venerdì 17 giugno 2011

Ambrosio: nella Chiesa spazio ai laici

Festa del Sacro Cuore
16 giugno 2011


Relazione del Vescovo mons. Gianni Ambrosio


La pastorale della montagna (e non solo):
segni di speranza con risorse limitate

Ringrazio tutti voi che manifestate, con la vostra partecipazione alla festa del Sacro Cuore, il desiderio di accrescere la nostra fraternità sacerdotale. Così mentre festeggiamo il Sacro Cuore di Gesù, accogliamo il messaggio fondamentale del Vangelo: Dio è amore. In modo suggestivo l’icona del Sacro Cuore di Gesù ci sospinge ad amarci gli uni gli altri rendendo così visibile l’amore di Dio che è in noi.
In questo spirito di fraternità e di comunione, riflettiamo insieme sulla nostra missione per poter operare insieme, in una pastorale non a caso detta ‘pastorale di insieme’, che affronta le sfide del tempo e del territorio, condividendo le attenzioni e le iniziative per rendere più missionaria la nostra azione ecclesiale. Le indicazioni che offrirò nascono dall’amore alla nostra Chiesa diocesana. Sono certo che questo amore coinvolge tutti noi, sacerdoti, come coinvolge anche tutti i fedeli laici, perché l’amore non fa distinzioni, neppure tra sacerdoti e laici. Tutti siamo chiamati ad amare la Chiesa diocesana, nostra madre. E nella Chiesa nostra madre, la misura dell’amore non è data unicamente dal lavoro che compiamo, dal ruolo che svolgiamo, dall’importanza che noi diamo a quel lavoro e a quel ruolo. Al primo posto sta l’amore: così siamo nella Chiesa e lavoriamo come Chiesa, sapendo che nell’amore il lavoro porta frutti. Proprio perché amiamo la Chiesa diocesana, la sentiamo nostra e ci facciamo carico di essa, vivendo in amicizia e in solidarietà con tutti i suoi membri.
Come sappiamo, nello scorso mese il decimo Consiglio Presbiterale ha concluso i suoi lavori: in cinque anni ha tenuto ventisette assemblee. Gli argomenti, oggetto di riflessione e di dibattito, sono stati parecchi. Tra questi spicca l’argomento “Pastorale della montagna”, con un documento presentato all’assemblea il 2 dicembre 2010 e votato il 3 febbraio 2011. Il Consiglio Presbiterale ha ritenuto di affidare a questo nostro incontro il compito di indicare alcuni orientamenti pastorali di attuazione. Alla luce della riflessione e del dibattito confluito nel documento, volentieri cerco di mettere a fuoco e di precisare alcune linee direttive. A fondamento di queste impegno ci deve essere una rinnovata presa di coscienza del nostro essere Chiesa e della nostra corresponsabilità pastorale che, in nome di Cristo, siamo tutti chiamati ad esercitare. Su questo aspetto è necessario soffermarsi, innanzi tutto per collocare la questione della pastorale della montagna all’interno della nostra pastorale diocesana. Considero inoltre queste indicazioni pastorali frutto di quella Missione Popolare diocesana che stiamo realizzando con l’aiuto dello Spirito Santo.

