martedì 13 novembre 2007

Ancora sul caso del vescovo Bregantini

Torno sul caso del trasferimento del vescovo Giancarlo Maria Bregantini da Locri a Campobasso. Ritengo molto significativa, al proposito, l'intervista concessa dal presule al quotidiano l'Adige del 10 novembre 2007. Bregantini, come molti sanno, è un trentino.


10/11/2007 08:05
RIVA DEL GARDA - «Mi sento come le foglie su un albero in autunno, ma tira un forte vento». Sono le 14.30 e, mentre il sole scende dietro la Rocchetta, il Garda viene spazzato dal «balinòt», il vento che scende da Tenno. È quello il momento in cui al Palameeting arriva monsignor Giancarlo Bregantini, il vescovo trentino di Locri-Gerace trasferito a Campobasso. Torna in mente una delle ultime frasi di Enzo Biagi e ci si immagina un presule smarrito e rassegnato. Ma Bregantini è venuto a Riva, invitato alla convention della Cgm, non per celebrare i funerali suoi e della lotta anti 'ndrangheta in Calabria ma per lanciare un nuovo messaggio di speranza. Monsignor Bregantini, molti pensavano di non vederla qui oggi. «Dico la verità. Inizialmente la mia idea era disdire tutti gli impegni presi. Cambiamo storia e vita, mi sono detto. Sarebbe però stato un po' morire dentro se avessi detto basta e avrei dato ragione a chi sostiene che la Locride senza Bregantini resta orfana. Invece non è così. Ho voluto esserci proprio per dire che nulla cambia. L'albero potato rinasce». I trentini cosa possono fare per Locri? «Continuare a essere vicini alla sua gente. Lo spostamento di sede non significa spostamento di ideali. Io chiedo ai trentini di dimostrare la loro fedeltà alla Calabria come hanno fatto con me. Le cose fatte con i trentini sono efficaci e hanno messo radici buone. Continuate a sostenerle». Ci sono o non ci sono state pressioni per il suo trasferimento? «L'iter è stato talmente rapido da non consentire pressioni. Monsignor Dini, che ha cessato il suo incarico per raggiunti limiti di età, ha chiesto di avere me come successore, tutti i vescovi hanno espresso il loro consenso così come i cardinali in assemblea plenaria. Poi c'è stata la firma del papa, ma è accaduto tutto in poche settimane». Come gliel'hanno comunicato? «Stavolta mi hanno chiamato a Roma, non come quando mi nominarono vescovo di Locri che trovai la lettera fra gli auguri di Natale. In Vaticano sono poi abilissimi (sorride) . Non ti dicono "lei vorrebbe, le piacerebbe", ma "guardi, questa è la lettera del Santo Padre, lei non ci dica se è d'accordo, ma ci dimostri il suo assenso"». Mai pensato di dire no? «Sì, molte volte. Specialmente nei primissimi giorni il combattimento interiore è stato molto molto sofferto. Mi sono sentito come Gesù nell'orto: "Sia fatta non la mia ma la tua volontà". Ho parlato con molte persone, ma alla fine ho pensato che quando si obbedisce si affida la propria storia a chi è più grande di noi». E se avesse detto no? «Difficilmente mi avrebbero mandato. Però nei nostri ambienti, dove tutto si sa un po' alla volta anche sotterraneamente, i preti della mia diocesi ai quali ho chiesto di spostarsi, spesso in modo eroico, mi avrebbero potuto rinfacciare il diniego. Ciò sarebbe stato fonte di un'interiore debolezza e incoerenza che diventa incapacità di proporre cose alte. Se sei capace di dire sì di fronte a cose alte, poi il volo resta alto, altrimenti diventa basso e anche meschino». In questi giorni le sono arrivati messaggi dal Trentino? «Tanti, inizialmente di preoccupazione. Io non potevo rispondere perché dall'alto ti dicono "non smentisca né confermi" che non so nemmeno cosa voglia dire». Chi l'ha sostenuta di più? «Mio fratello Piero. Da buon contadino, quando gli ho chiesto il suo parere, è rimasto in silenzio dieci secondi e poi mi ha detto tre cose: "Hai sempre obbedito e continua a obbedire. Anche noi viviamo diversi stadi, prima eravamo genitori e ora siamo nonni, ma la vita continua. Infine cambiare ti farà bene, ti ringiovanirà». E sua mamma che dice? «Lei ha accompagnato le intuizioni di