giovedì 17 maggio 2012

Il cardinale Puljic: prego per una pace giusta per la Bosnia

"Vengo volentieri a Piacenza, celebrerò con voi e pregherò il vostro patrono Sant'Antonino, il giorno prima di festeggiare a Sarajevo Cirillo e Metodio, patroni dei popoli slavi e copatroni d'Europa». In questo intreccio di memoria, esempio e santità, il cardinale Vinko Puljic conferma la sua presenza a Piacenza, invitato dal vescovo Gianni Ambrosio e dal parroco di Sant'Antonino, don Giuseppe Basini, in occasione delle celebrazioni per il santo patrono della diocesi di Piacenza-Bobbio. Lo fa ricevendo una delegazione piacentina recatasi nella capitale Sarajevo e nella città di Jajce la scorsa settimana. L'arcivescovo parlerà alla gente ai Teatini la sera del 3 luglio, intervistato dal direttore di Libertà, Gaetano Rizzuto, e presiederà la solenne celebrazione nella basilica patronale il giorno successivo. Verrà a portare la sua testimonianza di vescovo da un Paese in cui esattamente 20 anni fa iniziava una guerra fratricida e che oggi tenta, con grandi difficoltà, di rialzare la testa.



«Dopo la guerra c'è stato da rinnovare tante case - dice Puljic nel suo italiano imparato da Radio Vaticana - e così è stato fatto, con una ristrutturazione molto più veloce della ristrutturazione dei cuori». Sorride il cardinale, sorride sempre perchè chi ha vissuto cinque anni sotto assedio o sdrammatizza o ci muore. «E' molto importante creare un clima di fiducia, di tolleranza, di perdono e noi capi religiosi lo stiamo facendo e lo faremo anche a settembre nel convegno della Comunità di Sant'Egidio; porteremo a Sarajevo lo spirito di Assisi». «Ma è difficile - ammette - perchè la politica sempre prende una strada diversa. Una politica che è in mano ai musulmani. Noi capi religiosi, compresi quelli musulmani, vogliamo invece creare un nuovo clima, mostrare Sarajevo come capitale per tutti; siano diversi a livello culturale e religioso, ma vogliamo creare una città in cui ognuno ha una sua casa».


La guerra ha dunque terminato il fuoco ma oggi continua con le parole. «Questo è vero - annuisce il porporato -. La guerra è finita ma non si è costruita una pace giusta. L'accordo di Dayton divide la Bosnia-Herzegovina in due parti, di cui una è serba, come una sorta di stato nello stato. Alcuni non possono ritornare in questa zona che si chiama Repubblica Srpska. L'altra parte è quella della Federazione, dove vivono insieme musulmani e cattolici, croati e bosniaci. Una zona a maggioranza musulmana in cui non è facile creare diritti uguali per tutti. La comunità locale gioca sempre a trovare un primo che comandi sugli altri. Ma anche la comunità internazionale sta al gioco. Non aiuta a creare una pace giusta, una pace vera e una prospettiva per vivere in questo paese». «Specialmente i giovani non hanno prospettiva, tanti sono senza lavoro - prosegue il cardinale -. Si stima che il 43 per cento dei giovani non abbia un'occupazione fissa ed io sono stupito di come questo popolo senza lavoro possa sopravvivere in Bosnia Herzegovina. Penso però che sarebbe più facile e veloce creare una pace giusta proprio lavorando insieme, creando una società in cui ognuno per il proprio lavoro riceve il medesimo premio e con questo può aiutare la propria famiglia. Questo è il primo passo per creare un clima di fiducia, di tolleranza e di convivenza insieme in questo paese». La comunità internazionale è stata sempre presente, ma a suo modo. «Non posso dire tutto quello che so - sorride sempre il cardinale -. Sono molto triste quando penso che tanti e tanti soldi sono arrivati in Bosnia-Herzegovina ma pochi si sono usati per investire. Molti si sono persi per strada. Io so tante cose ma non le posso dire. America e Europa hanno annunciato l'invio dei fondi ma io non ho visto dove sono andati a finire. L'Europa entra molto lentamente in questo paese. Ma prima di tutto dovrebbe entrare con i suoi principi democratici, portare investimenti per dare speranza e prospettiva a questo popolo, perchè rimanga e rinnovi questo Paese come stato democratico e come stato europeo».