1. Il dono e l’impegno della comunione

Permettetemi di ripetere ciò che dissi lo scorso anno: “Siamo qui per condividere l’amicizia tra noi, come fratelli che vivono nell’unico presbiterio. E soprattutto siamo qui a condividere l’amicizia con il Signore Gesù. Perché la fraternità del presbiterio è in stretta connessione con la nostra identità di presbiteri, che si fonda sul nostro essere discepoli, sulla relazione di amicizia con Gesù, sul rimanere nel suo amore (Gv 15,9)”.
Proprio nell’amicizia con il Signore Gesù e tra noi, desidero ringraziare Dio insieme a tutti voi per il bene che ci ha dato di compiere nelle forme e nei modi più diversi. Penso a voi, cari parroci, che non vi risparmiate nel guidare le comunità a voi affidate. Sento il dovere di manifestare a tutti il mio apprezzamento per il lavoro che svolgete con dedizione e con entusiasmo. Resto spesso ammirato nel vedere la grande sensibilità nell’esercizio del vostro ministero presbiterale e la generosa dedizione dell’intera esistenza al Signore. Sono certo che, nonostante le difficoltà, che non mancano, voi non vi lamentate per il “pondus diei et aestus”, il peso del giorno e il caldo, come invece avvenne per i lavoratori della parabola evangelica che hanno sopportato il peso della giornata e il caldo (Mt 20,12). Semmai, ma la cosa è comprensibile e certamente non in contrasto con l’insegnamento evangelico, per molti si fa sentire il pondus annorum, il peso degli anni, così come appare a tutti pesante il cumulo di responsabilità che il ministero comporta. Permettete che rivolga una speciale parola di affetto a quanti sono i più anziani e che continuano a svolgere generosamente e in varie forme il ministero pastorale. Sono convinto che esista un eroismo quotidiano, spesso nascosto, nei nostri sacerdoti, l’eroismo di chi sa bene che la bellezza e la grandezza del sacerdote consistono nell’essere servi del gregge del Signore, un gregge da servire fedelmente nella quotidianità, davanti a Dio.
Vorrei che da parte di tutti fosse genuino e doveroso il canto del ringraziamento per la bellezza del nostro ministero, bellezza non oscurata dalla opacità dei nostri limiti, dalla stanchezza dell’età e del lavoro e dalle nostre molte insufficienze. Vorrei pure rendere grazie con tutti voi per il cammino, lento ma continuo, di comunione: sappiamo che questo è l’anelito del Cuore di Cristo e non può non essere desiderio vivo di tutti noi. In questa crescita di comunione tra noi, non dimentico il servizio di comunione che ogni pastore è chiamato a svolgere perché siano buone le relazioni all’interno della comunità e perché sia sincero il dialogo con ogni persona di buona volontà. Così la nostra Chiesa è segno di Dio nella storia, come ci ricorda il primo numero della Lumen Gentium: “la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano”.
Certo, non sempre il segno è trasparente, lo sappiamo. Per questo all’inizio della celebrazione eucaristica, confessiamo a Dio i nostri peccati e invochiamo la preghiera dei nostri fratelli, quelli che sono in cammino con noi e quelli giunti alla beatitudine: “precor (…) et vos, fratres, orare pro me ad Dominum Deum nostrum”. Nella certezza della misericordia di Dio e della preghiera dei fratelli, possiamo sempre essere operatori di comunione, considerando tutti come fratelli da amare e da aiutare con tutto noi stessi, sull'esempio di Cristo. Chiediamo con insistenza che il Risorto effonda su tutti noi il suo Santo Spirito perché si compia il desiderio del Padre: che tutti abbiano la vita, la vita di Dio, la vita di amore e di comunione. Lo Spirito ci renda partecipi della comunione trinitaria, ci faccia vivere della stessa vita della SS. Trinità. Questo mistero di comunione è fonte di fiducia e di speranza anche per la nostra vita pastorale. Se ci lasciamo condurre dallo Spirito di comunione, rafforziamo non solo la fraternità sacerdotale ma intensifichiamo anche la comunione ecclesiale e la corresponsabilità di tutti i fedeli. Ciascuno porta nella vita ecclesiale le sue qualità ma anche i suoi limiti e le sue pigrizie: tutti diventiamo più disponibili alla generosità, pur sapendo che siamo segnati da molte inerzie e da molte fatiche. La vastità del nostro territorio, la diversità dei luoghi e la complessa tipologia della popolazione sono una caratteristica del nostra realtà ecclesiale: sono una ricchezza grande e bella, ma esigono anche un laborioso impegno per edificare la comunione ecclesiale. Coltiviamo con particolare cura questo impegno a tutti i livelli, perché cresca la comunione entro le singole comunità e tra le comunità all’interno delle unità pastorali, nel vicariato e nella diocesi.

