giovedì 29 luglio 2010

Il cardinale Puljic: l'Europa non dimentichi la Bosnia-Erzegovina

«L'Europa non dimentichi Sarajevo e la Bosnia-Erzegovina. Siamo tutti una grande famiglia». E' il messaggio che il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, ha consegnato alla delegazione piacentina nei Balcani in occasione del 15esimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Un pellegrinaggio laico per il quale il vescovo cattolico ha ritagliato quaranta minuti di una domenica mattina di un fresco luglio estivo, almeno nella capitale della Bosnia-Erzegovina. Cordiale, sempre sorridente, nell'udienza privata ha ricevuto - oltre a chi scrive - l'insegnante di religione dell'Isii Marconi e consigliere comunale, Claudio Ferrari, nonchè il presidente dell'associazione "Bosnia oltre i confini", Medaga Hodzich.
«L'Europa ha dato un grande appoggio per creare uno stato in cui siamo tutti uguali, e questo è molto importante; però l'Europa deve entrare di più in questo paese, con leggi democratiche, come in una grande famiglia». Figlio degli accordi di Dayton, si parla della Bosnia-Erzegovina come di uno stato Frankestein: «Oggi abbiamo ben tredici governi! Mamma mia - esclama il cardinale in ottimo italiano -! E chi paga per loro? » Pulijc punta molto sull'uguaglianza dei cittadini di Bosnia-Erzegovina, indipendentemente da etnie e confessioni. «I miei cattolici non possono tornare nella repubblica serba di Bosnia. Se ne sono andati quasi in 320mila. Non può esistere uno stato dentro un altro stato! » Ancora: «Prima della guerra c'erano 528mila cattolici nell'arcidiocesi di Sarajevo. Oggi sono 213mila. L'Europa non vede questa situazione. Solo dice: è già molto che non sparano. Ma non è questa la questione. Bisogna creare una strategia per la pace e la convivenza. Siamo tre popoli (cattolici, musulmani e ortodossi) ma non è un nostro peccato. Occorre rispettare l'identità religiosa, le etnie ma anche creare un'identità nazionale. Noi siamo tutti uguali». Per il porporato «non si può ritornare alla convivenza prima della guerra ma occorre creare una nuova tolleranza. Tutti dobbiamo lavorare per questo fine».
«C'è un proverbio bosniaco - continua - che va a pennello per la nostra situazione: ai piccoli popoli viene messo sempre un grande cappello. In questo paese ci sono tanti influssi: America, Europa, Russia, Grecia, Turchia, Paesi Arabi. E' Dayton che ci ha creato». Si sofferma sulla Chiesa Cattolica in Bosnia: «E' in grande miracolo. Dall'Europa non esiste nessun fondo e nella mia arcidiocesi sono stati distrutti 600 edifici ecclesiastici». Ci vorrebbe un libro per raccontare le testimonianze dei tre anni di assedio che dal 1992 al 1995 schiacciarono Sarajevo. Puljic lo ha anche scritto: "Cristiani a Sarajevo", edizioni Paoline. In udienza ci tiene però a dare l'idea: «Eravamo senza luce, medico, acqua, gas. Mangiavamo solo riso, tanto che mi sono venuti gli occhi a mandorla - scherza -; nel mio giardino ho scavato un pozzo per trovare l'acqua, a 9 metri. Ci cadevano sulla testa granate giorno e notte. Se oggi ho qualche problema all'udito è per il loro assordante rumore». «La Chiesa oggi. Bisogna sopravvivere ma anche dare speranza ai sacerdoti e al mio popolo - prosegue Puljic -. Ho venti sacerdoti malati a causa della guerra. Ho cominciato a costruire una casa per loro ma con grandi problemi per i permessi». «Quando vado a Roma mi chiedono sempre: come va a Sarajevo? Domanda molto interessante, rispondo io... ». Parla di papa Benedetto XVI e ricorda l'impegno di Giovanni Paolo II per la pace: «Ha chiesto più di 270 volte la pace in Bosnia. Non per mio merito, ma come omaggio alla popolazione mi ha fatto cardinale. Quando è venuto, nel '97, è stato accolto da migliaia di persone. Ho conosciuto un musulmano, malato, venuto a vedere il papa allo stadio.. Per i dieci giorni successivi non ha più avuto bisogno di cure».
Al fianco del papa, allora, c'era il "piacentino" monsignor Piero Marini. «Una persona pratica, concreta, diretta» lo ricorda il cardinale. Sarajevo può essere ancora oggi una Gerusalemme d'Europa, come disse Giovanni Paolo II? «E' molto importante creare una capitale per tutti, non solo per i musulmani. Le autorità devono capire che la sicurezza dipende dalla convivenza di questa città. Questa deve essere una città per tutti. Io non parlo come politico o diplomatico ma come uomo».
Federico Frighi