mio fratello e sta vivendo questo passaggio con grande serenità. Più di una volta mi ha detto "dai che ti passa, non esser così tragico". E poi, in dialetto, "boni e tristi i se trova dapertut". Lei, che ha 87 anni, ha consolato me». Esclude l'ingerenza di poteri forti nel suo trasferimento? «Sì. Piuttosto è adesso che potrebbero innescarsi logiche di innesto di poteri forti nel vuoto che io potrei lasciare. Questo pericolo c'è e per questo ora chiedo a tutti, autorità e semplici cittadini, di riempire questi vuoti con presenze fortificate. Bisogna dimostrare che esiste continuità e dare conseguenti segnali positivi, ad esempio nella scelta del vescovo che mi succederà. Tutto il dibattito di questi giorni servire a far riflettere il Vaticano». È stato rassicurato in questo? «Certo, il cardinale Re mi ha fatto una lunga telefonata per ribadirmi piena fiducia e dire che la mia è stata una promozione». A Campobasso? «Nel senso che il Molise è una regione strategica, perché vicina a Puglia, Campania e Roma. E Campobasso, come metropolia, ogni cinque anni guida la conferenza episcopale». In Molise però non c'è la mafia. «No, ma c'è una politica assistenzialista dominata dalla logica devastante delle raccomandazioni. A noi non tocca vincerle, ma creare una coscienza di pulizia interiore che è attesa dalla gente. Avremo altre fatiche e altre responsabilità». Il governatore trentino Dellai ha però parlato di "segnale inquietante". «Non la scelta ma la consequenzialità potrebbe diventare inquietante se non accompagnata da fatti veri e risposte efficaci. Di certo c'è gente che non dico abbia brindato come ha scritto Gianantonio Stella sul Corriere, ma ha comunque detto che ora è il momento di procedere in maniera forte. Tocca a noi reagire». Qualcuno ha sostenuto che il trasferimento è stato dettato da esigenze di protezione della sua integrità fisica. «Allora è stata un'eccessiva dimostrazione di affetto (ride) . No, guardi, non c'è motivo. Non ho mai attaccato personalisticamente la 'ndrangheta. La nostra tattica non è mai stata quella del muro contro muro perché la mafia se la contrasti in modo diretto, la rafforzi. Fai sapere loro che sono troppo importanti. Bisogna invece ridicolizzarla e svuotarla dall'interno come ha fatto Saviano con il suo libro "Gomorra". È un intellettuale ma fa più rumore di mille poliziotti o di tanti giudici perché ha fatto apparire la mafia cretina, stupida e vuota. La mafia è veramente fragile, si riveste della corazza che le diamo noi attribuendole forza. Lo insegna il libro dei Promessi Sposi: don Rodrigo e l'innominato erano paurosi. Il primo lo affronta fra' Cristoforo con quel dito alzato e il monito "verrà un giorno" che poi sarà vincente, l'innominato viene sconfitto dalla fragilità di Lucia che in realtà è più forte di lui». I ricordi più belli di questi 13 anni? «Sono i momenti in cui ho condiviso le lacrime e le paure della gente più fragile. L'ultimo è stato quando, io vescovo, ho partecipato ai funerali di un ragazzo suicida, Bruno Piccolo, il teste chiave nelle indagini per il delitto Fortugno. La mafia gli aveva bruciato il terreno attorno, togliendoli la speranza di una onorabilità. Lui era un "infame". Ai funerali non c'era né sindaco, né polizia, né magistratura, né la famiglia Fortugno, nonostante sia stato merito suo la scoperta degli assassini. Ho denunciato tutto questo in prima pagina nella mia rubrica sul Quotidiano di Calabria e il mio attacco diretto ha provocato un sacco di fastidio. Ma la Chiesa deve schierarsi laddove ci sono più lacrime. Se non sono consolate, le lacrime diventano macigni che ti impediscono di sperare, ma se sono consolate da una mano che ci sta vicino, le lacrime ti aiutano a sperare. Compito della Chiesa è consolare il popolo e schierarsi con chi ha sofferto di più. Io, consolando, ho dato una lezione di chiarezza a chi non lo fa, come spesso accade con le forze politiche o quelle del male».
Guido Pasqualini

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