2. La pastorale della montagna e la chiesa diocesana

La pastorale della montagna è questione di tutta la diocesi. Sappiamo bene che due terzi della nostra diocesi è territorio collinare e montagnoso, un territorio, peraltro, molto vasto e anche molto complesso nella sua articolazione geografica. Sappiamo pure molto bene, come il documento evidenzia, ciò che questa situazione comporta: spopolamento, età media elevata, scarsità di attività economica locale, minor presenza di servizi. Nel documento presentato si accenna anche allo “spopolamento pressoché totale in un discreto numero di casi”. Questo cenno allo spopolamento quasi totale mi ha richiamato alla mente una relazione che ho avuto modo di leggere in questi giorni, una relazione sui molti ‘paesi fantasma’ o ‘borghi abbandonati’ della nostra Italia, paesi di origine antica con una propria identità e una propria storia, un tempo abitati ma poi lentamente abbandonati o quasi abbandonati. Anche se è difficile definire i criteri per identificare e classificare questi cosiddetti ‘borghi abbandonati’, nella relazione si afferma che “questa realtà (è) composta da 5.838 ‘paesi abbandonati’”. È una cifra davvero notevole: essa “rappresenta infatti il 72% di tutti i comuni italiani (sono circa 8.000 i comuni italiani)” (G. A. Montoli, Paesi fantasma e borghi da vivere: un patrimonio italiano, in Maggi Group Real Estate, Rapporto 2010. L’andamento del mercato immobiliare. Focus su Piacenza, Lodi e Milano, XI Edizione, Anno 2011, p. 25).
È difficile dire se la nostra situazione diocesana rifletta o accentui una situazione largamente diffusa in molte altre diocesi dell’Italia. In ogni caso, la descrizione della situazione del nostro territorio attuata nel documento presentato al Consiglio Presbiterale è precisa e anche severa: nel documento non si esita a parlare di mancanza di “prospettiva di futuro”, in quanto mancano l’economia, il lavoro, i servizi in molte zone collinare e montagnose della nostra diocesi.
Noi non siamo certamente in grado di offrire prospettive di futuro rispetto alla situazione economica-lavorativa. Ma dobbiamo offrire segni di speranza, come già è stato fatto nel passato. Sapendo però che, a differenza del passato, le risorse disponibili sono assai limitate: è molto diminuito e diminuirà di molto il numero dei sacerdoti a sevizio delle comunità. Sapendo anche che, per continuare ad essere un segno di speranza in montagna, come anche negli altri territori e nei diversi ambienti di vita (pensiamo in particolare alla pastorale giovanile e vocazionale), noi dobbiamo attuare innanzi tutto forme di pastorale di insieme: è una necessità urgente. Così come è necessario e urgente ritrovare ciò che è veramente essenziale nella nostra missione: altro punto, questo, meritevole di approfondimento.

3. Il cammino verso la corresponsabilità

I segni di speranza che provengono dal passato anche recente della nostra Chiesa sono tanti. Grazie alla receptio dell’insegnamento conciliare e al Sinodo diocesano (1987-1991), la nostra Diocesi ha preso coscienza di essere popolo di Dio, invitato a diventare sempre più vivo e operoso nel cuore della vita, nei paesi come nella città, attraverso l’azione coordinata e responsabile di tutte le sue componenti. La Missione popolare in preparazione al Grande Giubileo del 2000 ha consentito alla nostra comunità ecclesiale di prendere coscienza del fatto che il mandato di evangelizzare non riguarda solo alcuni ma tutti i battezzati. La Missione popolare che stiamo realizzando in questi anni va nella stessa direzione: far maturare in noi, battezzati in Cristo Gesù, la gioiosa consapevolezza di appartenere all’unico popolo di Dio e di diventare narratori della speranza cristiana in tutti i luoghi e in tutti gli ambiti.
Non deve stupire se la Missione popolare vuole innanzi tutto promuovere la crescita missionaria di quanti sono già assidui nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità e devono diventare il fermento per tutti gli altri. Queste comunità hanno la gioia di riscoprire la loro identità e la loro capacità di annuncio e di testimonianza, lasciandosi educare all’ascolto orante della Parola di Dio e accogliendo le domande, spesso inespresse, dei fratelli bisognosi di luce.
La Missione non si rivolge alle persone considerandole solo come destinatarie di un messaggio, ma sono piuttosto chiamate a rispondere a un invito, anzi all’invito di Cristo. Noi siamo Chiesa, perché Cristo, Parola eterna del Padre, ci convoca, ci raduna, ci immette nella sua amicizia, ci fa suo popolo, ci invia a continuare la sua missione.
Si tratta di risvegliare in tutti noi la fede in Dio e il nostro essere Chiesa. Perché la fede ecclesiale è per tutti un segno della presenza dell’amore di Dio e deve esserlo in modo sempre più limpido e riconoscibile. La fede è relazione profondamente personale con Dio, ma con una essenziale componente comunitaria. Ravviviamo questi legami che sono inseparabili: il legame intimo e personale con Dio e il legame con la comunità, sperimentando la bellezza e la gioia di essere uniti al Padre e di essere uniti ai fratelli e alle sorelle. Vivere la relazione di figlio e di fratello/sorella è particolarmente importante oggi. Lo è per tutti, lo è in particolare per i giovani, maggiormente esposti al crescente individualismo della cultura odierna che, come ben sappiamo, comporta come inevitabili conseguenze l’indebolimento dei legami interpersonali e l’affievolimento delle appartenenze. Nella fede in Dio siamo uniti nel Corpo di Cristo e diventiamo partecipi della sua relazione con il Padre: così, tutti uniti nello stesso Corpo, esperimentiamo e viviamo la comunione tra di noi.

