domenica 23 gennaio 2011

Ambrosio ai giornalisti: davanti a voi avete delle persone

Vi ringrazio per la vostra presenza e vi ringrazio per l’importante lavoro che svolgete. Un lavoro che il titolo del mio intervento – il titolo mi è stato assegnato – presenta come facente parte di quella missione grande e bella che è l’educare. Comunicare è sempre educare, recita il titolo. Troppo generoso?
Può darsi, ma nella sua generosità, il titolo coglie un aspetto significativo della comunicazione.
Si comunicano le notizie, le informazioni, le nozioni, i fatti della vita, ma alla fin fine la comunicazione è sempre da una persona ad un’altra persona o a molte persone. In qualche modo, pur attraverso molte mediazioni e mezzi assai diversi, si comunica sempre qualcosa di sé a un’altra persona, si racconta sempre qualcosa di sé, e si coinvolge l’altro nel proprio racconto. E l’altro accoglie sempre qualcosa che proviene da un’altra persona.
Se si riconosce che la comunicazione avviene tra persone, allora la comunicazione dovrebbe sempre ‘educare’, nel senso di aiutarci a crescere come persone, altrimenti non vi è comunicazione. Nel senso ancora di aiutarci a creare un contesto in cui si apprezzano le persone, in cui si ha il gusto della vita, in cui si insegna a ‘vedere’ e dunque ad aprire gli occhi, in cui si stimola la fame di ‘conoscere’, perché il dinamismo dell’intelligenza si liberi dal torpore che deriva dalla superficialità e dalla noia. Potremmo continuare, e la conclusione sarebbe sempre la stessa: altrimenti non si ha una comunicazione tra persone.
Questo può apparire molto distante dalla comunicazione odierna: è vero, lo sapete voi, lo so anch’io, lo sappiamo tutti. Ma sappiamo anche che in questo modo il nostro contesto non è molto bello e le nostre relazioni non sono molto felici. Ma non mi soffermo sull’analisi della nostra realtà. Vorrei invece suggerire qualche spunto di riflessione per ricuperare l’impegno educativo nel mondo della comunicazione. Lo faccio in riferimento al documento della Chiesa italiana Educare alla vita buona del Vangelo e in riferimento a una alleanza educativa tra le scienze dell’educazione e le scienze della comunicazione.

2) Parto dal documento Educare alla vita buona del Vangelo: è il documento in cui sono indicati gli orientamenti pastorale della Chiesa italiana. Mi soffermo sul n. 51, dedicato alla comunicazione della cultura digitale. Prima però vi è un cenno alla società che merita di essere ripreso, perché ci ricorda che siamo sempre persone in relazione che vivono nella stessa ‘casa’, anche se questa casa è grande, come la nostra città o come la società italiana o la società globale.
Ascoltiamo il testo: “La società nella sua globalità, infatti, costituisce un ambiente vitale dal forte impatto educativo; essa veicola una serie di riferimenti fondamentali che condizionano in bene o in male la formazione dell’identità, incidendo profondamente sulla mentalità e sulle scelte di ciascuno. Inoltre, i vari ambienti di vita e di relazione – non ultimi quelli del divertimento, del tempo libero e del turismo – esercitano un’influenza talvolta maggiore di quella dei luoghi tradizionali, come la famiglia e la scuola. Essi offrono perciò preziose opportunità perché non manchi, in tutti gli spazi sociali, una proposta educativa integrale” (n. 50). Non mi soffermo a commentare questo passo del documento, ma – ripeto – è buona cosa tenerlo presente, perché è al suo interno che si colloca il rapporto fra comunicare e educare.

