteggiamento
che si preclude per principio di vedere le cose negative, di
individuare gli ostacoli e gli errori; che giustifica ogni cosa
e vuole omogeneizzare le culture senza prendere seriamente
coscienza delle diversità e a volte delle opposizioni che
sono presenti. Il dialogo ha bisogno di una grande apertura
di orizzonte e quindi di studio accurato, di equilibrio
nell’interpretazione, di saggezza nelle decisioni; un buonismo
irenico finisce per produrre danni maggiori.
P er questo motivo bisogna essere prudenti a organizzare
momenti di preghiera insieme. Si tratta di cosa buona che
può favorire il rispetto reciproco; ma è necessario evitare i
rischi di sincretismo o di relativismo, come se le diversità
di fede e di preghiera fossero irrilevanti. È vero che Dio è
più grande di tutte le nostre idee e di tutte le nostre immagini.
Ma non è vero che, per un cristiano, qualsiasi idea o
immagine di Dio sia accettabile.
4. L’annuncio del vangelo a tutti. Tra i compiti della
comunità cristiana sta necessariamente quello dell’annuncio
del vangelo a tutti, nessuno escluso. Siamo convinti che
in Gesù Cristo Dio ha mostrato e donato il suo amore a
tutti gli uomini; possiamo solo desiderare che tutti gli uo15
mini riconoscano e accolgano l’amore di Dio. Per questo
l’annuncio missionario del vangelo è un atto di amore; nasce
dal desiderio sincero di fare conoscere l’amore di Dio e
dall’amore sincero verso tutti gli uomini.
C hi nel suo cuore disprezza gli altri o li considera inferiori
o li esclude dalla sua amicizia, per ciò stesso diventa
incapace di annunciare loro il vangelo. La missione o
nasce dall’amore o non è missione. Forse proprio qui sta
la distanza della missione autentica dall’indifferenza e dal
proselitismo. L’indifferenza non si prende cura alcuna degli
altri: vede che esistono ma volta lo sguardo da un’altra
parte; si preoccupa solo di difendere il suo benessere e la
sua presunta superiorità. A sua volta il proselitismo nasce
dal bisogno di rendere più forte la propria parte (e quindi
se stessi); considera l’altro come un patrimonio potenziale
di cui appropriarsi; mette in opera tutti i mezzi per
conquistare l’altro al proprio ‘partito’ religioso; non nasce
dall’amore per l’altro, ma dall’affermazione di sé.
P ossiamo condurre gli uomini a credere nell’amore di
Dio solo amandoli concretamente, con un amore sincero
e generoso, con una prassi di vita che sia fraterna e accogliente.
Danno di Dio una pessima immagine coloro che
si mostrano fanatici o faziosi o settari; coloro che disprezzano
chi non ha la loro fede; coloro che respingono con
indifferenza chi non condivide il loro modo di pensare e
di agire.
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5. La responsabilità politica dei cristiani e l’immigrazione.
Ma il problema dell’immigrazione non riguarda solo
la prassi della comunità cristiana al suo interno. I cristiani
sono chiamati a partecipare alla vita politica che definisce
i parametri della convivenza delle persone; e debbono fare
questo in un modo che sia coerente con la loro fede. Che
cosa significa questo? Quali sono le conseguenze del vangelo
nel modo di affrontare il problema dell’immigrazione?
Vorrei stare lontano da ogni massimalismo che abbraccia
una posizione, la estremizza senza sfumature, e si rifiuta di
prendere in considerazione le opinioni e le motivazioni altrui.
Per questo mi sembra insostenibile sia la posizione di
chi ritiene necessario ‘accogliere tutti’ sia quella di chi vuole
‘chiudere a tutti’. L’accoglienza dell’altro che il vangelo
chiede – e la chiede davvero! – deve saggiamente fare i conti
con le possibilità concrete, in modo che l’accoglienza non
produca danni maggiori. Accogliere tutti indiscriminatamente
può provocare alterazioni traumatiche della vita economica,
delle relazioni politiche, delle relazioni culturali e
della coesione sociale. A soffrirne sarebbero non solo coloro
che accolgono, ma anche quelli che vengono accolti e che
si troverebbero in una società impoverita, incapace di dare
a loro la speranza che cercano. Viceversa ‘respingere tutti’
è oggettivamente impossibile. C’è un dovere riconosciuto
con accordi internazionali di accogliere i rifugiati che fuggono
da condizioni di ingiustizia e di oppressione; a questo
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dovere nessun paese può legittimamente sottrarsi. E c’è un
dovere di solidarietà di non rifiutare l’aiuto a chi vive situazioni
di povertà. I beni della terra sono di tutti; debbono
servire per il sostentamento di tutti. Chi (come noi) ha ricevuto
in eredità una condizione privilegiata deve rendere
grazie a Dio ma deve, nello stesso tempo, sentire e vivere
la responsabilità verso chi è stato meno fortunato. Per di
più, del lavoro di immigrati abbiamo bisogno: molti nostri
anziani vivono decentemente la vecchiaia per l’assistenza di
tante badanti; molti posti dell’industria e dell’agricoltura
sono coperti da immigrati; molti servizi vitali dipendono
da loro e così via. Rifiutare tutti gli immigrati significherebbe
un abbassamento drastico del nostro stesso tenore di
vita.