Molta strada tuttavia resta ancora da percorrere. Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa. Pochi sono, in proporzione al numero degli abitanti delle parrocchie, i fedeli laici che sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi. O forse non siamo ancora in grado di suscitare vocazioni alla corresponsabilità, capaci di rispondere all’invito della missione. Sappiamo che non è semplice passare dalla considerazione dei fedeli laici come nostri ‘collaboratori’ – di noi, sacerdoti – al riconoscimento di ‘corresponsabili’ dell'essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di una coscienza solida in tutti i battezzati di essere Chiesa. Non è facile, ma dobbiamo renderci conto che questa è la strada da percorrere. Non è una scelta, come a volte si dice, è una strada obbligata: proprio per questo deve essere scelta perché sia la nostra strada. Mai dimenticando che questo passaggio non diminuisce affatto la responsabilità dei parroci. Occorre un cambio di mentalità che ci interpella come sacerdoti, così come interpella i fedeli laici. Nel rispetto delle vocazioni diverse e dei ruoli dei ministri ordinati e dei laici, occorre promuovere la corresponsabilità di tutti i membri del popolo di Dio.

4. La sfida della trasmissione della fede

Pur sapendo bene che le difficoltà di vario genere non mancano, noi, per essere fedeli al mandato del Signore, non possiamo rassegnarci alla conservazione dell’esistente. Anche perché vi sono ormai segnali che ci costringono a constatare l’incepparsi della trasmissione della fede, soprattutto in riferimento alle nuove generazioni. Questa è la grande sfida da affrontare, come ci viene indicato dal Santo Padre e dagli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana. Questa sfida vale sia per la montagna che per la pianura, sia per i piccoli centri che per la città di Piacenza e di altri contesti urbani.
Il Signore ha mandato i suoi discepoli nel mondo e continua a inviare anche noi per la missione senza indicarci con precisione le vie da percorrere, senza offrirci una strategia definita. Ma il Signore ci ha assicurato la sua presenza: questa è la certezza di fondo. E questo è l’invito di Gesù, anch’esso fondamentale: praticare il suo stile, lo stile di Gesù. Noi siamo al suo sevizio: è lui che, con lo Spirito, chiama e attrae a sé per offrire a tutti la vita e la gioia piena.
Fiduciosi nella grazia dello Spirito, che Cristo risorto ci ha garantito, dobbiamo far fronte alla sfida della trasmissione della fede. Non solo e non tanto per il ‘fare’ della nostra Chiesa, ma per l’ ‘essere Chiesa’, non solo per migliorare o riformulare l’impostazione pastorale in montagna e in pianura, ma per aiutarci ad essere popolo di Dio nel Corpo di Cristo, per non smarrire la nostra identità e per non venire meno alla nostra missione.
La Chiesa esiste per la missione e nello stile evangelico affronta le sfide. Nella nostra realtà diocesana sono molti i frutti della missione ecclesiale del passato, missione che ha segnato la storia, il costume, il volto delle comunità. Passando nelle vallate, non si può fare a meno di scorgere i tanti campanili, segni di una tradizione ricca e coraggiosa. Forse oggi a noi risultano troppi questi campanili, sia per il ridotto numero di sacerdoti sia per le molte strutture, che esigono cura, tempo e danaro. Ma non possiamo non esser stupiti e ammirati nel vedere i tanti segni della fede del popolo di Dio che, pur nelle ristrettezze economiche e nelle difficoltà dei tempi, ha pensato alla trasmissione della fede e ha favorito il senso di appartenenza ecclesiale, conservando con cura le antiche chiese o costruendo nuove chiese. Anche per i cristiani dei secoli passati non è stato semplice né facile porre segni di speranza. Ma l’hanno fatto con fiducia e con gioia. La memoria di questi nostri fratelli dice a noi che occorre partire da qui, dalla fiducia e dalla gioia. Questo è l’atteggiamento di fondo dei discepoli del Cristo Risorto. La fiducia e la gioia sono la base della vita credente e sono la prima forma della missione. Noi sacerdoti e le nostre comunità dobbiamo aprici a questo dono pasquale. Così nella nostra preghiera, nella pratica della fraternità, nella pienezza di umanità, nella carità vissuta come pratica quotidiana attestiamo la bellezza dell’opera di Dio che in Cristo ci ha riconciliati in lui e ha invitato noi a fungere da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzo nostro: “vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (cf 2 Cor 5, 17-20).

5. La vicinanza

La vicinanza della Chiesa alle persone e al territorio – la parrocchia come casa tra le case – è l’attenzione pastorale di base. Nel passato questa vicinanza è stata espressa sia in montagna (non sopprimendo le parrocchie, anche se molto piccole) come anche nelle periferia di Piacenza, con la costruzione di nuove parrocchie. Come la parrocchia è casa tra le case, così è il prete, uomo in mezzo agli uomini: per favorire l’incontro delle persone con Cristo.
Come esprimere la vicinanza della Chiesa senza riferirci esclusivamente all’edificio-chiesa, al campanile e neppure alla figura del sacerdote? Certo, siamo ben consapevoli dell’importanza del parroco in una comunità. Nella Nota pastorale dei vescovi italiani Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia troviamo scritto: “senza sacerdoti le nostre comunità presto perderebbero la loro identità evangelica, quella che scaturisce dall’Eucaristia che solo attraverso le mani del presbitero viene donata a tutti” (n.12).
Allora ci poniamo seriamente la questione: come esprimere la vicinanza della Chiesa, sapendo che i sacerdoti sono pochi (e diminuiranno di molto) e che la comunità cristiana, che ha bisogno di nutrirsi dell’Eucaristia, non potrà gioire di questo dono ogni domenica. Credo che, come è già avvenuto in altre fasi della nostra storia cristiana, il futuro della vita cristiana e della nostra Chiesa dipendano dalla missionarietà di tutto il popolo di Dio e dal moltiplicarsi di piccole comunità o di gruppi di fedeli, come ‘luoghi’ dove è possibile sperimentare la fede in Cristo, organizzare la speranza ed esercitare la carità.