Nel 2012 si ricorda il ventesimo anniversario dell'inizio dell'assedio di Sarajevo.
«Non parlo volentieri di questo perchè durante la notte spesso me lo sogno» dice il cardinale che poi però non si sottrae alle domande e non lesina le risposte. «Ho ricevuto questa arcidiocesi nel 1991 - inizia -. Il beato Giovanni Paolo II ha consacrato me come arcivescovo il 6 gennaio di quell'anno. Sono entrato a Sarajevo e sognavo un futuro bello e di speranza perchè arrivavo dopo il comunismo, con la democrazia, avevo in mente tanti progetti. Ma subito tutto è svanito perchè proprio nel ‘91 è scoppiata la guerra».
«Durante il conflitto sono stato sempre a Sarajevo e in Bosnia Herzegovina - ci tiene a sottolineare -, ho girato tante volte in modo segreto perchè era molto pericoloso, lo ho fatto per dare coraggio ai miei sacerdoti e al mio popolo. Anche in questa città io ero quasi l'unico capo religioso rimasto, perchè tutti erano andati via. Ogni volta che parlavo pubblicamente contro la guerra, subito ricevevo qualche granata sul vescovado». Un aneddoto raccontato con il sorriso di chi l'ha scampata bella: «Una volta un mio sacerdote mi disse: arcivescovo... parla, parla, rimarrai senza testa, non solo senza casa. Era molto pericoloso parlare pubblicamente di verità e giustizia. Grazie a Dio sono rimasto vivo e sono sopravvissuto in modo quasi normale. Perchè non è facile sentire migliaia di granate sulla testa e rimanere normali».
«Mi si chiede che testimonianza può dare oggi la chiesa cattolica qui a Sarajevo? Durante la guerra - risponde il cardinale - un giornalista mi disse: l'unica cosa che funziona qui è la chiesa cattolica. I miei sacerdoti non sono stati santi ma coraggiosi, hanno testimoniato una speranza, hanno dato il coraggio per sopravvivere. Durante la guerra hanno aiutato tutti a livello non solo spirituale. Dopo la guerra, tanti sono ritornati e hanno cominciato a ricostruire tutto quello che era stato distrutto, ovvero quasi il 60 per cento della mia arcidiocesi».
Il cardinale Puljic è molto devoto a al beato Giovanni Paolo II che fortemente volle andare a Sarajevo durante l'assedio e che definì la capitale bosniaca la "Gerusalemme d'Europa". «La Gerusalemme d'Europa in realtà è da ricreare - ammette il porporato -. A settembre avremo il convegno con la San Egidio per costruire un clima positivo per la pace, la convivenza e la tolleranza. Siamo diversi, ma grazie a Dio non è peccato. Bisogna creare un clima per rispettare e collaborare, oggi la politica manipola la religione e questo è molto grave».
Qui a Sarajevo convivono minareti, campanili cattolici e ortodossi, sinagoghe: «Ogni gruppo vuole dare una testimonianza di presenza. Ogni moschea, ogni chiesa significa la nostra identità, chi siamo. I nostri profughi, quando tornano, prima di tutto vogliono ricostruire la chiesa, perchè la chiesa significa esistere per cattolici, ortodossi, la moschea per i musulmani. Il problema è che di fronte a tante moschee che crescono come funghi, io qui a Sarajevo da 13 anni aspetto il permesso per costruire una chiesa. Con la gente in strada non c'è problema. La gente ha simpatia per la chiesa cattolica; ortodossi, musulmani, ebrei ascoltano la nostra parola».

Federico Frighi


05/05/2012 Libertà