I l fatto che nessuna delle due tesi estreme sia accettabile
significa che la soluzione può essere cercata solo attraverso
l’equilibrio dei valori che sono in gioco e che sono diversi:
valori politici, economici, personali (sicurezza delle persone;
ordine sociale; rispetto dei diritti di ciascuno; produzione
di beni e loro equa distribuzione; dignità della persona;
possibilità di guadagnare il necessario per vivere e per mantenere
la propria famiglia e così via). È difficile avere una
formula precisa che determini quanti e quali immigrati si
debbano accettare, quanti e quali si possano rifiutare. Ma
proprio questo dovrebbe avvertirci che il dibattito non è
tra buoni e cattivi, ma tra valutazioni diverse dell’equilibrio
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migliore. Possiamo appassionarci per la nostra valutazione,
ma non dobbiamo considerare quelli che pensano diversamente
indegni di attenzione o di rispetto: questo altererebbe
il confronto e lo trasformerebbe in conflitto, anzi in
un conflitto non risolvibile. Bisogna piuttosto imparare a
riflettere sui dati concreti e sulle motivazioni reali: su questi
il confronto può essere fecondo e può condurre a giudizi
più intelligenti, a decisioni più sagge.
N on sono quindi in grado di risolvere una volta per
tutte il problema. Credo però si possano ugualmente dire
alcune cose. La prima è che chi lavora presso di noi e contribuisce
in questo modo al nostro benessere ha il diritto
di vedere riconosciuta la propria attività e di essere messo
in regola. Se un’immigrata accudisce un anziano italiano e
compie in questo modo un reale servizio al benessere della
nazione italiana ha il diritto di essere regolarizzata. Certo,
l’Italia può scegliere di fare a meno di immigrati e provvedere
da sé ai suoi bisogni; ma se non riesce a fare questo e
i suoi cittadini fanno ricorso a immigrati per compiere un
servizio utile, che migliora il benessere degli Italiani, l’Italia
non può rifiutare a queste persone il riconoscimento giuridico
e la garanzia di quei servizi che noi abbiniamo coerentemente
al lavoro (sanità, scuola). Quando una coppia di
Italiani mette al mondo un figlio, lo Stato riconosce a questo
figlio tutti i diritti propri dei cittadini italiani. Quando
un Italiano fa lavorare un operaio per la sua ditta – il cui
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profitto va a beneficio di tutta la nazione – oppure gode
di un servizio alla persona che lo Stato non è in grado di
garantire, il riconoscimento giuridico è, mi sembra, moralmente
doveroso. E un politico che voglia dirsi cristiano
è chiamato a favorirlo.
C osì mi sembra da migliorare la norma che toglie automaticamente
il permesso di soggiorno a chi perde il lavoro.
La logica di questa norma appare del tutto egoistica:
“Finché mi servi, ti tengo e faccio uso della ricchezza che
produci; ma, appena la tua presenza smette di servirmi, ti
caccio.” Un meccanismo di questo genere è non solo ingiusto
in sé, ma giustifica nel sentire comune un modo di
ragionare egoista e perciò pericoloso. È illusione credere che
questo sentimento possa essere controllato e diretto solo
verso gli immigrati; una volta ammesso per gli immigrati,
tende necessariamente a diffondersi in tutte le direzioni e
contribuisce ad avvelenare anche il tessuto sociale italiano.
Si provi anche solo a immaginare il carico di insicurezze
che produrrebbe questa logica quando venisse applicata alle
diverse dimensioni della vita sociale.