6. La qualità della celebrazione eucaristica

Spesso la pastorale della montagna – ma, in verità, non solo la pastorale della montagna – sembra essere ricondotta alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia, come se non contassero gli altri giorni della settimana e come se non esistessero altre forme di celebrazione.
Riconosciamo tutti la centralità dell’Eucaristia: Ecclesia de Eucharistia è il titolo dell’ultima enciclica pubblicata dal beato Giovanni Paolo II (17 aprile 2003). Sappiamo pure molto bene l’importanza della celebrazione domenicale dell’Eucaristia. La Chiesa come popolo che “Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui” (1 Pt 2,9) si edifica e cresce con l’Eucaristia.
Ma dobbiamo chiederci con onestà se nelle nostre celebrazioni proclamiamo le opere meravigliose di Dio e se edifichiamo veramente la comunione. Dobbiamo con serietà domandarci se il nostro modo di celebrare l’Eucaristia ci introduce alla bellezza del mistero, se alcune nostre celebrazioni sono davvero celebrazioni della liturgia cristiana, se sono “la modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore» (Sacramentum caritatis n. 35).
Nulla di strano in questi interrogativi: dobbiamo sempre nuovamente imparare a custodire – vorrei anche dire, spero senza eccedere – e imparare a difendere la celebrazione eucaristica perché manifesti, comunichi, attraverso i segni sacramentali, la vita divina e riveli agli uomini e alle donne il volto della Chiesa. Dobbiamo custodire, e forse anche difendere, la celebrazione eucaristica per offrire alla comunità la grazia di sperimentare la bellezza del mistero di Cristo, la gioia di essere ‘assemblea’ convocata. Pensiamo anche al sacerdote celebrante e chiediamoci come possa svolgere il suo servizio nella rincorsa affannosa delle varie celebrazioni.
Stiamo per celebrare il Congresso eucaristico nazionale, che si terrà ad Ancona il prossimo mese di settembre. Ritengo che nelle diverse comunità, oltre ai momenti di celebrazione in sintonia con la Chiesa italiana, vi possano essere anche momenti di approfondimento per aiutarci a ricuperare il senso genuino della celebrazione eucaristica.

Possiamo e dobbiamo procedere con fiduciosa convinzione in questa direzione. Anche per evitare la contro-testimoninanza di ciò che è la Chiesa. Sarebbe infatti molto strano se la Chiesa, “sacramento visibile dell’unità” dell’umanità, contribuisse, con una artificiosa suddivisione della comunità ecclesiale in minuscole parrocchie, ad accrescere il senso della frammentazione, anziché a porre segni di unità. Naturalmente questi segni di unità sono da porre non solo a livello celebrativo, ma anche a quello della concreta vita quotidiana della comunità ecclesiale e, quindi, dell’effettiva testimonianza di vicendevole servizio, di corresponsabilità dell’animazione delle comunità, di preghiera fatta insieme, di meditazione della Parola di Dio.
La direzione su cui procedere può contribuire a valorizzare sul serio le Unità pastorali, che in alcuni casi necessitano di revisione. Credo anche che, per valorizzare l’Unità pastorale, occorra soprattutto valorizzarne il centro, puntando decisamente su quelle comunità che hanno più servizi, specie scolastici e sociali. È a partire da un centro che si pensa e si lavora pastoralmente, dando così volto e figura all’Unità pastorale in una logica integrativa e in una visione di pastorale d’insieme. Questo spostamento di attenzione pastorale è molto importante: si tratta di mettere in conto un po’ di movimento, forse più nella nostra mente di ‘chierici’ che non in quella dei fedeli laici. Se la Chiesa ha un compito di sostegno nella ricerca della salvaguardia delle piccole comunità, essa deve dare il proprio contributo offrendo la testimonianza dell’unità. E questo vuol dire concretamente che offriamo un futuro alle nostre piccole parrocchie se le aiutiamo anche a convergere verso centri più popolati, in modo che vi sia una maggiore corrispondenza tra la comunità ecclesiale e la concreta realtà umana e culturale dei nostri paesi, assicurando la nostra vicinanza anche con celebrazioni significative.

7. L’équipe animatrice e il referente parrocchiale

Nel documento presentato al Consiglio presbiterale si legge: “si sta cercando di far nascere la figura, oltre quella del parroco e del diacono, del referente parrocchiale che tenga i rapporti tra il parroco e la singola parrocchia”. Accolgo la proposta: ritengo che si debba procedere su questa strada, in quanto l’esigenza è seria e merita di essere attuata. Suggerisco qualche spunto di approfondimento e un possibile cammino.
Innanzi tutto si tratta di dare effettivo spazio al riconoscimento di un compito diversificato ma condiviso all’interno dell’unica missione, come ci è stato ricordato dal Concilio Vaticano II (cf Apostolicam actuositatem, n. 2). Possiamo fare ricorso alla categoria di ‘ministero’ per caratterizzare i diversi profili vocazionali di quest’unica missione. Ma non dimentichiamo che questa categoria di ministero è ancora molto ecclesiastica. Ho il sospetto che il suo uso in riferimento alle vocazioni laicali abbia rischiato, e rischi tuttora, di non rispettarne la vera natura. Quindi facciamo pure ricorso a questo termine, ma con una certa prudenza, per evitare visioni molto clericali, al di là delle nostre lodevoli intenzioni. Il Concilio Vaticano II ha invitato i sacerdoti a immaginare e valorizzare il panorama vocazionale partendo dalla vocazione laicale ed esprimendola al plurale con questa espressione: “charismata laicorum multiformia” (Presbyterorum ordinis, n. 9, EV 1/1272).

