domenica 28 ottobre 2007

In clausura il nuovo millennio

Chiara, nel Duemila

festeggerà la clausura


da Libertà, 23 dicembre 1999




Cosa ci si può aspettare da una vita chiusa in un monastero, dietro le
grate della clausura? Lo abbiamo chiesto a Chiara, per la quale il nuovo
millennio si apre con l'ingresso in convento. Mentre il conto alla rovescia
scivola verso l'anno Duemila con il suo strascico di luci e party celebrativi,
Chiara, 25 anni, agente immobiliare, sceglie di entrare in clausura nel
monastero di San Lazzaro delle Carmelitane di Santa Teresa. Penitenza e
delusione per come va il mondo fuori dalla grata? Macché. San Giovanni
Bosco, a chi gli chiedeva che cosa fosse la santità, rispondeva: «Per noi
è soprattutto una grande allegria». Chiara, se provi a farle i complimenti
per la scelta coraggiosa, si mette a ridere. «Guardi che questa non è una
dimensione di sacrificio. Io, se devo dire la verità, mi sono sempre divertita
nella vita, e lo sta facendo anche adesso». Ammetterà però che la scelta
è coraggiosa. «Ci vuole del coraggio ad imparare la dimensione della rinuncia
ma a rispondere non ce ne vuole tanto. Io non ho scelto nulla. Lo spirito
soffia quando, come e dove vuole». Certo però uno deve anche saper rispondere.
«E' il Signore che ha scelto questo momento. Ti prende una grande gioia
alla quale non si può dire di no. Ho lasciato la mia famiglia in lacrime.
Volevano che entrassi in clausura con l'anno nuovo. Ma in questa cosa c'è
un amore talmente forte dentro, che ti porta a prendere il largo e ad affidarti.
E quindi vai. Perché quella è l'unica dimensione possibile». Come ha conosciuto
la clausura? «Premetto che non ho mai frequentato la vita ecclesiale. Sono
stata con mia madre a Lourdes e, mentre comperavamo dei dolcetti, mi è
capitato fra le mani un opuscolo che spiegava in modo simpatico la vita
delle claustrali». Per lei che cosa è il Duemila? «Penso che questo sia
un momento di passaggio, in cui la Chiesa ha bisogno di testimonianze forti.
E' l'anno in cui i figli si riconciliano con il Padre». In che senso?
«E' l'anno della speranza. Dei grandi colloqui fra gli uomini e le religioni.
Spero che il Duemila sia l'anno dell'unità». Che cosa sogna una suora
di clausura? «Il sogno più grande è che l'uomo torni ad essere uomo e
non abbia più grandi pretese. Che ritorni a fare la volontà di Dio in maniera
semplice senza pensare a grandi cose che lo portano lontano dalla natura
e da quello che dovrebbe essere». Come si sente di fronte al mondo che
ha appena lasciato di là dalla grata? «Mi sento un fiore di questo prato
variopinto che è il mondo. Ognuno ha la sua bellezza, sceglie di essere
quello che vuole o che può essere nel momento presente. Non giudico male
le persone che cercano di passare il Capodanno nella maniera più goliardica
possibile. L'ho fatto anch'io». E lei come lo passerà? «Io vivrò di
poco. Per me sono finite le grandi feste. Dopo il Te Deum passerò il Capodanno
a vegliare con le sorelle aspettando la benedizione del Santo Padre. Tutti
i ragazzi che hanno deciso di vivere questo passaggio di secolo in un altro
modo, li avrò di fronte, nell'eucarestia. Magari non lo sanno, ma il Signore
è lì anche per loro». Che cosa lascia nel Novecento? «La pretesa dell'uomo,
ed anche la mia, di volere fare tutto di propria volontà e testa senza
chiedere consiglio a Dio o alla propria coscienza». E che cosa porta con
sé della sua vita passata? «A livello personale vorrei portarmi qualche
cosa che non ho: non vorrei far ridere con una parola troppo grossa, ma
è la forza del martirio. Lo diceva monsignor Tonini: per la chiesa comincerà
il nuovo martirio che non è fisico ma psicologico. Mi auguro di avere la
forza di dare un nome e comunicare agli uomini la speranza che c'è nel
mio cuore. Dovesse costare tutto. Il vero miracolo non è che Dio faccia
la volontà degli uomini, ma che gli uomini facciano la volontà di Dio».
Grazie, Chiara, perché ci tiene con i piedi per terra e ci fa pensare.
«Sì, però tenga presente che questa è una dimensione di gioia, non di
privazione fine a se stessa. Le assicuro che passo gran parte del mio tempo
a ridere. Non so se ridevo più fuori o più qui dentro».

Federico Frighi



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