Va ricordato anche il problema dei bambini nati da
genitori stranieri (che non hanno la cittadinanza italiana)
in Italia e che da sempre risiedono in Italia. A loro la legge
attuale, riconoscendo solo lo ius sanguinis, non riconosce
la cittadinanza italiana. Il problema è spinoso perché
questi bambini sono, dal punto di vista culturale, italiani:
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parlano la nostra lingua, frequentano le nostre scuole e vivono
i rapporti di amicizia e di dialogo con ragazzi italiani;
godono e soffrono le nostre ricchezze e le nostre povertà.
Costringerli a essere cittadini di uno Stato che non conoscono
(quello dei loro genitori) e rifiutare la cittadinanza
dello Stato che li ha educati, mi sembra illogico. Il rischio
è fare di loro delle persone culturalmente apolidi: che non
appartengono al paese dove abitano e non hanno niente a
che fare col paese di cui hanno la cittadinanza. Per questo
chiedo ai politici di fare il possibile perché questi bambini
siano ammessi a pieno titolo nel nostro paese: sono una
delle ricchezze che possono aiutarci a superare l’handicap
del declino demografico; i nostri figli hanno interesse (anche
economicamente) ad averli come compagni di lavoro
e di vita.
È evidente che la persona non può essere pensata senza
la sua famiglia. Bisogna quindi cercare di favorire i riavvicinamenti
familiari. Se accogliamo un emigrato, non possiamo
rendere impossibile per la sua famiglia raggiungerlo; e,
nello stesso modo, dobbiamo favorire l’inserimento scolastico
dei suoi figli. Bisogna considerare che un immigrato
è, dal punto di vista economico, un guadagno significativo.
Per condurre un bambino italiano all’età in cui può lavorare
e produrre, la famiglia spende un patrimonio significativo
e lo stato impegna servizi costosi. Ricevere come
operaio un giovane di venti, trent’anni significa godere il
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frutto del lavoro di un adulto senza aver dovuto spendere
nulla per formarlo. Quello che lo Stato può spendere per
la sua famiglia e per la scolarizzazione dei suoi figli è, in un
certo senso, il pagamento di un debito.
I nfine un politico è chiamato a evitare e impedire qualsiasi
forma di discriminazione. Con questo termine mi riferisco
a comportamenti vessatori che trasformano i diritti
in scelte di compiacenza; che usano le lentezze burocratiche
per sfiancare le persone e costringerle alla rassegnazione o
alla rinuncia; che usano due pesi e due misure a seconda
della nazionalità o del colore della pelle. Non è lecito a un
cristiano approfittare della condizione di debolezza del contraente
immigrato per imporre contratti non equi (penso
naturalmente ai contratti di affitto o di lavoro). Discriminare
può sembrare una scelta vantaggiosa, se si considera
solo il profitto economico; in realtà si tratta di un comportamento
che usa l’altro come fosse una cosa e finisce – per
una specie di effetto-boomerang – per corrodere l’anima
di chi lo compie. È un veleno sottile che s’insinua nella coscienza
delle persone e distrugge la loro sensibilità umana:
quando so, anche se esternamente lo nego, di avere umiliato
deliberatamente una persona, perdo la stima di me stesso,
del mio valore di persona e questo produce in me insicurezza
e senso di privazione. Quando impongo un contratto
non equo, inevitabilmente sono portato a pensare che
l’equità sia illusione e finisco per sentirmi io stesso in balia
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dell’arbitrio e dell’interesse egoistico degli altri. Insomma,
l’ingiustizia non solo priva chi la subisce di un diritto che
gli compete, ma priva chi la commette della nobiltà che gli
appartiene come ogni persona umana.
6. Conclusione. Ho voluto scrivere questa lettera per
aiutare le comunità cristiane a prendere in considerazione e
affrontare con serenità un fenomeno oggettivamente complesso.
Il contenuto di questa lettera può lodevolmente essere
ripreso e discusso nei Consigli pastorali per vedere quale
sia la situazione concreta nella parrocchia (o unità pastorale),
che cosa si stia facendo e che cosa sia utile fare perché
la comunità risponda efficacemente a ciò che il Signore si
attende da lei oggi. Ogni situazione che viviamo è per noi
una domanda alla quale dobbiamo cercare di rispondere
alla luce del vangelo. Quanto ho scritto è solo un piccolo
capitolo del racconto che dobbiamo scrivere insieme, mossi
dallo Spirito del Signore.
+ Luciano Monari
Vescovo
Brescia, 15 febbraio 2011
Solennità dei SS. Faustino e Giovita,
patroni della città e della diocesi