Non è il caso, mi sembra, di precisare a priori la figura del referente pastorale, ma di farla crescere all’insegna della ministerialità, facendo leva sulla disponibilità, sulla cooperazione, sul volontariato. Forse non è neppure il caso di soffermarsi più di tanto sulla questione del nome ‘referente’, che in alcuni posti ha assunto una connotazione anche giuridica, con il rischio di non favorire né la comunione né la pastorale di insieme. Poiché si tratta di caratterizzazioni vocazionali-ministeriali che corrispondono a criteri di servizio ecclesiale, queste figure, più che di precisazioni teoriche, dovranno soddisfare a condizioni di natura operativa. Andranno quindi valutate secondo la loro valenza pratica, in base alle scelte verso cui muovono, agli equilibri di valori che orientano, al servizio che prestano. Oltre che pratici, saranno poi i giudizi storici che diranno se, nel tempo, queste caratterizzazioni avranno promosso veramente la missione evangelizzatrice della Chiesa in un rapporto vivo e stretto tra Chiesa, vita quotidiana e territorio, nella fedeltà allo Spirito e ai suoi segni nei tempi.
Si tratta di partire da una disponibilità laicale che spesso esiste di fatto, quasi spontanea oppure già voluta dal parroco e in qualche modo riconosciuta dalla gente. Spesso questo servizio informale è limitato a una sola persona, attiva da tempo e assai generosa. Si tratta di allargare il senso di questa ministerialità diffusa, valorizzandola, promuovendola, precisandola. Senza cadere in vuote formalità e senza enfatizzare la responsabilità – si richiede un servizio che è possibile a tutti coloro che amano la Chiesa di cui sono membri –, occorre impegnarsi per far crescere la disponibilità a servire la comunità parrocchiale perché sia viva e svolga la sua missione.
Più che puntare su una singola persona, è quanto mai opportuno favorire la crescita di un gruppo di persone capaci di aiutare la comunità a non essere passiva, ma protagonista, lavorando insieme in modo coordinato, facendo sintesi delle varie esigenze. Una équipe animatrice del territorio, composta da tre o quattro membri, è già un grande segno di responsabilità battesimale e di missione evangelizzatrice ed è già quella prossimità dell’azione della Chiesa che agisce, come lievito, nel vissuto umano, con percorsi di missione semplici e immediati (dalla visita all’ammalato e alle famiglie ad altri servizi pratici).
Sarà opportuno prendere in attenta considerazione la proposta dell’équipe animatrice perché dalle esperienze in atto nei vari paesi si ricava che sono queste piccole comunità a offrire frutti migliori rispetto alle figure singole di ‘referenti’ od ‘operatori pastorali’. Infatti le figure singole, senza essere inserite in un piccolo gruppo, rischiano di non essere sempre l’espressione della prossimità, della comunione, della collaborazione (come ad esempio è avvenuto nella Chiesa tedesca, ed anche in altri luoghi in cui la figura del referente si è molto clericalizzata e burocratizzata).
Tramite questa équipe animatrice, in cui già vi sono funzioni diverse, tutte al servizio della comunità, si potrà successivamente individuare qualcuno (uomo o donna, anziano o giovane) cui viene chiesto il servizio di coordinamento per venire incontro all’esigenza di rendere non solo viva ma unita la comunità parrocchiale.
Queste indicazioni valgono per ogni realtà parrocchiale. Ma soprattutto nelle parrocchie ove il presbitero non è residente, è necessario che la comunità parrocchiale, a cominciare dal parroco o dall’amministratore parrocchiale, si senta impegnata ad una azione di promozione e di discernimento per arrivare poi a fare la proposta di servizio a qualche fedele laico riconosciuto idoneo e stimato dalla popolazione. Il servizio potrà essere precisato per tappe, da percorre con il parroco, passando da una collaborazione di base, minima ma sempre preziosa, ad responsabilità più articolata e continua.
Naturalmente si dovrà pensare alla formazione delle persone che si rendono disponibili per far parte delle équipe animatrici e diventare poi coordinatori o referenti pastorali. Vista la nostra situazione geografica che rende difficile la partecipazione a iniziative diocesane organizzate a Piacenza, si dovrà pensare di dare vita nei vari territori a momenti di formazione secondo una proposta diocesana. Si tratta di favorire un accompagnamento formativo non solo teorico ma anche pratico (partecipando in modo collaborativo nel Consiglio pastorale, ad esempio: l’occasione è buona perché l’Unità pastorale abbia il suo Consiglio pastorale), mirato non solo alla crescita della vita cristiana ma anche della ecclesialità concreta che si esprime in rapporti reciproci costruttivi sia con la comunità che con il parroco. Si dovrà anche pensare ad un mandato comunitario, pubblico, temporaneo, in cui far risaltare la ministerialità, la vocazionalità, la volontarietà, lo spirito di servizio, le relazioni di gratuità e di comunione.
Concludo. Sarà bene ricordare che la missione ecclesiale non si fonda sulle nostre capacità umane, ma sullo Spirito, sul suo dinamismo e sulla sua grazia. Ciò che è avvenuto per gli apostoli, diventati testimoni coraggiosi e resi capaci di trasmettere la loro fede in Gesù risorto, avviene anche in noi e avviene anche nelle nostre comunità. Lo Spirito Santo ci dona la capacità di dire e di testimoniare che Gesù è il Cristo, con ‘franchezza’, con entusiasmo, con fiducia. Invochiamo allora lo Spirito Santo e lasciamolo agire in noi, per avere anche in noi entusiasmo e fiducia e per donare entusiasmo e fiducia alle nostre comunità.

Adempimenti e incarichi

- Affido a ogni parroco il compito di dare lettura, almeno sintetica, di questi orientamenti nelle prossime riunioni del Consiglio pastorale della parrocchia, dell’Unità pastorale (ove esiste) e nei gruppi parrocchiali per discutere insieme come cercare di attuarli.
- Incarico i Vicari Episcopali territoriali e i Moderatori delle Unità pastorali di promuovere una valutazione coordinata delle celebrazioni eucaristiche domenicali e di riflettere insieme sull’attuazione degli orientamenti indicati.
- Incarico il Vicario Generale e i Vicari episcopali territoriali di promuovere i necessari confronti per favorire le forme più opportune per un cammino orientato ad un’effettiva pastorale di insieme, con una pratica pastorale più condivisa, nelle Unità pastorali e nelle zone pastorali. Una particolare attenzione deve essere dedicata alla pastorale giovanile, coinvolgendo il Direttore della Pastorale giovanile.
- Incarico il Vicario Generale e i Vicari territoriali di dare vita a uno scambio tra le comunità ecclesiali di montagna e di pianura. Iniziamo già con il prossimo periodo estivo, trovando alcuni sacerdoti disponibili per le celebrazioni domenicali in montagna, ma pensiamo anche all’inverno per vedere se vi è la possibilità di un aiuto infrasettimanale da parte di sacerdoti che operano in montagna.
- Incarico il Vicario generale, insieme al Vicario della pastorale, ai Vicari territoriali e ai direttori degli Uffici della Curia di dare vita a momenti di formazione specifica per le persone che si rendono disponibili per animare la comunità, per nuovi percorsi di missione, per il coordinamento della parrocchia come possibile referente. Si preveda anche una possibile forma di ‘mandato’ sia al piccolo gruppo di animazione sia possibile referente. Si esamini anche l’opportunità o l’obbligatorietà di inserire queste persone nell’Associazione Priscilla.
- Incarico l’Economo diocesano, insieme al Vicario Generale, al Direttore dell’Ufficio beni culturali e a un gruppo di consulenti, di valutare e attuare ciò che può essere fatto per una maggior corresponsabilità laicale riferita alla gestione e alla cura degli immobili e all’amministrazione delle risorse della comunità.

+ Gianni Ambrosio, vescovo

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