Libertà, 25 luglio 2o1o


martedì 27 luglio 2010

A Srebrenica 15 anni dopo, un pellegrinaggio laico

Un pellegrinaggio laico sul luogo in cui solo quindici anni fa si consumò il peggiore massacro di civili in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.
Srebrenica, ovvero Potocari, a sei chilometri, il sito del memoriale, il sito della speranza sfumata. In questa cittadina della Bosnia Erzegovina, a pochi chilometri dalla Serbia, vennero uccise più di 8mila persone, a sangue freddo, colpevoli solo di essere musulmane. Altre quarantamila furono deportate in luoghi già islamizzati, decine di donne violentate in nome della pulizia etnica dei serbi di Ratko Mladic. Era l'11 luglio del 1995.
Quindici anni dopo, nell'indifferenza di una torrida estate, da Piacenza hanno percorso 1.200 chilometri e sono arrivati qui, moderni pellegrini del terzo millennio. Un piccolo gruppo guidato da Claudio Ferrari, professore di religione dell'Isii Marconi e consigliere comunale di Piacenza. Ma anche da Medaga Hodzic, bosniaco di Jajce, ingegnere, presidente dell'associazione "Bosnia Erzegovina oltre i confini" ed infaticabile costruttore di un ponte simbolico tra Piacenza, la città in cui vive con la famiglia, e la sua patria d'origine.
Srebrenica è oggi un mausoleo a cielo aperto, una cittadina racchiusa al fondo di una valle stretta tra montagne che sembrano i nostri Appennini, ricoperti da ciliegi, faggi e querce. Ma anche da distese di mine anti-uomo da recuperare e disinnescare. Cartelli rossi con teschi bianchi sugli alberi rendono così ancora più sinistro il percorso di avvicinamento se si esce dall'unica strada consigliata - non senza interesse - dalla polizia stradale bosniaca; famelica di multe come mai, per autosostenersi.
Un centinaio di case strette strette tra loro, alcune con i segni ancora evidenti della guerra, la maggioranza rattoppate alla bene e meglio. Qui vivono i serbi ortodossi fuggiti oggi da una Sarajevo sempre più musulmana. Qui vivevano i musulmani "cacciati" dalla pulizia etnica dei serbi. Ovvio che non siano ritornati. Intere famiglie sono state sterminate. Era sufficiente chiamarsi con un cognome musulmano per venire inseriti nella lista delle esecuzioni. Varnica, Vejzovic, Velic, tutti rigorosamente elencati in ordine alfabetico nella madre delle lapidi di Potacari. C'è anche un'intera colonna di Ibrahimovic. Lo "zingaro" del calcio ha i familiari originari di queste parti.
Tutto è pronto per la grande commemorazione del quindicesimo anno. Il memoriale inaugurato da Bill Clinton nel luogo dove l'Onu inviò le truppe olandesi "a difesa della città" è al centro di un set televisivo. Telecamere, fari, luci, treppiedi, zoom, obiettivi schierati ad immortalare quello che si annuncia il più grande funerale della storia moderna. Ben 775 casse bardate di verde con i resti di musulmani uccisi, identificati solo grazie al Dna, verranno per l'occasione aggiunte al fianco delle centinaia che già popolano il memoriale di Potocari. Ci si parcheggia l'auto proprio di fianco, sotto i tappeti cuciti dalle madri e dalle mogli di Srebrenica con i nomi dei morti.
Arrivano alla spicciolata i parenti, i politici, i militari, tutti coloro che hanno voluto portare la loro solidarietà in questo momento così privato e così pubblico allo stesso modo. «Ho quattro figli e mio marito qui sotto, cinque fratelli più in là» piange una donna con il velo indicando la parte opposta del memoriale-cimitero, dove le lapidi bianche portano tutte un'unica data finale: 11-07-1995. Il mondo, per Srebrenica, è finito allora. E' arrivata il giorno prima della celebrazione solenne, per evitare lo stress dei funerali trasmessi in diretta Tv. Altri non ce l'hanno fatta.
«Srebrenica, mi viene la pelle d'oca solo a sentire il nome» dice il custode della moschea di Travnik, Rasim Hadzida, una sorta di nostro arciprete ma laico, quando comprende la meta del pellegrinaggio. «Io là non ci vado; è troppo forte il dolore e la mia anima è spezzata» scuote la testa Vehid Gunic, presentatore tv e giornalista sportivo molto conosciuto nella ex Jugoslavia, una sorta di Bruno Pizzul bosniaco. La sua tragedia non si è compiuta lassù, nella città protetta dalle Nazioni Unite, ma a Sarajevo. Durante l'assedio una granata serba colpì una scuola elementare. Sua moglie stava insegnando in quella classe. Morì assieme a sei piccoli alunni. Oggi la scuola porta il suo nome: Fatima.
Federico Frighi


Da Libertà, 21 luglio 2010