Il n. 51 del documento è intitolato: La comunicazione nella cultura digitale. Sottolineo alcuni aspetti di questo numero. Innanzi tutto è indicata l’attenzione della Chiesa per il mondo della comunicazione: “La comunità cristiana guarda con particolare attenzione al mondo della comunicazione come a una dimensione dotata di una rilevanza imponente per l’educazione”.
Poi il testo esplicita il senso di questa rilevanza imponente per l’educazione. Innanzi tutto si prende atto della enorme possibilità di contatti: “La tecnologia digitale, superando la distanza spaziale, moltiplica a dismisura la rete dei contatti e la possibilità di informarsi, di partecipare e di condividere”. Subito però si aggiunge: “anche se rischia di far perdere il senso di prossimità e di rendere più superficiali i rapporti”. Per cui le possibilità sono grandi, ma incombe il rischio di superficialità dei rapporti e del venir meno della prossimità.
Vi sono parecchie implicazioni sociali, etiche e culturali che accompagnano il diffondersi di questo nuovo contesto esistenziale dovuto alla cultura digitale. Insisterei in particolare su questa implicazione: “Agendo sul mondo vitale, i processi mediatici arrivano a dare forma alla realtà stessa. Essi intervengono in modo incisivo sull’esperienza delle persone”. In poche parole si evidenzia ciò che i processi mediatici compiono, e cioè danno forma alla realtà, la presentano secondo il loro punto di vista e secondo le possibilità del loro strumento, e poi arrivano all’esperienza delle persone, fino a influire sulla loro esperienza. Quindi configurano il contesto in cui in viviamo e arrivano al cuore delle persone.

Poi il documento offre tre consigli.

Il primo è quello di educare alla conoscenza e all’uso dei media. Questi processi mediatici “vanno considerati positivamente, senza pregiudizi, come delle risorse, pur richiedendo uno sguardo critico e un uso sapiente e responsabile. Il loro ruolo nei processi educativi è sempre più rilevante: le tradizionali agenzie educative sono state in gran parte soppiantate dal flusso mediatico. Un obiettivo da raggiungere, dunque, sarà anzitutto quello di educare alla conoscenza di questi mezzi e dei loro linguaggi e a una più diffusa competenza quanto al loro uso”.
È importante il modo di usare i mezzi di comunicazione: “Il modo di usarli è il fattore che decide quale valenza morale possano avere. Su questo punto, pertanto, deve concentrarsi l’attenzione educativa, al fine di sviluppare la capacità di valutarne il messaggio e gli influssi, nella consapevolezza della considerevole forza di attrazione e di coinvolgimento di cui essi dispongono”.

Ma questo non basta: occorre anche tutelare i soggetti più deboli: “Un particolare impegno deve essere posto nel tutelare l’infanzia, anche con concreti ed efficaci interventi legislativi”. Questo consiglio è anch’esso importante: è riferito all’infanzia, con i soggetti più a rischio, ma credo che non si debba limitare questo impegno alla sola infanzia.

Infine un terzo consiglio, molto importante: “Pure in questo campo, l’impresa educativa richiede un’alleanza fra i diversi soggetti. Perciò sarà importante aiutare le famiglie a interagire con i media in modo corretto e costruttivo, e mostrare alle giovani generazioni la bellezza di relazioni umane dirette”.
Credo che valga davvero la pena di attuare questa alleanza educativa, alleanza tra i diversi soggetti, tra la famiglia, la scuola, le agenzie educative e il mondo della comunicazione.

3) Come esempio di questa alleanza permettetemi di citare l’ambito dell’università.
Alcuni anni fa mi capitò tra le mani un libro che mi incuriosì per il suo titolo: Teleduchiamo. Poi il sottotitolo precisava l’argomento: Linee per un uso didattico della televisione (a cura di R. Giannatelli e P.C. Rivoltella, Elledici, Torino, 1994) Poiché conoscevo gli autori di questo libro, mi sono lasciato incuriosire anche dal contenuto del libro. Gli autori di questo libro – anzi i curatori – sono Roberto Giannatelli e Pier Cesare Rivoltella Il primo è un professore salesiano che insegna all’università salesiana di Roma ed è anche il presidente del Med, Media education, l’altro, Rivoltella è docente all’Università Cattolica di Milano.
Non entro nel merito del libro. Prendo solo lo spunto per dire che la questione dell’educazione e della comunicazione convergono ormai da tempo come discipline – scienze della educazione e scienze della comunicazione – che vogliono porsi al servizio dell’educare e del comunicare. Così è nata, come movimento che viene dalla base, prima nei paesi anglofoni e poi anche in Italia, la Media Education, un movimento pedagogico e comunicativo che si è fatto carico della integrazione curricolare dei media nella scuola, come risposta alle esigenze della cultura massmediale, della vita individuale e sociale.

Cosa vuol dire questo?
L’educazione tende a promuovere le potenzialità umane dell’individuo, ad insegnargli il significato delle cose, aiutandolo a capire, a giudicare, a scegliere, ad acquistare autonomia di fronte alle cose e ai fatti.
Ma la comunicazione nelle sue varie forme va in questa direzione?
Prendiamo ad esempio una particolare forma di comunicazione, la pubblicità, che, come ben sappiamo, è una forma diffusa e pervasiva di comunicazione. La pubblicità assolutizza un qualche aspetto positivo di un prodotto, esalta le conseguenze derivanti dal possesso di quel prodotto. Il rischio di comunicare valori fittizi è incombente. Non solo per l’esaltazione degli aspetti positivi di un bene, ma anche per il fatto che quelle forma di comunicazione tende a non richiamare, anzi ad escludere, la riflessione che tiene presente anche altri aspetti, magari non così positivi o anche negativi. In questo modo la pubblicità, con la sua diffusione massiccia, con il suo ritmo martellante, tende ad inculcare un sistema valoriale ampiamente distorto, ma tende anche a non aiutare – forse a impedire – la stessa riflessione.

Si può agire su due versanti.
Il primo è un intervento educativo da parte dei genitori e della scuola in grado di situare la pubblicità nei suoi limiti, fornendo soprattutto agli studenti – dal bambino al ragazzo e al giovane - gli opportuni strumenti critici di difesa. Ma questo non vale solo per la pubblicità, ma per ogni forma di comunicazione.
Il compito educativo consiste nell’adottare una strategia educativa in grado di aiutare gli studenti ad orientarsi, a conoscere le funzioni positive e le tecniche della comunicazione, a comprenderne il linguaggio, ma anche a difendersi dai suoi eccessi aggressivi, a smascherare i suoi inganni, a sottrarsi al condizionamento ideologico che essa esercita con l’insieme dei suoi messaggi.
Si tratta dunque di un compito difficile, che ha come obiettivo ideale l’autonomia intellettuale – di pensiero, di riflessione, di capacità critica - degli studenti. Si tratta di educare all’uso dei media, sapendo che i media informano, ma possono imporre precisi messaggi valoriali, possono rispondere solo al business commerciale.
La Media Education è una proposta educativa-comunicativa, cioè un intervento didattico che aiuta a riflettere sui media, individua obiettivi, elabora metodologie, mette a punto strategie opportune.

Ma questo non basta. Allora vorrei suggerire questo: se tutti devono avere una passione per l’uomo, per la sua vita, per la sua dignità, per la polis, per la vita sociale, allora tutti devono avere una certa “cura educativa”. Anche chi comunica, chi è nel mondo della comunicazione e anche della pubblicità.
La cura della relazione in cui si manifesta la preoccupazione per l’altro non può essere assente nel momento in cui si entra nel mondo dei media. L’attenzione verso l’altro nell’esercizio del comunicare è basata sul fatto di riconoscere l’altro come soggetto: ma se non lo riconosco come soggetto, non riconosco me stesso come soggetto. Se l’altro è una cosa, anch’io sono una cosa. E non è bello né per me né per l’altro.

Concludo. Siamo tutti invitati a considerarci e a stimarci come soggetti e a riconoscere che vi è un legame sociale in cui tutti siamo coinvolti. Se con responsabilità diamo il nostro contributo per questo considerazione reciproca – siamo soggetti – e per questo riconoscimento – siamo dentro a vincoli di solidarietà che sono il nostro legame sociale – , allora comunicare è sempre educare.

+Gianni Ambrosio
Vescovo di Piacenza-Bobbio

Nessun commento: